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Autore: poeticmaiden    09/10/2009    2 recensioni
Sherlock Holmes può finalmente far ritorno alla sua amata Inghilterra, alla sua vecchia vita, al suo amico Watson. Tuttavia, una serie di eventi assolutamente imprevisti lo porteranno a riflettere sul significato di felicità.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Traduzione, AU | Avvertimenti: nessuno
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La gioia di un fanciullo Nota della Traduttrice: PoeticMaiden ha acconsentito che io traducessi questa commovente oneshot, permesso per il quale le sono estremamente grata. Spero che Tu, Lettore, possa apprezzarla, e che Ti sia di ispirazione quanto lo è stata per me. Bellis
(Il testo originale si può trovare qui)

Questa storia è stata scritta in parte per rispondere al prompt settimanale della comunità "Watson's Woes": sorpresa, ma prima di tutto perchè è rimasta a frullare nella mia mente per parecchio tempo. Questo è un racconto decisamente AU (Universo Alternativo), nel quale ho dilatato o ignorato alcuni elementi del canon cosicchè, nel momento del ritorno di Holmes dal suo periodo di assenza, Mary Watson fosse ancora in vita, e lei e Watson avessero due bambini.
Semplicemente non potevo togliermi dalla mente quest'immagine di Watson che gioca coi suoi due piccini.

Insomma - divertitevi!


La gioia di un fanciullo

Le foglie scricchiolavano piacevolmente sotto i miei piedi mentre mi facevo strada lungo il sentiero di campagna, ed ogni minuscolo schiocco sembrava esclamare, trionfante, con la medesima gioia che io provavo. Queste non erano le sabbie del Medio Oriente, nè le nevi del Tibet – erano le foglie dorate di quella che non poteva che essere l'Inghilterra, nella stagione autunnale.
L'Inghilterra! Persino la mia mente, non avvezza a sviluppare attaccamenti puramente sentimentali, non potè evitare di gioire al suono di quel nome – Inghilterra, la mia Inghilterra: casa.

La mia presenza lì in quel momento era testimonianza del fatto che avevo già più di una volta trasgredito alla mia summenzionata regola circa gli affetti. Mio fratello aveva obiettato, col massimo della fermezza, che recarsi immediatamente in campagna alla ricerca di un certo amico per motivi sentimentali non era la cosa più sensata da fare, considerando la precarietà della situazione in cui avevo lasciato il caso Moran, ma non avevo voluto sentir ragioni per agire diversamente.

Questo epilogo non avrebbe potuto definirsi completo senza il mio Boswell.

Ah, quella casetta con un alto muro di pietra a circondarla doveva essere quella menzionata dal paesano! Mi soffermai per un brevissimo attimo ad analizzare il luogo, che possedeva quella perfetta unione di antichità e di una selvatica nota di poesia da adattarsi perfettamente all'inclinazione inguaribilmente romantica di Watson, prima di riprendere a camminare, affrettando il passo, ora che la mia meta era in vista.

La mia mente corse innanzi, cercando di trovare qualche modo in cui potessi sorprenderlo - dopotutto, una resurrezione non accade tutti i giorni, e il mio lato teatrale pretendeva che sfruttassi la naturale stranezza della situazione a mio vantaggio.

Avevo già costruito un piano perfetto di come avrei potuto apparire nel suo studio, camuffato, e provocargli il maggiore shock della sua vita, ma questo prima che io avessi effettivamente messo piede a Londra e scoperto che lui si trovava in villeggiatura con la sua famiglia. Così, senza scoraggiarmi, avevo preso il primo treno per raggiungerlo, sperando che, alla fine, avrebbe potuto perdonarmi per averlo trascinato via da quello che avrebbe dovuto essere un idilliaco periodo di riposo.

Certo, non era proprio tutto ciò per cui avrebbe dovuto perdonarmi, vero? Avrebbe veramente voluto continuare a considerarsi il mio camerata, dopo aver capito che lo avevo ingannato così crudelmente?

La logica suggerì pacatamente al mio cuore che non avevo controllo alcuno sul futuro e che avrei dovuto correre il rischio, a prescindere dal risultato.

Mi avvicinai al cancello nel muro di pietra e mi bloccai, sentendo il suono di una risata provenire da dentro il recinto. Con una commozione alla quale non ero completamente preparato, riconobbi la prima voce: grave e forte, tuttavia unica nella sua euforia; ed ogni nota poteva appartenere solo al mio Watson. E le altre due voci - ma via, cosa avrebbero mai potuto essere se non voci di fanciulli, acute e squillanti, che innocentemente esprimevano al mondo il loro diletto?

Bambini?

Mycroft aveva parlato di 'famiglia' - suppongo che avrei dovuto ascoltare più attentamente, ma la mia agitazione era troppo grande, e avevo pensato solo a vedere la sorpresa sul suo volto, quando avrebbe scoperto che non ero veramente rimasto ucciso a Reichenbach. Non mi ero figurato nulla del genere, non ne avevo nemmeno considerato la possibilità.

Bambini.

Il cancello che conduceva al cortile era stato lasciato spalancato. Furtivamente avanzai sino al limitare, non volendo rischiare di farmi scoprire così presto, e cautamente sbirciai oltre la colonna di pietra.

Lo vidi - non come avevo fantasticato di vederlo, ma completamente diverso - e in un certo senso molto migliore, decisi, con mio gran stupore. Un altro Watson, uno che avevo immaginato potesse esistere, ma che non avevo mai veduto coi miei occhi.

Stava ritto nel bel mezzo del prato erboso, in maniche di camicia, coi capelli arruffati. Sulle sue spalle era arrampicato un fanciullino dai suoi stessi allegri occhi nocciola e col medesimo gioioso sorriso, mentre rideva dal profondo del cuore. Una bambina, i cui riccioli dorati danzavano nell'aria, saltellava vicino ai suoi piedi, ridacchiando ed osservando il padre con uno sguardo di inconfutabile adorazione.

E lui... lui stava allungando il collo per guardare in su, verso il viso del bambino, i lineamenti quasi oscurati dal fulgore del suo sorriso. "Ancora, papà!" strillò il fanciullo, e con una risata Watson iniziò a piroettare intorno, stringendo le gambe del piccino saldamente, quando le sue braccia si protesero verso l'esterno, mentre un riso deliziato si innalzava da entrambi, per il puro piacere di quel momento.

Li fissai, incapace di comprendere appieno la strana mescolanza delle emozioni che percorrevano il mio petto in rapida successione. Se fosse stato chiunque altro, avrei oltrepassato la scenetta senza sprecarvi una seconda riflessione - ma era Watson, il mio Watson, anche se, formando quelle parole nella mia mente, non sapevo più se fossi giustificato nel chiamarlo 'mio' - e non lo avevo mai visto così completamente... felice.

Mi resi conto giusto in tempo che la mia testa era ancora infilata nell'apertura, e la ritrassi dietro il pilastro prima di essere individuato. Sconcertato, mi appoggiai al muro, chiedendomi cosa avrei dovuto fare a quel punto. Sembrava che la logica fosse stata scacciata dalla vista di tanta candida emozione, e non potevo richiamarla, non importava quanto alta fosse la mia voce.

Che diritto avevo di turbare una tale felicità? Di piombare lì senza preavviso e riportarlo alla nostra vecchia vita? Era vero che avevo visto la luce dell'avventura nei suoi occhi mentre stavamo seguendo un caso insieme, tuffandoci nel mezzo del pericolo, e tuttavia riuscendo sempre a ritornarne fuori tranquillamente - ma questo non lo aveva mai reso così felice come lo era in quel momento.

Ero così assorto nei miei pensieri da non notare che l'intensità e il tono della risata erano diminuite. Ritengo che questo spieghi, almeno in parte, perchè fui del tutto sorpreso di sentire una voce infantile che interrompeva il filo dei miei pensieri.

"E tu chi sei?"

Sollevai lo sguardo per trovare, in piedi di fronte a me, la fanciulla dalla chioma dorata, che mi guardava con curiosità.

Provai a pensare a una risposta che potesse avere un senso per lei, ma fortunatamente quella sembrò dimenticarsi della domanda e invece si portò un minuscolo dito alle labbra.

"Shhh! Mio padre è 'sotto', e se ci sente, saprà dove siamo."

La mia mente sconcertata ci mise un momento a capire che si trovavano nel punto culminante di un gioco da bambini - nascondino.

Mi inginocchiai sul terreno. "Come ti chiami, bambina?" chiesi, a voce bassa, facendo appello a tutte le mie (limitate) risorse di gentilezza e pazienza.

La fanciullina si guardò intorno per sincerarsi che non ci fosse nessuno nelle vicinanze, quindi si chinò verso di me e bisbigliò, in tono molto ufficiale, "Patience Marie Watson."

Potevo sentire Watson che contava, al di là del muro. "Cinque... Sei... Sette..."

Fui improvvisamente colpito da un pensiero che, paragonato all'orribile confusione che esisteva tra le mie orecchie, mi parve brillante. "Posso giocare anch'io?" domandai, cercando di ignorare il fatto che ciò che stavo facendo era completamente ridicolo.

Il viso di Patience si illuminò. "Sì!" sussurrò. "Non dirò a papà dove sei! Ma presto avrà finito di contare, ed è meglio che trovi un posto dove nasconderti."

Annuii con l'aria di un cospiratore e scattai oltre il cancello, attraverso il giardino e dietro un albero, sistemandomi appena in tempo, prima che Watson annunciasse che il conteggio era finito, e che avrebbe scovato coloro che si erano nascosti, sia che essi fossero preparati a questa eventualità oppure no.

Passò un minuto di nervosa attesa, durante il quale il relativo silenzio fu rotto solo dalle meditazioni di Watson, che si chiedeva ad alta voce dove mai fossero spariti i suoi due birichini.

"Aha! Ti vedo, Sherlock!"

Sherlock! Una scarica elettrica mi percorse, e credo che ci volle un secondo intero (che, per il mio cervello, è un tempo piuttosto lungo) per realizzare che non si stava certo riferendo a me. Sherlock... doveva essere il suo bambino, suo figlio. Aveva dato il mio nome a suo figlio.

Il piccolo rispose con un acuto grido di 'Trovato!' che probabilmente avrebbe provocato in qualsiasi donna un accesso d'isterismo su quanto adorabile fosse. Io, naturalmente, non ne fui influenzato.

"Hmm... e ora dov'è Patience?" si chiese Watson, in un atteggiamento dubbioso che era totalmente finto. Ad ogni modo, non sembrò ingannare il piccolo Sherlock molto a lungo, perchè, quando sbirciai da dietro l'albero, lo vidi estrarre un dito dalla bocca e puntarlo verso il cancello aperto. Watson prese l'imbeccata ed iniziò a camminare verso l'uscita, ma prima che potesse raggiungerla, la fanciulla sbucò fuori dal suo nascondiglio, cantilenando, "Sono qui!"

Watson rise. "E' il tuo turno, adesso?"

Patience crollò il capo. "No, papà, devi ancora trovare quell'uomo col buffo cappello!"

Buffo cappello? Il mio non era un buffo cappello! Era perfettamente rispettabile!

"L'uomo dal buffo cappello?" chiese Watson, questa volta genuinamente confuso.

"Certo, " disse Patience, in tono saccente. "Ha chiesto se poteva giocare con noi e gli ho detto di sì. Devi trovarlo, prima."

"Va bene, " disse suo padre, in tono indulgente. "Troverò l'uomo col buffo cappello." si voltò ed iniziò ad ispezionare i cespugli vicini. Dalle occhiate che furtivamente gli lanciai, potei stabilire che stava solo fingendo di cercare. Deglutii la risata che mi ribollì in gola, quando compresi la sua linea di pensiero - ovviamente considerava 'l'uomo dal buffo cappello' un'invenzione dell'immaginazione iperattiva di sua figlia.

"Mi dispiace, principessa, " disse dopo un minuto, rivolgendosi nuovamente alla fanciullina e poggiando affettuosamente una mano sulla sua testa. "Ma credo che l'uomo col buffo cappello possa essere visto solo dai bambini."

Patience scosse il capo con fermezza. "Papà, non hai cercato abbastanza, " lo accusò. "E' molto bravo a nascondersi."

Il dottore sospirò. "Mi aiuteresti a trovarlo?"

"E' laggiù!"

Potei vedere con l'occhio della mente una piccola mano alzata, col dito indice puntato a rivelare la mia posizione. I bambini possono essere così traditori, a volte.

Udii i suoi passi che si avvicinavano al mio albero, e l'intera mia persona si tese nell'aspettativa. Oltrepassò l'albero, non notandomi, e controllò l'angolo del giardino, prima di voltarsi...

... e si fermò, il suo volto improvvisamente bianco come le tende sospese alle finestre della casa dietro di noi.

Inarcai un sopracciglio, quasi incapace di contenere la mia ilarità. "Watson, credo che questa sia la prima volta che ho sentito qualcuno sostenere che sono invisibile."

La sua bocca si aprì nel più totale shock. Attesi che dicesse qualcosa, ma prima che potesse farlo i suoi occhi ruotarono all'indietro, ed egli si accasciò al suolo.

Questo non era certo ciò che mi aspettavo. Balzai verso il luogo dove giaceva e lo sollevai a sedere, appoggiandolo al tronco dell'albero. Diedi qualche colpetto al suo viso, pronunciai il suo nome, cercando di convincerlo a svegliarsi, ma lui si ostinò a rimanere privo di conoscenza.

"Hai fatto prendere a papà un brutto spavento!" mi rimproverò una voce infantile.

Guardai in su verso Patience che mi sovrastava, e sembrava non poco irritata. Comunque, non avevo il tempo di preoccuparmi di ciò che potesse pensare di questa situazione.

"Piccina, vai a chiamare tua madre. Dille di venire qui subito."

Come avevo sospettato, una volta che la piccola ebbe ricevuto delle direttive, dimenticò di essere arrabbiata con me, e corse via ad eseguire il mio comando.

Mi rivolsi nuovamente al mio ancora incosciente Boswell; un mezzo sorriso affiorò alle mie labbra, mentre rammentavo che mi aveva detto di non essere mai svenuto in vita sua. A meno che non mi fossi perso qualcosa durante gli anni in cui ero mancato, conclusi che l'onore della prima occorrenza fosse toccato interamente a me.



I ricordi sono strane entità. Spesso mi sembra che non vi sia armonia o ragione che governi il modo e il tempo nei quali essi affiorano. Non potevo spiegare, nemmeno a me stessa, per quale motivo in quel giorno particolare io dovessi pensare all'amico defunto di mio marito, e a quella vita che sembrava essersi spenta troppo presto. E quanto può essere crudele la mente, quando il ricordo si è destato! Perchè potevo quasi immaginare di sentire la voce di quell'uomo, proveniente da qualche parte là fuori?

Sì, mi importava che se ne fosse andato, non solo per amore di John, ma per una ragione personale. Il signor Sherlock Holmes aveva avuto il merito di portar via la mia paura, e in cambio mi aveva dato il dono più generoso di tutti - il mio John, il migliore ed il più onorevole uomo che avessi mai conosciuto. Perchè mai non avrei dovuto sentire la sua mancanza? Non gli dovevo forse tutto?

Sentii un piccolo strattone sulla mia gonna ed abbassai lo sguardo su Sherlock, mio figlio e omonimo del defunto, in piedi di fianco a me, intento a guardarmi.

Sospirai, ritraendo le mani dalla credenza e voltandomi verso di lui. "Che c'è, Sherlock?"

I suoi occhi erano spalancati per un precedente stupore. Si tolse le dita appiccicose dalla bocca prima di parlare. "Mamma, c'è un uomo nel cortile!"

"Un uomo?" chiesi.

Lui annuì, con serietà. "Ha fatto cadere papà."

Il mio cuore saltò un battito, per poi accelerare al doppio della sua normale velocità. "Cadere?"

Annuì di nuovo.

Sentii la porta principale sbattere mentre Patience entrava precipitosamente, invocando freneticamente il mio nome. Sollevai sùbito Sherlock tra le mie braccia e corsi con lui verso l'adito. Se qualcuno aveva assalito e ferito John...

Il primo colpo d'occhio sembrò confermare i miei sospetti, giacchè, al lato opposto del giardino, vidi mio marito che giaceva, seduto a metà, appoggiato ad un albero, ed uno strano figuro, vestito d'un lungo cappotto grigio, chino su di lui. Il cuore mi salì in gola, ed ero in procinto di chiamare a gran voce aiuto, quando una voce familiare mi raggiunse attraverso il prato.

"... Avanti, Watson, vecchio mio... "

No. Non poteva essere.

Posai a terra il mio bambino e discesi i gradini in un balzo. L'uomo si volse verso di me, sentendo i miei passi, e i suoi lineamenti si ammorbidirono con sollievo.

Era lui.

Non sapevo se ridere, o piangere, o cadere a terra svenuta, come mio marito aveva fatto, tant'ero sopraffatta dall'assalto dell'emozione. Ad ogni modo, non ebbi il tempo di esprimere nessuno di questi sentimenti, poichè Sherlock Holmes, naturalmente, aveva in mente qualcosa di più importante di una rimpatriata con una vecchia cliente.

"Ah, signora Watson, perdoni la mia intrusione - vorrebbe gentilmente portare un po' di brandy? Credo di aver avuto un effetto negativo sul suo consorte."

Per un momento non potei credere alle mie orecchie. Infine, l'incantesimo fu spezzato, e mi trovai a ridere, e quasi a canticchiare, nella mia felicità: "Volentieri, signor Holmes!"

Mi affrettai a rientrare, trovai il brandy e riuscii a versarne un poco in un bicchiere, per poi correre di nuovo fuori, consegnando il recipiente al signor Sherlock Holmes con la stessa gioia ed il medesimo orgoglio che avrei provato, da novella scolaretta, nel portare una mela al maestro.

Lui non si fermò a constatare il mio giubilo, ma in un fluido movimento portò il bicchiere alle labbra di John e versò un goccio del liquido nella sua gola. Quello tossì lievemente e rinvenne, posando uno sguardo annebbiato sull'uomo inginocchiato vicino a lui, come se credesse di trovarsi ancora in un sogno. Finalmente i suoi occhi misero a fuoco, e un'espressione di enorme smarrimento si impadronì del suo volto.

"Mio caro Watson, le devo mille scuse, " mormorò Holmes. "Non avevo idea che sarebbe rimasto così sconvolto."

"Io..." John sembrava incapace di pensar a dire null'altro. I suoi occhi percorsero più volte la figura allampanata del signor Holmes, registrando ogni dettaglio, traendone rassicurazione, mentre lui ancora si chiedeva se avesse potuto osare di credere.

Poi, improvvisamente, la gioia proruppe, ed egli scoppiò a ridere, afferrando Holmes con forza per le spalle.

"L'uomo dal buffo cappello, davvero! Holmes! Non posso credere ai miei occhi!"

Un sorriso attraversò spasmodicamente il volto di Sherlock Holmes, e lui si unì alla risata. Mi trovai anch'io a ridere - troppo forte per capire da dove provenisse il sapore di acqua salata nella mia bocca - quando il riso venne interrotto da una voce infantile molto solenne.

"Te l'avevo detto che è bravo a nascondersi."

Apparentemente, Patience non aveva trovato proprio nulla di divertente nello svenimento di suo padre. Stava ritta, con le braccia incrociate sul piccolo petto, guardandoci come se fossimo tutti improvvisamente impazziti.

La risata esplose nuovamente, più fragorosa, e sentii ali crescere intorno al mio cuore, che si librò in volo. I miracoli possono essere eventi rari, ma avevo di fronte a me la prova che non erano ancora scomparsi del tutto dal nostro mondo. L'unico frammento della cui mancanza la vita di John aveva risentito, negli anni appena trascorsi, era ora ritornato al suo posto, anche se era sembrato che gli fosse stato strappato via, oltre la portata della sua mano.

Non credevo di essere mai stata così felice.

E, a giudicare dall'espressione sul viso di John, nemmeno lui.


  
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