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Autore: Rorat    11/10/2009    2 recensioni
La donna guardò gli uomini armati, i cadaveri che ingombravano la sala, senza che una contrazione di terrore, di orrore o di oscurità, si disegnasse sul suo viso.
Ryo le si avvicinò e rimase come impietrito, turbato, incapace di scostare lo sguardo da quegli occhi, che adesso poteva vedere da vicino, per la prima volta da quando si erano incontrati.
Aveva imparato a leggere le parole senza voce, a guardare le persone dal di dentro, senza quell’ingannevole velo che le avvolge quando si nascondono dietro le apparenze, quando celano i loro sentimenti, le loro paure al mondo. Ma in quegli occhi di ghiaccio Ryo non vide nulla, non trasmettevano nessuna emozione. Compassione, dolore, tristezza, odio, felicità erano sentimenti che sembravano non fossero mai appartenuti a quella donna. Erano occhi senz’anima quelli che aveva di fronte, occhi senza voce, senza lacrime da versare.
Genere: Azione, Comico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kaori/Greta, Ryo Saeba/Hunter
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: City Hunter
Capitoli:
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Sopravvissuti

 

Kaori era così vicina, quasi incollata a lui, ne sentiva il respiro, l’odore, il calore, il battito del cuore.

Gli tornò alla mente un 26 marzo di tanti anni prima, quando lei era uno sugar boy in cerca di risposte, in un mondo che non era il suo, e lui ancora un uomo in cerca di se stesso. Anche quel giorno era stato costretto a caricarsela sulle spalle, spaventata come adesso dalla malvagità di una realtà con cui lei non avrebbe mai dovuto avere a che fare.

Ma stranamente ripensò anche ad un discorso che aveva avuto con lei, un pomeriggio di primavera, quando si era lasciato convincere a fare una passeggiata nel parco.

“Che cosa sogni per te stesso?” gli aveva chiesto ad un certo punto.

Lui l’aveva guardata con aria interrogativa, preso alla sprovvista da quella semplice domanda.

“Cosa sogni per te stesso? Per essere felice…”

“Ovvio, vorrei che ogni bella donna del pianeta mi concedesse un mokkori!” aveva risposto lui, attirandosi addosso un occhiataccia di Kaori, colma di disapprovazione.

“Quelli sono i sogni di un pervertito! Con te non si può mai parlare seriamente,” aveva sospirato la ragazza.

Cosa sognava? Lui a quella domanda non ci aveva mai pensato. Ed era questo ciò che gli piaceva di lei, Kaori lo costringeva a riflettere su cose che prima di allora non gli avevano mai sfiorato la mente.

Lui era felice, adesso lo era, quando era con quella donna, poteva dirsi felice e se avesse potuto esprimere un desiderio, in quell’istante, avrebbe desiderato che quell’attimo non terminasse mai.

Perché la felicità in fondo dipendeva solo dalla capacità di dare senso alle cose, e lui riusciva a costruire un significato intorno alla sua esistenza unicamente quando aveva lei accanto.

Quando Kaori aprì gli occhi, trovò le spalle del collega farle da riparo; la reggevano, la proteggevano, salde davanti a lei, accoglienti. Era svenuta, ma aveva sognato. Era bambina e suo fratello la portava in giro a cavalluccio e lei, accostando la testa alla sua schiena, poteva sentire il cuore di Hideyuki pulsare tranquillo.

“Mi piacciono le tue spalle,” sussurrò allo sweeper.

“Me ne sono accorto!” esclamò Ryo ironico.

“Se vuoi, puoi mettermi giù.”

“Certo, così mi toccherà raccoglierti nuovamente da terra…Comunque siamo quasi arrivati…”

Era una bugia, aveva nascosto la macchina tra la boscaglia che circondava la villa così bene che non riusciva più a trovarla. Stava per esibirsi in una litania di querimonie quando la voce di Kaori, leggera come un soffio di vento, domandò: 

“Sai perché sono svenuta?”

“Perché sei una fifona,” rispose Ryo per canzonarla.

Kaori però, non aveva nessuna voglia di scherzare, per un attimo aveva creduto veramente di averlo perso per sempre.

“Hai ragione, sono una fifona… quando non ti ho visto ritornare, ho avuto paura, ero terrorizzata e quando è esploso tutto ho temuto di morire… non fare più cose così rischiose… non voglio perderti… non farlo più.”

“Sai che non posso promettertelo.”

La sua vita era una continua corsa sul filo del rasoio.

“Scusami.”

“Sono io che dovrei scusarmi con te per averti mentito... vorrei poter riuscire a proteggerti da questo mondo, da me stesso... ma riesco sempre a incasinare tutto.”

“Ti amo.”

L’amava anche lui, ma non poteva ammetterlo a voce alta. Si era già sbilanciato abbastanza quella sera e Ryo temeva i cambiamenti. Aveva paura che le risate spontanee, le silenziose premure che si scambiavano potessero essere sostituite dalla tensione, dall’imbarazzo. Dopo la conversazione avuta con lei il giorno del matrimonio di Miki e Falco, per settimane, qualcosa tra loro era come mutato; non erano riusciti a trovarsi da soli nella stessa stanza senza sentirsi a disagio, e, nonostante sembrassero desiderare entrambi di trovarsi soli, avevano iniziato a evitarsi. Il desiderio di seguire Kaori nella sua camera, aveva torturato Ryo per notti, ma, trattenuto da un misto di affetto e rispetto, non aveva mai osato attraversare quella soglia. Il silenzio che si era venuto a creare tra loro lo aveva spaventato, di nuovo aveva temuto di perderla e ferirla, di nuovo i dubbi avevano preso a torturarlo. Aveva ricominciato a uscire fino a tarda notte, a ubriacarsi, a infastidire le passanti in strada, a fare lo stupido con Saeko e Miki, nell’improbabile tentativo di riportare indietro il tempo, dimenticandosi delle parole che si erano detti, delle promesse che si erano scambiati, pensando che probabilmente il loro destino era quello di essere due rette destinate a non avere alcun punto di tangenza. Aveva pensato che finché le avesse taciuto i suoi sentimenti, avrebbe potuto fingere che nulla fosse accaduto, poiché quello che non viene nominato, quasi non esiste.

Ti amo, aveva detto Kaori. 

“Lo so,” sospirò lui.

“E allora non lo dimenticare,” aggiunse la sweeper, per nulla turbata dall’affermazione del partner.

“Scusami.”

“Ti perdono, piuttosto... c’è una cosa che volevo chiederti da un po’...”

“Dimmi...”

“Sei sicuro di ricordare dove hai nascosto l’auto?”

“Ehm...”

Kaori rise.

“Che pivello.”

 

 

Angel riprese conoscenza in una stanza che non riconobbe. Si stupì nel trovarsi ancora viva. Sentiva il cervello annebbiato, immagini e ricordi mescolati in un cocktail di morfina.

“Ehi, 007, come stai?” 

“Intontita,” rispose, riconoscendo la voce amica di Mick. Era merito suo e di Saeba se era sopravvissuta. Sarebbe mai riuscita a ringraziarli?

 Accennò un sorriso che non le riuscì. La memoria le era di colpo scivolata sugli occhi divertiti di McCarty mentre lei cadeva a terra ferita. Aveva fallito. Voleva vendicare Isabel, ma non ne era stata in grado. Cercò di fare ordine nei fotogrammi impazziti di quella notte; l’immagine di McCarty al telefono che comunicava di essere costretto a far saltare in aria la villa, il luogotenente che si allontanava. Ricordava la rabbia bruciante che l’aveva colta nel vederlo andare via così facilmente, mentre il dolore le si scioglieva addosso e tentava faticosamente di trascinarsi fuori da quella stanza. A quel punto tutto diventava ombra, la voce dello sweeper si sovrapponeva ai suoi lamenti, alle parole di Mick. Chissà se il city hunter era riuscito a portare in salvo tutti?

“Dov’è Saeba?” domandò preoccupata. Se fosse anche lui morto nell’esplosione? E Kaori? Come stava Kaori? Quante persone era riuscita a mettere in pericolo in una sola notte?

“Si è appena addormentato,” rispose con aria tranquilla Mick.

“Questa notte ha avuto un bel da fare, credo che vorrà essere ripagato con un gran quantitativo di mokkori. È riuscito a far scappare tutti da quella villa, credo lo abbia aiutato anche una grande dose di fortuna, era un’impresa a dir poco impossibile, in così poco tempo poi.”

“McCarty?”

“È riuscito a fuggire, Angel, mi dispiace. Ryo dice di non averlo visto.”

“Capisco...” biascicò delusa.

“Dovresti abbandonare l’idea della vendetta, Angel... Non credo che tua sorella ne sarebbe contenta. Hai rischiato seriamente di morire, lei avrebbe voluto che vivessi, non che organizzassi missioni suicide all’oscuro della CIA.”

Mick aveva ragione. Dove l’aveva condotta la vendetta? Aveva messo a repentaglio la sua vita, quella di tante persone innocenti e McCarty era ugualmente riuscito a scappare. Doveva arrendersi, forse un giorno qualcun altro avrebbe vendicato sua sorella, riuscendo dove lei aveva fallito. Era stanca. La ferita al fianco le tirava. Aveva solo voglia di dormire, abbandonarsi ad un sogno senza sogni.

“Riposati adesso,” sussurrò Mick, mentre lei già chiudeva gli occhi nel notturno abbraccio del silenzio.

 

 

“Daniel.”

L’uomo dal colorito pallido e gli occhi azzurri si voltò.

La voce, severa ed aspra, proveniva da una sagoma scura, dall’altra parte della stanza. Il luogotenente conosceva quell’uomo, anche se non riusciva a vederlo, lo aveva riconosciuto, era Seishiro Nakamura, il capo dell’Organizzazione Odino.

McCarty non si mosse. Rimase a studiare le ombre, aspettando la comparsa della persona che lo aveva chiamato. Aveva addosso la sgradevole sensazione che due occhi severi e implacabili lo stessero analizzando. Sentì i passi di Nakamura avvicinarsi e poi lo vide, vagamente, almeno. Si era avvicinato ad una finestra, la fievole luce della luna tagliava le linee profonde del suo volto con ombre severe. Era imponente, avvolto in un abito nero, le labbra sottili erano tirate in un sorriso forzato, una deturpante profonda cicatrice gli tagliava la guancia destra correndogli sul mento. C’era qualcosa di sinistro in lui, di violento.

Agghiacciato dal terrore per la punizione che l’avrebbe sicuramente atteso, McCarty avrebbe voluto tremare, ma sapeva che non era opportuno mostrarsi spaventati di fronte a quell’uomo.

“L’affare è andato a monte,” si limitò a dire, tentando di mantenere la voce ferma.

“Dunque Saitou è ancora vivo, ancora a capo di un clan che volevo mio.”

McCarty raggelò, sentiva gli occhi di Nakamura perforarlo come una spada.

“Makimura, c’era anche lei, l’ho protetta, è salva.”

Il capo dell’Organizzazione Odino teneva all’incolumità di quella donna, voleva che vivesse più di ogni altra cosa al mondo. Sapere che l’aveva salvata poteva forse attenuare l’ira nei suoi confronti.

“Quella donna non avrebbe mai dovuto trovarsi in quel luogo, è stata la tua inettitudine a condurla lì,” sibilò l’uomo in nero.

Non ci sarebbe stata clemenza, pensò McCarty, mentre un nugolo di dubbi cominciò a serpeggiargli nella mente. 

La sua inettitudine? Perché? La sweeper non lo aveva riconosciuto, ne era sicuro; non avrebbe mai potuto riconoscerlo, non era in grado di ricordare quanto accaduto quella notte. Per quella donna, lui era meno di un labile sogno. Dove aveva sbagliato?

 La risposta gli si materializzò sulle labbra.

“Angel Rascal,” sussurrò il luogotenente, come sconfitto.

Angel Rascal, l’agente della CIA, la sorella di quella maledetta donna che lo aveva costretto ad abbandonare la narcotici, il Paese, braccato come un animale in fuga, Isabel. I pensieri gli bruciavano in testa rabbiosi. Lo spettro di quella donna si stava vendicando di lui, in quel preciso istante, in quella stanza.

 “Quella donna deve aver seguito le tue tracce fino in Giappone, ha chiesto aiuto a city hunter perché voleva te, il tuo sangue. A causa tua adesso quello sweeper sa di noi. Hai reso tutto complicato. Avresti dovuto sistemare le tue questioni in sospeso prima di unirti all’Organizzazione. Sei una delusione,” gli disse.

“Signore io...” tentò di scusarsi, osando alzare gli occhi verso quelli di Nakamura, per la prima volta da quando era entrato nella stanza. Vide due braci, pece fumante fetida d’odio. Impallidì. In quello sguardo che lo trafiggeva lesse la sua fine.

“Vattene,” gli ordinò rauco di rabbia.

Ubbidì. Uscì dalla stanza; due uomini gli vennero incontro. Fuggire era inutile.  Lo bloccarono. McCarty non tentò neanche di opporre resistenza. Sentì un ago conficcarsi dentro le carni, nel collo, le vene bruciare, poi più nulla.

  
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