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Autore: Fuuma    08/10/2009    4 recensioni
Italia.
Poco meno di dieci anni prima che DameTsuna fosse designato come Juudaime dei Vongola.
Quando ancora Lancia aveva una Famiglia.
Nelle strade di una calda Catania, sul cui sfondo si muovono l'erede dei Cavallone e due amici d'eccezione.
Loro si sono incontrati.
-Vincitrice del del Katekyou Fanwritter contest @Vongola Manor-
Genere: Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Itaria no Hi

Serie: Katekyou Hitman Reborn!

Characters: Vongola Family, Xanxus, Superbi Squalo, Dino, Mukuro Rokudo, Lancia

Rating: PG

Genre: Fluff

Pairing: //

Conteggio Parole: 7.074

Note: Nessuna coppia questa volta, vista l'ambientazione temporale della storia sarebbe stato un po' difficile, però mi sono divertita ugualmente a scriverla. Non ho particolari appunti da fare, a parte per quello che riguarda un personaggio: Hiba-chan. Non so perché, ma anche da moccioso me lo immagino mooolto simile a come è da adolescente, nel manga.

L'ho messa sotto "what if" per il semplice fatto che risulta un po' inverosimile il fatto che i bagarospi si siano incontrati prima della nomina a Juudaime di Tsuna. Come genere il What if mi piace poco, ma lo sopporto più dell'A/U e comunque vabbeh, in questo caso non si può fare altrimenti v_v".

Disclaimers: I personaggi di KHM appartengono ad Amano-sensei

Vincitrice del Katekyou Fanwritter contest indetto da Vongola Manor

 

.Iaria no Hi: Giorno Italiano.

I colori caldi di inizio Estate dipingevano le strade catanesi permeate dall’odore del Mar Mediterraneo che carezzava i lembi di una spiaggia silenziosa. I granelli dorati venivano spostati dal vento perché dipingesse le sue figure, mutandole ad ogni pigro soffio di aria calda.

Affondò con i piedi nudi nella sabbia, ripercorrendo le impronte che lui stesso aveva lasciato camminando sul bagnasciuga e fermandosi poco dopo, per dare il tempo alle onde di cancellarle e portarsele nell’acqua. Gli piaceva pensare che le rubassero, come se si fosse trattato di un tesoro prezioso che qualcuno, un giorno, avrebbe ritrovato nelle profondità marine.

Aveva dovuto arrotolare i pantaloni per evitare di bagnarli. Il completo che indossava era stato un regalo recente di uno dei tanti parenti italiani di papi; a stento ricordava il nome di tutti ma, qualsiasi fosse, lui aveva deciso di chiamarlo Salvatore perché la maggior parte dei cugini, zii e vecchi amici di famiglia di papi si chiamava così.

Tra le mani teneva le sue scarpe. Passò con i pollici sulla superficie nera e lucida, provando una sensazione simile a quando carezzava i tasti neri del pianoforte, nel salotto dell’immensa Tenuta estiva dei Gokudera. Era da quella Tenuta che arrivava, sfuggito al controllo delle decine di uomini, imbacuccati nei loro abiti scuri, che suo padre aveva messo a sua disposizione (un modo come un altro per dire che dovevano fargli da balia e tenerlo buono) e che lo seguivano ovunque andasse.

Aveva temuto di essere scoperto e punito quando Bianchi-aneki si era sporta dal balcone della sua camera ed era rimasta per tutto il tempo a guardarlo mentre si infilava tra i cespugli e usciva sulla strada. Avvolta in un grazioso abitino lilla, lei non aveva aperto bocca e Hayato era riuscito a scappare, trovando conforto nella tranquillità della spiaggia, stupidamente convinto di essere riuscito ad allontanarsi abbastanza dai possedimenti della sua famiglia.

Per un po’ aveva fatto avanti e indietro per la stessa decina di metri a cui i suoi passetti lo avevano condotto, ma presto si era stancato e aveva iniziato a camminare dritto, deciso ad arrivare alla fine della spiaggia per scoprire cosa ci fosse dopo.

Purtroppo ad attenderlo ci fu solo una cocente delusione.

Altre sbarre delimitavano il perimetro della spiaggia privata dei Gokudera e scavalcare queste sarebbe stato troppo difficile. Erano troppo alte, quando vi si avvicinò abbastanza, notò che erano anche troppo larghe per le proprie mani.

Poggiò tristemente la fronte ad una delle sbarre e rimase in attesa di venir trovato dalle sue guardie del corpo.

Tanta fatica e poi il mondo, per lui, si chiudeva lì.

 

Non aveva smesso di piangere.

Eppure lui -che aveva la stessa età ma era molto, molto, moooolto più ugualmente grande, eh!- si era assicurato che non si fosse fatto male da nessuna parte, aveva provato a consolarlo e teneva stretta la sua mano nella propria, incitandolo a non fermarsi.

«Non piangere, adesso la troviamo insieme la maestra.» aveva provato a ripetergli, mentre l’altro si era voltato verso di lui a guardarlo con occhi enormi, lucidi di pianto, e aveva tirato su col naso.

«Però… però io non mi ricordo che siamo passati di qui…» lo sentì dire, tra i singhiozzi che si facevano sempre più forti.

Era capitato che qualche signora si fosse fermata e, intenerita dalle lacrime del bambino, avesse chiesto loro “come mai due cinesini così piccoli se ne andassero in giro senza la mamma”. I due bambini avevano cercato di capire cosa dicessero, ma nessuno dei due conosceva una parola di italiano, così si erano allontanati senza poter spiegare che avevano perso di vista le maestre con cui la classe era venuta in gita e, soprattutto, che loro erano giapponesi, non cinesi.

Avevano continuato a vagare, fianco a fianco, nella vana speranza di ricordare il percorso fatto dalle guide e ritrovare così la loro classe, ma questo li aveva portati ad allontanarsi maggiormente dal centro della città, abbandonando le case popolari dalle mattonelle allegramente colorate di rosso scuro e giallo brillante, per avvicinarsi alle poche ville che trasudavano ricchezza.

«Y-Yamamoto… ho paura…» pigolò il più piccolo, passandosi più volte la manica di una felpa arancione sugli occhi.

Takeshi si fece più vicino a lui. Era tra i bambini più alti e più forti della classe e, senza un vero motivo, si era convinto che dovesse proteggere quelli più piccoli, specialmente Tsunayoshi Sawada, che, al contrario di lui, era il bimbo più piccolo e più fifone dell’intera scuola.

«Vedrai che non c’è niente di cui avere paura.» era sempre ottimista Takeshi, gli piaceva sorridere tanto e giocare fino a cadere sfinito e sporco di terra «E poi se smetti di piangere, quando troviamo la maestra, le chiediamo se ci compra il gelato. Va bene?»

A questa promessa lo sguardo di Tsunayoshi ricercò timidamente quello del compagno, annuendo piano e stringendo un po’ più forte la mano dell’altro, più grande della propria ma ugualmente sudata ed appiccicaticcia. Spiò l’altra mano di Takeshi, la sinistra, che teneva saldamente l’impugnatura di una mazza da baseball. Era andato a comprarla insieme a suo padre da un paio di giorni soltanto e da allora non aveva smesso di vantarsene entusiasticamente con i compagni, trascinandosela dietro anche quando andava al bagno.

Quando Takeshi si accorse dello sguardo curioso di Tsunayoshi, gli porse la mazza con un largo sorriso, uno di quelli che mettevano bene in vista entrambe le arcate di denti, disegnando sulla bocca un’ampia curva.

«Vuoi che te la presto?» chiese.

«I-io… non… so…» ma subito dopo scosse la testa ed i capelli castani si spettinarono ancora di più.

«Ok, allora andiamo avanti.»

«Mhm.»

Nonostante la loro buona volontà, non andarono molto avanti: una cancellata, che parve infinita, affondava le sue radici all’inizio di una spiaggia dorata e si innalzava per un paio di metri, vietando l’ingresso ai non autorizzati.

 

«Eddai, che ti costa? Se mi dici il tuo nome io ti dico il mio.»

Non appena negli occhi smeraldini si era riflessa la sagoma del bambino dai capelli neri e l’aria trasandata apparso da chissà dove, aveva provato un profondo astio nei suoi confronti.

L’altro bimbo, che si era guadagnato il titolo di Insignificante Frignone, teneva gli occhi bassi e stringeva convulsamente la mano del più grande, supplicandolo a bassa voce di andare via, ma l’altro continuava a blaterare inutilmente.

A parte sua sorella maggiore, Hayato non conosceva nessun altro bambino, non aveva compagni di classe perché frequentava lezioni private e i parenti più giovani avevano tutti più di vent’anni. Ma se erano come quello, era felice di non averne mai conosciuto nessuno prima di allora.

«Allora, me lo dici? Facciamo così, ti dico prima il mio. Mi chiamo Ta…»

«Taci.»

«Eh? Ma no, non mi chiamo così, il mio nome è…»

«Non voglio sapere come ti chiami, voglio solo che stai zitto e te ne vai via insieme a quel Frignone.»

Takeshi comprese a fatica la frase del bambino, parlava velocemente e aveva uno strano accento che non riusciva a ricollegare a nessuna delle regioni che aveva frequentato in Giappone insieme a suo padre. Anche i suoi capelli erano di un colore che non aveva mai visto prima, avrebbe detto che fossero stati biondo cenere ma il loro chiarore tendeva più verso l’argento.

Sorrise ed annuì, senza che ce ne fosse motivo.

Aveva appena scoperto dove nasceva la Luna.

«Adesso ti dico come ci chiamiamo, eh?» riprese, in direzione del bambino sconosciuto.

Lasciò la mano di Tsunayoshi, ma prima che questi potesse iniziare a piangere spaventato, si spostò alle sue spalle, per spingerlo un po’ più vicino alle sbarre della recinzione.

«Lui si chiama Tsuna e io mi chiamo Takeshi, veniamo dal Giappone e la maestra ci ha portato qui in gita con tutta la classe, ma non è che ho capito bene dove siamo perché lei diceva che siamo in Italia mentre la guida ci diceva che eravamo a Catania. E poi… oh, sì! Abbiamo sei anni e anche tu sembri abbastanza grande, quindi ne hai sei anche tu, vero Tsuki?»

Hayato rimase intontito dalla sbrodolata di parole che Takeshi gli aveva riversato addosso, si ritrovò ad indietreggiare sentendo il peso di ogni lettera che lo schiacciava, penetrando con prepotenza nei timpani e sciorinando nella testa l’allegria della sua voce. La trovò istintivamente fastidiosa e, quando si riprese, serrò i denti in una smorfia contrariata.

«Non mi chiamo Tsuki!» gli ringhiò contro, afferrando una delle sbarre della cancellata come se volesse stritolarla tra le piccole dita «E tu sei baka perché non hai capito che Catania è in Italia, quindi sia la tua maestra che la tua guida hanno ragione!»

A questa frase Takeshi non fu l’unico ad esclamare per l’ammirazione e la sorpresa. Tsunayoshi era scattato come una molla, alzando la testolina e spalancando la bocca in un urlo stridulo che aveva spaventato gli altri due.

«Cosa c’è, Tsuna?»

«La… la… la mano…»

Seguì lo sguardo di Tsunayoshi fino ad incontrare la mano bianca di Hayato che, oltre a stringere il cancello, si era stretta anche intorno alle dita del più piccolo; quando anche l’altro se ne accorse si tirò indietro all’istante, nascondendola dietro la schiena con aria colpevole.

«Beh, ora però andatevene.» mugugnò, poco udibile.

«Ma siamo appena arrivati! E poi dobbiamo ancora diventare amici. Diglielo anche tu, Tsuna!»

Chiamato in causa, Tsunayoshi si sentì di colpo osservato, arrossì mentre il proprio sguardo timoroso viaggiava dall’uno all’altro bambino, per poi boccheggiare qualche istante e finire per annuire.

«S-sì. Sarebbe bello.» confessò anche, con una vocetta che Hayato stentò a credere potesse appartenere ad un essere umano. Era invece più il suono di un pulcino appena nato, così flebile che bisognava tendere per bene le orecchie per sentirne le parole.

Arricciò le labbra, torturando quello inferiore con i denti e si stupì nell’accorgersi che Tsunayoshi lo stava guardando, nella speranza di una sua risposta affermativa. Anche Takeshi lo guardava, ma i suoi occhi non erano grandi come quelli dell’altro che invece erano immensi, di un castano brillante e intenso. Ritrovò la propria immagine in quegli occhi lucidi; si era avvicinato così tanto al volto del piccolo giapponese che aveva finito per sbattere la testa contro le sbarre e Takeshi era scoppiato in una genuina risata.

«Smettila di ridere, baka!»

«Ahahah, sei proprio simpatico, Tsuki!»

«Ti ho detto che non mi chiamo così!»

«Senti, che ne dici di venire con noi? Stiamo cercando la nostra maestra, ma se ci accompagni anche tu va bene lo stesso, così stiamo tutti insieme.»

La proposta era nata dal nulla, nello stesso modo in cui di solito proponeva agli altri bambini di giocare a baseball, o di cantare tutti insieme una filastrocca appena imparata o si offriva di accompagnare Tsunayoshi in infermeria perché si era fatto di nuovo male cadendo dall’altalena.

«E come faccio se c’è il cancello?»

Hayato era più diffidente, lo era stato dal momento in cui quei due bambini si erano avvicinati all’inferriata, probabilmente attratti dalla sabbia sottile che si trovava al di là.

«Lo scavalchi!»

«Ma sei matto?»

«Tu lo scavalchi, no? E se cadi ti prendo al volo io!»

«Ma così ti farai male anche tu, baka…»

«Ma tanto io sono forte.»

C’era da stupirsi davanti all’ottimismo e alla fiducia che Takeshi riponeva nelle proprie capacità.

Tsunayoshi, osservandolo, prese coraggio e si fece più vicino al cancello, bisbigliando qualcosa.

«Eh? Cosa dici, Tsuna?»

«Vi… vi aiuto anche io.» ripeté, alzando la voce.

Pochi istanti dopo Hayato aveva iniziato a scavalcare il cancello e, una volta giunto in cima, saltò.

 

Il Castello della famiglia Gokudera comprendeva almeno un centinaio di persone, tra familiari, guardie del corpo e servitù, ma nessuna di quelle persone aveva una risata così bella, a stento, anzi, ricordava qualcuno che avesse riso insieme a lui come accadde in quel momento.

Sdraiato sull’asfalto bagnato in parte dai primi granelli di sabbia, era atterrato sopra il corpicino di Takeshi che lo aveva preso al volo, mentre Tsunayoshi aveva infantilmente preteso di riuscire a salvare tutti e due dalla caduta e si era ritrovato per terra insieme a loro, in un abbraccio collettivo e in un aggrovigliarsi di corpi.

Quando Hayato aveva riaperto gli occhi, c’era stato un suono strano ad accoglierlo. Si era guardato intorno, si era sollevato in parte per osservare la faccia sorridente di Takeshi e poi il proprio orecchio era stato solleticato di nuovo da quel suono.

La risata di Tsunayoshi.

Ancorato ai corpi dei due bambini, il piccolo aveva iniziato a ridere, spaventato e al tempo stesso contento che il loro nuovo amico stesse bene.

Pochi istanti dopo e anche Takeshi aveva iniziato a ridere, infine, Hayato non era riuscito a trattenere il broncio apatico che spesso sostava sul suo visetto paffuto, aveva sentito il bisogno di incurvare la bocca e la risata era gorgogliata fuori, mischiandosi con quella degli altri due, nonostante fosse destinata a non durare a lungo.

«Hai visto, Tsuki? Alla fine ce l’abbiamo fatta!»

«E smettila di chiamarmi Tsuki, teme baka!» tornò a ringhiare, mentre il più alto era riuscito a tirarsi in piedi e recuperare la propria mazza da baseball.

«Davvero non ti chiami Tsuki?» domandò a sua volta Tsunayoshi quando anche lui fu in piedi, porgendo la mano verso Hayato per aiutarlo a fare altrettanto.

Il mezzo italiano osservò la mano e si trovò nuovamente a torturare il labbro inferiore con i denti.

«No.» rispose, decidendo infine di alzarsi senza alcun aiuto «Il mio nome è…»

«Ah! Guardate, guardate!»

Sospirò all’interruzione di Takeshi che agitava il braccio in direzione di chissà che.

Iniziava a preferire che quello stupido stangone non ci fosse tra i piedi, l’Impedito Frignone gli piaceva di più.

Lo guardò avvicinarsi a sé, alzare la manina e aggrapparsi con timore al lembo della camicia bianca che formava il completo italiano.

Sì, decisamente gli piaceva di più.

 

Attirava spesso gli sguardi delle ragazze.

Lucia, la figlia quindicenne del migliore amico di suo padre, si era spesso dilettata ad elencargli senza pudore i motivi per cui uno come lui era avvantaggiato quando si parlava di Cuccare.

“Alle ragazze piacciono i fighi con i capelli biondi e gli occhi azzurri.” Gli aveva detto l’anno scorso.

“Ma io non ho gli occhi azzurri.” Le aveva ricordato lui, facendosi abbastanza vicino perché lei potesse constatarlo da sola.

Forse non avrebbe dovuto fare una sciocchezza del genere, si era reso conto soltanto dopo che quel gesto era tra i più fraintendibili che potesse fare. Lucia gli aveva soffiato addosso che anche senza occhi azzurri restava il ragazzo più bono del mondo e si era alzata sulle punte delle ballerine, per annientare le ultime distanze. Baciandolo.

Dirle che lui non provava niente per lei, a parte una profonda amicizia, era stata la cosa più difficile. Poi, dopo neppure una settimana, suo padre era morto e lui si ritrovò obbligato a portare avanti tutta la baracca perché il vecchio gli aveva affidato la Famiglia, con tanto di tutor in miniatura.

Ma non c’era più nessuna Lucia con cui confidarsi.

«Forse dovrei tingermi i capelli.» borbottò Dino, portandosi la mano alla frangia spettinata, sotto lo sguardo adorante di una coppia di ragazzine che lo indicavano e bisbigliavano parole in dialetto siciliano.

«Che cazzo vuoi che me ne fotta, Cavallone!»

Accanto a lui, con l’espressione irritata di chi vuole spazzare via l’intero genere umano, Xanxus si dilettava a tirargli occhiatacce furiose e, contemporaneamente, prendeva a calci Squalo. Avrebbe preferito strappargli i capelli uno per uno, ma quel coglione d’un albino li aveva troppo corti. Meglio i calci in culo.

Dino represse una risata divertita.

«E’ una mia impressione, o da quando voi due vi conoscete il tuo carattere è peggiorato, Xan’?»

«Allora vuoi farmi incazzare anche tu?! E non osare mai più storpiare il mio nome se non vuoi che ti faccia sputare tutti i denti!» gli vomitò addosso il più grande, diciotto anni in tutto e una gran voglia di spaccare la faccia a chiunque gli si piazzasse davanti, per il semplice fatto che lui poteva permetterselo, che aveva la forza per farlo e che, in quanto erede diretto del IX Vongola, era un suo sacro diritto.

«Vooi! Invece di spettegolare come due comare, datevi una mossa e andiamocene a mangiare!» esordì Squalo.

Lo Stallone lasciò vagare lo sguardo tra lui e il diciottenne, soffermandosi per qualche istante di troppo al cappotto nero che Xanxus teneva sulle spalle, al di sopra di una camicia bianca infilata in un paio di pantaloni neri. C’era anche una cravatta a completare il suo look impeccabile, il tutto naturalmente preparato su misura da uno dei più famosi stilisti italiani con cui la sua famiglia era in contatto.

Nonostante anche Dino potesse vantare marche famose per i propri abiti, aveva sempre evitato di imprigionare il proprio corpo in vestiti troppo eleganti per lui, per quello bastava la vecchia divisa del college a cui era iscritto. Di solito, però, una maglietta rossa ed un paio di pantaloni comodi sul beige erano più che sufficienti e, nelle giornate di sole come quella, poteva permettersi anche di sfoggiare i Ray-Ban che Romario gli aveva regalato per il compleanno.

Estrasse gli occhiali dal colletto della maglietta, indossandoli prima di alzare il volto verso un cielo azzurrino dominato dalla palla dorata del sole. Dovette ugualmente schermarsi gli occhi per non venirne accecato e, quando li riabbassò alla strada, si accorse che Xanxus si era già portato dall’altro lato della strada e lo stava di nuovo insultando.

«Si può sapere perché avete tutta questa fretta? Ma a casa vostra ve lo danno da mangiare o aspettate le volte che vi chiedo di uscire per riempirvi la pancia?»

Se ci fu una risposta non la udì.

Non appena il verde del semaforo scattò nuovamente per i pedoni, un gruppo di dieci uomini in abito nero lo superò attraversando per primi la strada. Non vi trovò nulla di particolare, finché la propria attenzione non venne catturata dall’unico bambino presente che, davanti al gruppo, parlava sorridendo ad uno di loro. Quest’ultimo aveva un trucco pesante intorno agli occhi che rendeva il suo sguardo più profondo, si leggeva una certa dolcezza quando si rivolgeva al bambino, ma, non appena incrociò lo sguardo di Dino, gli occhi si assottigliarono divenendo due lame nere e con un braccio circondò le spalle del piccolo affrettandosi per attraversare.

Distratto da quella scena particolare, al primo passo che fece, Dino si ritrovò ad inciampare sul bordo del marciapiedi. Agitò le braccia a mulinello, cercando di rimanere in equilibrio, ma questo servì soltanto per farlo saltellare un paio di volte sul posto prima che si ritrovasse con le gambe all’aria e una sbucciatura sul ginocchio.

Da qualche parte la voce di Xanxus berciò nel suo ruggito: «Quando imparerai a camminare come si deve, moccioso ritardato?!»

E lui sospirò sconsolato, massaggiandosi la parte lesa.

«Sto bene, eh, grazie per esserti preoccupato.»

 

«Quel signore è caduto.» pronunciò la voce leziosa di un bambino di sette o otto anni, mentre si voltava ad osservare il ragazzo biondo che era appena inciampato.

Accanto a lui, dieci uomini si girarono contemporaneamente ed il più giovane tra loro, un ragazzo alto dai corvini capelli ingellati, gli occhi sottolineati dal kohl e l’aria da teppista messo a lustro grazie ad un Giorgio Armani, fece spallucce tenendo il braccio intorno alle spalle del piccolo, assicurandosi che nessuno si avvicinasse troppo a lui o che li guardasse per troppo a lungo.

«Lascia perdere, Mukuro-chan, non è affar nostro.»

«Secondo te si è fatto male, Lancia?»

Il giovane, Lancia, si bloccò sul posto abbassando lo sguardo su Mukuro.

Evitava sempre di rispondere a questo tipo di domanda, lasciava che il bambino ricambiasse il proprio sguardo con occhi che erano specchi d’innocenza e al tempo stesso laghi di misteri e cercava di convincersi che non c’era nulla di strano nel suo sorriso. È solo un bambino, si ripeteva. Ma ogni volta che la curva di un sorriso morboso ricalcava la falsa dolcezza di Mukuro, brividi ghiacciati percorrevano la schiena di Lancia.

«Andiamo a casa.» sentenziò, cercando di modulare la voce in un tono cordiale.

È solo un bambino ed il mio compito è quello di prendermi cura di lui, come la Famiglia ha fatto con me. Ed alla fine lasciava perdere ogni sensazione di pericolo che proveniva dal corpo del più piccolo per tornare a casa.

 

«Wow! Avete visto?»

Takeshi, Hayato e Tsunayoshi avevano assistito alla scena con gli occhi sgranati.

Il più alto non aveva smesso di indicare il gruppo di uomini in nero finché non era scomparso oltre il viale.

Avevano iniziato a camminare per una direzione a casaccio, finché Takeshi, senza rendersene conto, era passato tra due ragazzi fermi sul marciapiedi che urlavano in direzione della strada. Quando i due abbassarono gli sguardi, il più vicino a loro era Tsunayoshi che di colpo ebbe la sensazione che il proprio cranio venisse squarciato dalle occhiate minacciose dei due. Gemme di rubino incandescente ed iridi di argento fuso si riversarono in una doccia furiosa addosso al bambino che, tremando, si ritrovò ad indietreggiare.

«Vi decidete a togliervi dai coglioni o devo pensarci io?» ringhiò la voce del giovane dai capelli corvini e gli occhi rosso sangue. Nonostante non fosse particolarmente muscoloso, aveva un’aria superba che faceva istintivamente pensare ad una belva feroce in procinto di azzannare la propria preda.

«Voi!!! E levatevi di torno, maledetti marmocchi!» al suo fianco, un altro ragazzo, aveva uno sguardo che, se possibile, era perfino più impudente.

«Ehi voi due, non vi sembra di esagerare?» Poco distante, un ragazzo biondo dal sorriso simpatico, li raggiunse per poi affondare la mano tra i capelli di uno Tsunayoshi pietrificato dalla paura «Tranquilli piccoli, i miei amici abbaiano ma non mordono.»

«Chi cazzo sarebbe tuo amico, Cavallone?!»

«Eddai, Xanxus, dopo tutto questo tempo ancora non mi consideri un amico?»

«Per niente, coglione.»

«Tieni troppo alla tua reputazione di duro e puro.»

«E con questo che vorresti dire, eh?!»

«Niente, niente…»

«“Niente, niente” un paio di palle, ora tu o mi dici cosa intendevi o io giuro che ti…»

Xanxus era abituato a far tuonare la propria voce al di sopra di tutte le altre, in modo che ogni obbiezione venisse spazzata via. Parlava sempre con tono furente, infervorandosi ad ogni frase che sputava fuori e bruciando di passione. Ma dovette fermarsi quando il brontolio di uno stomaco affamato coprì in parte ciò che stava dicendo.

«Hiiii…» fece Tsunayoshi, coprendosi la pancia con entrambe le mani e tirando occhiate terrorizzate verso i tre giovani, che erano così grandi in confronto a lui da sembrare giganti «Io non… non volevo… lo giuro… Non uccidetemi…»

Per un attimo, davanti alla smorfia di Xanxus, ebbe la certezza che sarebbe morto. Dovettero pensarlo anche Takeshi e Hayato perché subito si posizionarono davanti al bambino, pronti a difenderlo, tanto più che il piccolo Gokudera diede uno schiaffo alla mano di Dino per allontanarla dai capelli di Tsunayoshi.

Questo servì solo per rendere più nervoso il diciottenne che, colorando di disgusto il proprio sguardo cremisi, tornò a parlare: «Si può sapere che diavolo ha detto questo moccioso idiota?»

«Da quanto è che non frequenti più le lezioni di giapponese, eh?»

«Non mi dirai che tu invece hai capito che ha detto, Cavallone.»

Era chiaro che i bambini -a parte Hayato che aveva preferito limitarsi a studiare la situazione in silenzio prima di decidere il da farsi- non avevano capito una parola del discorso dei più grandi e viceversa.

Dino sospirò e, subito dopo, rise divertito, mentre Xanxus ricominciava ad insultare un po’ tutti, nonostante non avesse alcuna buona ragione per farlo.

A questo punto Hayato bisbigliò qualcosa ai due e, non appena i bambini annuirono, sia lui che Takeshi tirarono un calcio negli stinchi dei ragazzi più vicini: Xanxus e Squalo. Afferrarono ognuno una mano di Tsunayoshi e scapparono via, veloci come lepri, dietro le risate di Dino che, nel frattempo, cercava di impedire ai due italiani di rincorrerli per farli fuori e finiva invece per inciampare tra i propri piedi e travolgere anche loro nella caduta.

 

«Ahahah, è stato uno spasso! Quando lo rifacciamo?»

«Macché rifacciamo, baka! Guarda che quelli potevano anche farci le scarpe di cemento

«Ma non sono pesanti? Come fa uno ad andare in giro con le scarpe di cemento?»

«Non sai neppure che significa?»

Il battibecco non continuò per molto, quando fu il turno di Takeshi di rispondere, lo stomaco di Tsunayoshi brontolò nuovamente, più forte di prima.

«Takeshi-chan, Tsuki-chan, voi non avete fame…» borbottò il piccolo, premendosi più forte la pancia.

Takeshi iniziò a ravanare nelle tasche dei pantaloni a tre quarti che indossava, trovò solo la carta vuota di un pacchetto di chewingum ed un fazzoletto usato e appallottolato. Nulla da mangiare.

«Mi dispiace, Tsuna, le mie merendine le ho lasciate sul pullman.» gli disse, sconsolato.

«Non fa niente.» rispose sorridendo l’altro.

Hayato sbuffò.

«Ti porto io in un posto dove puoi mangiare tutto quello che vuoi.» affermò, con un misto di arroganza ed orgoglio perché, a differenza di Takeshi, lui sarebbe risultato molto più utile.

 

Un’insegna al neon brillava ad intermittenza con luci blu, rosse e arancioni, scrivendo di volta in volta sullo sfondo nero, sopra la porta, “Il Pomodorino”.

Una volta entrati Takeshi e Tsunayoshi si erano guardati intorno con un senso di soggezione crescente, che era ulteriormente aumentato quando una coppia di camerieri dall’aria truce ed un tribale tatuato intorno al collo si erano avvicinati a loro.

Pochi secondi dopo e  i due uomini avevano iniziato ad ostentare sorrisi tirati all’indirizzo di Hayato, accompagnati da frasi in dialetto siciliano che cominciavano tutti con “Signorino”.

«Ohooo, ma allora sei importante!» aveva esclamato Takeshi mentre, seduti ad un tavolo, si abbuffava di un’enorme boccone di pizza alla marinara.

«E’ buonissima!» aveva invece detto Tsunayoshi, dopo aver passato una lunga mezz’ora a decidere la propria ordinazione, finendo perché fossero Takeshi e Hayato a decidere per lui, litigando su quale pizza avrebbe preferito tra la Marinara e la Quattro stagioni, che era stata anche la scelta del mezzo italiano. Alla fine avevano optato per chiedere al cameriere di prepararne metà dell’una e metà dell’altra, così che entrambi fossero soddisfatti.

«Che peccato che dobbiamo tornare dalla maestra, eh, Tsuna.»

Avevano iniziato a dimenticare di non appartenere a quella città.

«Però…» bofonchiò lui, ciondolando con le gambette dalla sedia troppo alta e guardando di sottecchi Hayato «…possiamo stare con Tsuki-chan ancora un pochino!»

Hayato era arrossito ancor prima di ricordare ai due che il suo nome non era Tsuki.

«Certo, se siamo in tre è ancora più divertente.»

«Sì. E poi Tsuki-chan adesso è nostro amico.» alzò la testolina, per riuscire a guardarlo meglio «Vero?» domandò timidamente.

Il piccolo italiano girò il capo dall’altro lato annuendo imbarazzato e allungò la mano per ricercare quella di Tsunayoshi e stringerla nella propria, imitato subito da Takeshi che metteva in mostra il suo largo sorriso.

«Allora adesso che sei nostro amico Tsuki, sappi che a me tocca il compito di proteggere Tsuna!» fece, gonfiando orgogliosamente il petto per il compito che si era scelto.

«Scordatelo! Lui lo proteggo io, tu puoi asciugargli il naso quando ha il raffreddore!» ringhiò prontamente Hayato.

«Ahahah, sei proprio simpatico! Allora tu gli terrai la porta quando va al bagno!»

«Ma… Ma io veramente non ho bisogno di queste cose…»

 

«Woooo! Guardate là, quel traghetto è Estremooo!»

«Urlare a questo modo è una violazione del regolamento della Namimori Gakuen sul comportamento civile degli alunni in gita. Se non la smetti, Sasagawa, ti morderò fino alla morte.»

«Sei troppo Estremo quando parli così difficile, Hiba-chan!»

«Non hai il permesso di chiamarmi a quel modo, erbivoro, per te sono il Rappresentante di Classe Hibari.»

«Ti chiamerò così solo quando giocherai con me alla boxe, quello sì che è un gioco Estremo!»

«Nii-san, dai, non litigare, dobbiamo trovare Tsuna-kun.»

«Tranquilla Kyoko, io, il Punch-Extreme Ryohei Sasagawa, troverò quei due!»

«Hai urlato ancora. Preparati ad essere morso fino alla morte.»

Nel momento in cui suo fratello si era offerto di andare con lei a cercare i loro compagni di scuola, Kyoko sapeva che sarebbe finita a quel modo.

Reggeva tra le mani un’enorme mappa della città, cercando di comprendere dove si trovassero e quale direzione avesse potuto prendere quello sbadato di Tsuna-kun che, non per nulla, i suoi compagni chiamavano sempre con il soprannome di DameTsuna.
Accanto a lei, due bambini, ciascuno più grande di un anno di lei, avevano iniziato ad azzuffarsi.

Uno di loro, quello con un cerotto sul naso ed una spruzzata di spettinati capelli chiari, indossava una salopette ormai completamente sporca di terra mentre cercava di difendersi da un paio di piccoli tonfa. L’altro invece, che indossava diligentemente la divisa della scuola e portava al braccio una fascia di stoffa rossa con una serie di kanji con la scritta Rappresentante di Classe della scuola elementare Namimori, continuava a picchiarlo. Non poteva avere più di sette anni, ma qualsiasi adulto si sarebbe trovato in difficoltà davanti alla forza con cui colpiva con i suoi tonfa.

Soltanto quando ebbe riempito di bernoccoli la testolina del povero Ryohei, Kyouya abbassò le proprie armi e sbadigliò annoiato, riprendendo come se niente fosse il cammino, precedendo gli alti due.

 

«E adesso da che parte andiamo, tu lo sai, Tsuki?»

Una mano di Takeshi era impegnata a stringere quella di Tsunayoshi, mentre l’altra faceva dondolare la mazza da baseball avanti e indietro.

«Tu inizia a smettere di chiamarmi Tsuki, yakyuu-baka!»

Dalla parte opposta a Tsunayoshi, Hayato non aveva smesso di dare contro al brunetto, trovando un nuovo insulto con cui chiamarlo.

«Però ancora non ce l’hai detto qual è il tuo nome.»

Infine, trascinato dai due bambini, veniva lo stesso Tsunayoshi.

«Mi chiamo…»

«A-ah!» Sembrava che il destino stesso volesse impedirgli di pronunciare il suo nome e, questa volta, prima che riuscisse a completare la frase, il braccio di un uomo gli cinse la vita sollevandolo di peso e tenendolo come se si fosse trattato di un sacco di patate «Ecco dove ti eri cacciato, maledetto pidocchio!»

«No! Lasciami, lasciami!» gridò lui, scalciando.

«Tsè, col cavolo che ti lascio, per colpa tua che te ne vai per i fatti tuoi ho dovuto mollare due signorine belle da morire e venirti a cercare!»

Tra le conoscenze di Hayato esisteva solo un uomo che non facesse altro che parlare di donne.

«Shamal!»

Il dottor Shamal, per l’appunto.

«Adesso che mi hai trovato puoi anche lasciarmi andare!» ordinò il più piccolo.

«Te lo puoi anche sognare, ragazzino.»

Terminò la frase e per pura fortuna riuscì a scattare indietro, prima che una mazza da baseball potesse colpirlo.

«Acc, mancato.» commentò Takeshi, che stringeva con entrambe le mani l’impugnatura della mazza e si era mosso per difendere Hayato.

«E a te, si può sapere che ti salta in mente?»

Takeshi stava già per rispondergli quando qualcosa lo colpì duramente alla testa.

Un attimo dopo ed anche Tsunayoshi venne colpito alla testa, ritrovandosi seduto a terra ad affondare le mani tra i capelli, singhiozzando per il dolore.

Quando i bambini si voltarono, incontrarono la plastica dura ed argentata dei tonfa del piccolo Rappresentante della loro scuola.

«Yamamoto Takeshi, Sawada Tsunayoshi.» pronunciò la voce del compagno di scuola mentre riposizionava le proprie armi lungo i fianchi, accompagnate dal movimento secco delle braccia. Kyouya aveva sempre un tono serafico che gli dava un’aria adulta, mefistofelica, e quando Tsunayoshi incontrò i suoi occhi di nero petrolio, rabbrividì senza più la forza di muovere un muscolo.

«Yo, Kyou-chan!»

Anche dopo il colpo ricevuto alla testa, Takeshi non aveva perso la sua aria bonaria e con un largo sorriso accolse l’occhiata che l’altro gli tirò dietro. Era un tipo strano Kyou-chan, un lupo solitario che preferiva giocare da solo sul tetto della Namimori Gakuen invece che scorrazzare con loro nel cortile, ma lo trovava simpatico e tanto bastava.

«Vuoi morire, Yamamoto Takeshi?»

«Eh? No, certo che no, oyaji dice che, se voglio, posso vivere fino a centocinquant’anni almeno!»

«Allora non chiamarmi mai più in quel modo.»

«Ma perché? È carino Kyou-chan e poi gli amici si dan…» la frase morì a metà: l’ennesimo colpo di tonfa lo sbatté a terra, facendolo rotolare davanti ai piedi di uno Tsunayoshi terrorizzato.

Dietro di loro, Hayato scalciava come un puledro, ancora prigioniero del braccio del dottor Shamal.

«Ehi tu, stupido con la faccia da gatto, osa avvicinarti al mio amico Frignone e te la faccio pagare! Ti spacco tutto! Ti disintegro! Ti… E tu vuoi lasciarmi maledetto dottore pervertito?!»

«Oya-oya, non importa se i tuoi nuovi amichetti sono giapponesi, australiani o francesi, non mi piacciono le liti tra bambini.»

«E allora mettimi giù, no?»

«Lo farei con piacere, ma se non ti riporto a casa subito farò tardi all’appuntamento con Susanna e… ah, se avessi visto che bella señorita è!»

«E chi se ne frega, lasciami, lasciami! Devo aiutare il Frignone!!!»

Non valsero a niente i suoi capricci, Shamal era un adulto: più alto, più grande, più forte di lui. Aveva più esperienza, aveva più potere. Shamal era quello che voleva diventare Hayato e, per farlo, aveva ancora troppa strada da fare.

 

«Fe-fe… Fermatevi!»

Una sola parola, resa suono dalla voce di Tsunayoshi che si perse come il ruggito di una giovane tigre nell’aria calabrese.

Quattro paia di occhi si volsero contro il bambino e lui, inginocchiato sull’asfalto, incapace di muovere un solo passo, si sentì nuovamente piccolo e misero, domandandosi con le lacrime agli occhi perché avesse stupidamente urlato a quel modo.

Strinse le mani a pugno, alla ricerca di quel poco di coraggio che, da qualche parte, avrebbe pur dovuto scorrere dentro di lui.

«E-ecco… Signore…» iniziò rivolto a Shamal, con un tono così basso che a malapena si rese conto di aver davvero parlato «Aspetti a portarlo via… cioè… io… noi…»

«Nanerottolo, non ho tempo da perdere.» gli sibilò contro l’adulto, stanco del suo temporeggiare.

Takeshi si alzò, tendendo la mano verso il più piccolo.

«Vuoi andare da Tsuki?»

«Mhm.» annuì lui.

«Allora su, andiamo insieme.»

«Yamamoto…»

La mano del più alto si strinse ancora una volta nella sua, lo aiutò ad alzarsi e, subito dopo, stavano trotterellando insieme alla volta dell’adulto, fermandosi davanti a lui e alzando i visetti paffuti.

Il dottore sbuffò, roteando gli occhi al cielo e digrignando i denti per pronunciare un paio di insulti in italiano a mezza bocca. Hayato gioì intimamente; conosceva quel modo di roteare gli occhi e borbottare sottovoce, lo aveva imparato e lo imitava ma, soprattutto, sapeva che dopo quello Shamal finiva sempre per dargli retta.

Quando il mezzo italiano toccò nuovamente terra con le scarpe, Takeshi e Tsunayoshi lo travolsero in un abbraccio. Non aveva calcolato questa eventualità e, nel rossore che bruciò sulle sue gote, spalancò gli occhi a sentire le labbra umide dei due bambini che si posavano alle guance, con un bacio ad ogni lato.

«Ah… ah… ma cosa?» balbettò, scattando indietro e pulendosi con il dorso della mano destra «Che schifo, non fatelo mai più!»

Takeshi rise, come c’era da aspettarsi.

Tsunayoshi invece si limito ad un sorriso rattristato. Scosse la testa e si asciugò in fretta le prime tracce di lacrime dagli occhi, per poi piegare il busto in avanti in un profondo inchino.

«A-arigatou, Tsuki-chan!» esclamò «La prossima volta vieni a trovarci a Namimori così staremo di nuovo tutti insieme e mangeremo ancora insieme e andremo insieme a vedere il mare e, se vorrai, anche i fuochi d’artificio!»

Hayato ne rimase talmente colpito, che dimenticò perfino che Tsuki non era il suo nome (perché era un nome stupido, una parola romantica con cui non un uomo duro come lui non voleva avere nulla a che fare). Strinse i denti in una smorfia che né Tsunayoshi e né Takeshi riuscirono ad interpretare, diede loro le spalle e, camminando per arrivare al fianco di Shamal, soffiò un flebile: «Andiamo a casa.» che perse molto del suo significato.

Takeshi e Tsunayoshi rimasero a guardare la schiena del bambino finché lui e l’uomo non svanirono dietro l’angolo; continuarono a tenere il braccio teso in alto, sventolandolo nell’aria per salutare ed, infine, lo riabbassarono.

«E’ andato. Che peccato.»

«Già.»

«Beh, su con la vita Tsuna, vedrai che prima o poi Tsuki verrà in Giappone e faremo tutte quelle cose che hai detto!»

Prima, però, dovevano riuscire a tornare sani e salvi in Giappone, cosa che non sembrava condividere l’unico bambino rimasto in silenzio che, gonfio d’irritazione, stringeva convulsamente le impugnature dei suoi tonfa.

Gli bastò un agile scatto per raggiungere le spalle dei due ed imprigionarli in una morsa dolorosa.

Nonostante Kyouya fosse più alto di Tsunayoshi, dovette alzarsi sulla punta di scarpe nere ed austere per riuscire a circondare il collo di Takeshi con il braccio destro e tirarlo a sé con uno strattone. Quando il piccolo Sawada vide come era stato accalappiato il compagno di classe, urlò di paura, ma non gli servì per evitare l’altro braccio del giovanissimo Rappresentante, che raggiunse il suo collo quasi con l’intenzione di strangolarlo.

«Chiudete la bocca e camminate, se non volete che vi morda fino alla morte.»

L“Hiiii!” di Tsunayoshi si perse soffocato in gola insieme ad ogni lamentela.

Kyouya continuò a trascinarseli dietro a quel modo, come una sorta di bambole di pezza aggrappate alle sue braccia, a cui rischiava di staccare la testa da un momento all’altro. Non li lasciò neppure quando Ryouhei giunse in corsa insieme a sua sorella, urlando contro di lui perché li aveva lasciati indietro. Non li lasciò quando Kyoko sospirò risollevata per aver ritrovato Tsuna-kun. E, beh, non li lasciò neppure quando Takeshi chiese a lui e a Ryouhei che cosa ci facessero in gita con i bambini della prima classe.

«Se Kyoko va in gita, io ho il dovere di accompagnarla anche sulla Luna! Questo significa essere un fratello maggiore estremooo!»

«Umpf, io sono il Rappresentante di Classe e posso frequentare tutte le gite che voglio e ora tenete la bocca chiusa o vi morderò tutti fino alla morte.»

 

Purtroppo non c’erano state altre occasioni per i bambini della scuola Namimori di fare una nuova gita in Italia.

Quando erano tornati a casa, tutto era ricominciato nella normalità di giorni pigramente uguali gli uni agli altri e Tsunayoshi era cresciuto, rimanendo comunque il DameTsuna di una volta.

Più o meno.

 

♠ ♥

 

Centinaia di voci, bisbigli, risate e sussurri risuonavano tra i vetri e le pareti dell’aeroporto ma, tra queste, le più squillanti erano quelle di un gruppo di ragazzi al gate internazionale.

«Gya-ahaha, Lambo-san è più veloce di tutti e salirà per primo sull’aereo!»

«Anche I-Pin vuole salire sull’aereo per prima!»

«Argh! Aho-ushi, se non la smetti di pestarmi i piedi ti imbottisco di dinamite e ti spedisco su Marte!»

«Ahaaa, sono stanco di portare anche le borse di Lambo e I-Pin, posso lasciarle a Tsuna-nii?»

«Hahi! Tsuna-san, dove sei finito?»

«Tsuna-kun è andato a fare il check-in, vedrai che ci raggiungerà subito, Haru-chan.»

«Waaaaa, una vacanza in Italia è proprio Estrema!!!»

«E non urlare nel mio orecchio, razza di imbecille patentato!»

«Come faccio a non urlare se devo esprimere la mia gioia estrema di vivere, Tako-heddo?!»

«Hayato, almeno tu, cerca di comportarti come un adulto.»

«Ah… A-ne-ki…»

 

Non molto lontano da loro un ragazzo di non più di quindici anni, dai grandi occhi nocciola, osservava il gruppo tra un sorriso divertito ed un sospiro esasperato. Al collo, sotto la stoffa di una felpa arancione col cappuccio, un anello era allacciato ad una catenina d’argento e una X blu sembrava galleggiare all’interno della parte bombata e lucida. Lo strinse tra le dita volgendo lo sguardo verso la vetrata che dava sulla pista d’atterraggio, portando gli occhi più in alto, dove il cielo azzurro si estendeva infinito oltre le strade e le infrastrutture.

Takeshi lo raggiunse gettandosi a circondare le sue spalle con un braccio.

«Neh, Tsuna, che ne dici, sarà come la prima volta?»

Tsunayoshi lo guardò.

Yamamoto aveva occhi brillanti ed allegri, li aveva avuti fin dall’infanzia.

«Lo spero, sarebbe bello.» rispose, mentre Hayato correva come una furia verso di loro, spintonando il giocatore di baseball, senza dimenticare di insultarlo e afferrare un braccio di Tsunayoshi.

«Tu, Yakyuu-baka, come osi mettere le tue sporche manacce su Juudaime!»

«Ahahah, lo faccio perché sono il braccio destro di Tsuna!»

«Che cosa?! Non provarci nemmeno a dire una cazzata simile! Solo io, Hayato Gokudera, posso essere il braccio destro di Juudaime!»

«Hiii, ragazzi, dai, non cominciate, ci stanno guardando tutti!»

Tsunayoshi alzò le mani verso i due, cercando di calmarli. Non è che ci credesse molto, ormai aveva capito anche lui che l’unico modo di far calmare i bollenti spiriti di Gokudera era farlo sfogare in insulti contro lo yakyuu-baka, l’aho-ushi e shibayo-atama, quindi tanto valeva lasciarlo urlare, sebbene, questa volta durò meno del solito.

Le braccia di Takeshi si allargarono e, quando caddero su di loro come veloci sparvieri, Hayato e Tsunayoshi erano già stati imprigionati in un abbraccio, stretti l’uno contro l’altro, con la fronte che sfregava alle spalle del più alto.

«Vedrai Tsuna, questa gita in Italia sarà uno spasso. E poi è come volevi tu, no? Tu, io e Tsuki, di nuovo insieme.»

«Eh?»

Uno sguardo interrogativo da parte del futuro Boss dei Vongola, la voce metallica che si annunciava attraverso gli altoparlanti dell’aeroporto, Ryouhei che urlava a squarciagola per chiamarli, sbracciandosi come un folle, e Yamamoto scosse il capo, sorridendo ed indicando verso il gruppo.

«Finalmente possiamo imbarcarci, era ora!»

Affondò con la mano destra tra i capelli di Tsunayoshi, scompigliandoglieli, accompagnato dall’allegro scampanellare che era la sua risata e corse via, precedendoli.

Ci volle un po’ perché anche Tsunayoshi si riscuotesse dai pensieri. Non aveva colto la frase di Takeshi, forse non ricordava neppure più del bambino dai capelli bianco-argento come la luna e dallo sguardo apatico, con cui in un giorno della loro infanzia ormai trascorsa, avevano passato momenti divertenti.

Fece spallucce, iniziando ad incamminarsi a sua volta dietro la scia del Rain Guardian, ma si voltò quasi subito e tese il braccio.

«Gokudera-kun, andiamo?»

«Certo Juudaime, ti seguirò ovunque!»

«Sì, ma non c’è bisogno che ti inginocchi! Dai, tirati in pie… Wha!»

«Gyaa-ahahah, Lambo-san torna nella sua patria in Italia e mangerà tanta pizza con le olive e anche tante uvette!»

«Argh! Aho-ushi ti farò pentire di aver calpestato la testa perfetta di Juudaime!!!»

«Gyaaa-ahahah, baka-dera non riuscirà mai a prendere Lambo-san!»

«Hiiii! Ma come fa Lambo ad avere ancora tutte quelle armi?!»

«Ahahah, i giocattoli di quel bambino sembrano sempre così veri!»

E tutto si concluse come di consueto: risate, urla, insulti ed un’esplosione in piena regola.

«Hiiii! Non arriverò mai vivo in Italia!»


.THE END.

   
 
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