Storie originali > Drammatico
Ricorda la storia  |      
Autore: Deha delle Tenebre    14/10/2009    0 recensioni
La forza della guerra, il più delle volte, mi spaventa. Terrorizza il cielo, uccide i colori, rendendoli schiavi di polvere.
E, in tutto questo caos, le vittime diventano carnefici, un gioco che si basa sulla sopravvivenza dell'individuo, altro che patria. Altro che ideali, anzi, in realtà non si capisce neppure bene cosa si dovrebbe fare.
E' pura follia, non trovate anche voi?
Genere: Triste, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Spara alla polvere


Did you try to live on your own

When you burned down the house and home?
Did you stand too close to the fire?

Like a liar looking for forgiveness from a stone

21 Guns – Green Day

 

Sulle strade battute dal sangue, Ismael – l’eco di una lacrima sul volto – attraversò l’accampamento con passi spediti, tanto veloci nella loro fragile furia in modo da evitare i corpi accatastati uno sull’altro in un angolo del campo.
C’erano mani, piedi, gambe, braccia, teste, grida spente in quell’accumulo di vite.
Quegli esseri umani erano diventati nulla nello stesso istante che coincideva con la loro morte, in una nuvola di paura e di sofferenza, e il soldato non aveva il coraggio di guardarli troppo a lungo, quasi potessero lanciargli una maledizione.
Ismael non l’aveva voluta la guerra. O meglio, non gliene era mai importato più di tanto: prima di scoprirla nella disperazione, la considerava soltanto una macabra utopia.
Ed ora, con un fucile sulla spalla, due pugnali nascosti negli stivali e una revolver incastrata nella cinta, doveva capovolgere le sue idee a proposito.
Doveva dipingere un quadro di terrore, con qualche colore soffuso a ricordare l’inquietudine prima della battaglia, tonalità accese per la vittoria della morte e luci scure per disegnare il non senso di quei gesti che era costretto a ripetere un’infinità di volte: caricare, mirare, colpire.
Bum, e uccideva un cuore.
Ora, mentre batteva i piedi su quel terreno che aveva visto morire, pensava a come sarebbe stata la sua vita se non avesse dovuto far parte della battaglia.
Magari sarebbe potuto andare a vivere in campagna – cielo d’estate, danze notturne - insieme alla sua famiglia, che si era lasciato alle spalle, sulla soglia di una casa che sarebbe stata in seguito distrutta.
Ma lui non l’avrebbe mai saputo.
Continuò a camminare ancora per un bel tratto prima di raggiungere la sua tenda, entrarvi e lasciarsi cadere sulla branda che gli era stata affidata.
Era stata una lunga giornata anche quella.

Fumo, cenere, morte.

Uno, due, tre… trenta.
I giorni passarono come fiume che scorre, e il tempo scandiva il trascorrere dei minuti con un nuovo ghigno in volto. Una clessidra che segnava che la guerra non sarebbe mai finita, sabbia corrotta, vetro illuso.
Ismael si stava preparando all’ennesima battaglia, il loro reggimento avrebbe dovuto assalire una cittadina, che sorgeva accanto ad un lago, per rubare le provviste alimentari che cominciavano a scarseggiare.
Mancavano poche ore all’attacco e i soldati stavano marciando verso la meta con uno sguardo perso nel nulla, quasi fossero automi che eseguivano gli ordini e basta, per non guardare in faccia l’orrore che si portavano dietro.
Il giovane era come loro, solo un barlume di vita in più negli occhi color ocra.
Teneva il fucile appoggiato alla spalla e camminava a testa alta, quando invece avrebbe voluto sotterrarsi e smettere di tremare come una foglia.
La notte era calata su di loro come una compagna benvoluta, facendo dono di un manto di astri, e il vento copriva i loro passi. Pareva quasi che la natura si fosse messa d’accordo per aiutare l’assedio, ansiosa spettatrice di uno spargimento di vite.
E Ismael si chiedeva perché. Perché avrebbero dovuto uccidere quando qualche minaccia avrebbe sortito lo stesso effetto?
Perché rubare le esistenze altrui e continuare a farlo?
Si era poi risposto da solo: gli soldati si nutrivano anche di morte, in fin dei conti. Dopo un po’, attaccare ed uccidere diventava quasi indispensabile come l’ossigeno, e tutti sentivano il bisogno di lasciarsi andare nella violenza.
Una persona che ha visto, ha compiuto e ha sofferto non può sopravvivere in altro modo, o quasi.
Oh, erano arrivati.

Era un piccolo centro abitato, nulla di sensazionale, terra battuta che dormiva sotto una luna nuova. Le case erano disposte in file parallele, creando così un ordine monotono, ma dolce.
Le luci, a quell’ora, erano ormai spente.
Non si erano preparati a nessuno scontro imprevisto perché mancavano i soldati di guardia, o forse c’erano, ma non alle porte della cittadina.
Il gruppo di Ismael entrò furtivo, ombre sui muri.
Avanzò lungo le strade con le armi in pugno, un sospiro, e cominciò a disperdersi nei vari edifici, spalancando le porte con un solo calcio e qualche ordine nell’aria, in un grido di rabbia.
Il ragazzo trasse un profondo respiro prima di fare irruzione all’interno di una casa dalla facciata rossiccia, prendendo la mira e sparando al primo uomo che gli si parò davanti, strappandogli addirittura il tempo di sorprendersi.
Non si poté neanche immergere nei sensi di colpa che sparò ad un altro giovane – doveva avere la sua stessa età, diciotto anni – con un colpo preciso a distanza ravvicinata.
Caddero i due corpi, cadde la polvere.

Spara alla polvere, Ismael.
Credendo di aver ucciso tutti, nel silenzio che seguì, il soldato cominciò a rovistare nelle credenze con una certa foga. Voleva uscire da lì il prima possibile, buttarsi alle spalle quello che stava succedendo e sopravvivere.
La sua mente non voleva pensare al gesto che aveva appena compiuto.
Portò via solo alimenti, ignorando i gioielli nascosti in un cassetto della cucina, e se li ficcò nella borsa a tracolla che si era portato dietro.
Fece per avviarsi verso la porta che pian piano si era rinchiusa per il vento, quando ad un certo punto udì un passo.
Si voltò di scatto, cercando di riacquistare il sangue freddo che aveva avuto poco prima, e sussultò nel trovarsi di fronte ad una bambina.
Stranamente fu un’immagine vivida: nonostante il semibuio, poté quasi intravedere ogni lineamento del suo volto delicato, la forma rotonda delle sue guance, e le lacrime che solcavano la sua pelle di infante. Portava una sottoveste di velluto, di un rosa confetto, e stringeva al suo petto la sagoma di un pupazzo. I suoi capelli le ricadevano sulle spalle in onde gentili, di un color ramato, e gli occhi luccicavano di un verde offuscato.
Ismael non riuscì a reagire.
Abbassò la canna del fucile, ritirò la pistola nella cinta, tacque.
A terra, i corpi dei due uomini.
Il sangue che cominciava a formare una pozza scarlatta sul pavimento di legno.
Fotografie più eloquenti di troppe parole inutili.
- È solo un incubo, vero? – piagnucolò la piccola, mordendosi il labbro inferiore.
Il giovane annuì, preferendo il silenzio. Avrebbe dovuto uccidere anche lei?
- Mi sveglierò presto? – continuò l’altra, piangendo. Piangendo, piangendo.
Lui annuì una seconda volta, piegandosi un attimo sulle ginocchia per arrivare alla sua altezza.
Solitamente non incontrava i bambini durante le sue escursioni, preferiva evitarli, così come le donne. Ma quella doveva essere stata una notte sfortunata.
Incrociò il suo sguardo e sollevò una mano per accarezzarle i riccioli, ma si fermò a mezz’aria.
No, non voleva corrompere anche quel corpo.
- Come ti chiami? – mormorò, la voce roca. Quand’era che era divenuta così simile a quella di un uomo? Un uomo che soffre e obbedisce.
La piccola abbozzò una smorfia. – Yanna. –
Ismael sospirò, incapace di proferire altro.
Qualcuno gli stava dilaniando il cuore senza alcuna pietà, rubandogli battiti su battiti. Sentì una fitta così dolorosa che per un attimo si dovette appoggiare alla parete dietro di lui, e percepì sul suo corpo lo sguardo di lei.

Ancora lacrime.
- Ti sveglierai presto, Yanna. – replicò, prima di portare la mano verso la revolver. La tirò nuovamente fuori, la caricò con un gesto a cui era ormai abituato e trasse un altro profondo respiro.
Datemi un sogno in cui vivere perché la realtà mi sta uccidendo, aveva letto una volta, inciso sul muro di una stanza della base.  Erano parole a cui si sarebbe aggrappato volentieri, se solo gli avessero potuto dare una speranza in più.
Viveva da troppo tempo in un mondo di cartapesta, illusione fittizia, morte reale.
- Me lo prometti? – Quella vocina doveva avere sì e no tre o quattro anni, aveva ancora il suono dell’innocenza intrisa nelle note.
Non si meritava la morte, nessuna delle sue vittime se la meritava.
Ismael abbozzò un sorriso sbiadito e assentì. – Te lo prometto. –

Tre parole, mira alla testa.
Premette il grilletto e sparò.

Poche ore dopo i soldati del suo gruppo trovarono il suo corpo steso a terra, immerso nel suo stesso sangue, e una bambina con gli occhi sbarrati accanto a lui.
Stringeva forte il suo pupazzo e piangeva.

 

Ismael, che Dio ascolti, fuggi, fuggi, fuggi.
Dì addio alla vita.

 

  
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: Deha delle Tenebre