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Autore: Ernil    16/10/2009    8 recensioni
Se fosse una sfida, la perderei.
Genere: Dark, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Albus Silente, Severus Piton
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Paradiso Artificiale

 

Sommario: Se fosse una sfida, la perderei.

Rating: Giallo.   

Disclaimer: di tutto questo, non possiedo nulla, se non la mia Beta *se la stringe al petto*

Beta: Geilie *coro da stadio*

Note dell’Autrice/1: Questa storia partecipa alla Criticombola indetta da Criticoni, prompt 82 [Immagini]: “Chiacchiere in chiaroscuro”.

Note dell’Autrice/2: come un chiunque estimatore di Baudelaire avrà notato, il titolo si rifà all’opera del poeta maledetto. Ancora una volta: grazie, Charles.

 

 [L’oppio ingrandisce ciò che non ha fine,

l’illimitato estende,

il tempo fa più cavo, più profondo il piacere,

e di nere, di cupe voluttà

l’anima sa colmare a dismisura.

 

Ma più veleno stillano i tuoi occhi,

i tuoi verdi occhi,

laghi dove si specchia e capovolto

trema il mio cuore, amari abissi dove

a frotte si dissetano i miei sogni.

Il veleno, Baudelaire]

 

Sono seduto alla cattedra che, in un tempo davvero non troppo lontano, è appartenuta ad Albus. I suoi strumenti d’argento tremano, fremono sugli scaffali, ma nessun rumore rompe questa amata immobilità. C’è solo il mio respiro, e il silenzio, e la sera che si affaccia.

Fuori, il sole sta tramontando. Riesco a vedere gli ultimi sprazzi di luce attraverso la finestra. Getta strani riverberi sulla tomba bianca in riva al Lago. Sanguigni riverberi.

Sono stanco – e insonne. Sempre insonne.

Mi passo una mano sul volto e lo sento smunto. Le mie dita sorpassano indifferenti le cicatrici lasciatemi dall’Ippogrifo. Tocco la barba non fatta sul viso.

Un segno di stanchezza che qualcuno ha notato. Che soprattutto il vecchio nel ritratto sopra di me ha notato. Non dice niente, ed è perché non c’è nulla da dire. Sa che domani mi farò la barba, e nessuno penserà alla mia trascuratezza come più che a una semplice distrazione.

Nessuna incrinatura.

Il mio sguardo si fissa sul camino spento. Non c’è fuoco, ed è solo una delle molte cose vuote qui dentro. Le ceneri giacciono fredde, e riportano alla mia mente il ricordo di tutti quei respiri che si sono fermati e raffreddati – e, come per il fuoco, io non ho speranza né potere di riportare in vita nessuno di loro.

Agii male e sconsideratamente, e ogni mio tentativo di riparazione fu fatto troppo tardi – sempre troppo tardi.

Mi sono mosso come un cieco, cercando di rimettere insieme i frammenti...

Senza dover guardare, stanca e abituata a questo gesto quasi automatico, la mia mano si avvicina all’ultimo cassetto della scrivania: un giro di chiave, un sommesso click liberatore, e si apre. Ne estraggo una rettangolare scatola di legno. La poso sul tavolo, senza guardarla. La conosco in ogni singolo intarsio.

Cerco di non pensare – perché penso troppo, ecco il mio problema. Penso dannatamente troppo.

Guardo il focolare vuoto e mentre lente e leggere le mie dita si affaccendano al polsino della camicia, continuo, contro la mia volontà, a pensare.

Non faccio altro da una vita. Decisamente, la mia maledizione.  

Metodicamente, con l’abilità data dall’abitudine, arrotolo la camicia fino al gomito.

Finalmente, i miei occhi si posano sulla mia opera: il Marchio Nero è ben visibile sul mio avambraccio pallido.

Sorride.

Sembra solo aspettare.

Se fosse una sfida, la perderei.

Ma sia io che lui attendiamo, ogni sera, di abbeverarci alla stessa fonte, con la stessa sete.

Distolgo gli occhi dal teschio e, con entrambe le mani, nel silenzio più assoluto di questa stanza, apro, delicatamente, il cofanetto di legno.

So che Albus mi sta guardando.

Vorrei poter dire che me ne frego, vorrei anche solo girarmi e urlargli di stare zitto – perché so che mi sta parlando, in silenzio -, urlargli che non ho bisogno di nulla, non da lui. Dirgli che lo odio per quello che mi ha fatto... Ma non è nel mio stile. Naturalmente, no.

Posso sentire il suo sguardo come una carezza sulle mie spalle, ma non basta.

Mordersi a sangue le labbra non basta, cadere sul pavimento e distruggersi cuore e polmoni e anima nel rimorso non basta, svegliarsi urlando la notte non basta e non basterà mai...

Così come non basta Albus a impedirmi di affogare. Ho così tanti altri volti a perseguitarmi. Così tante voci. Il silenzio è solo una di queste.

E non c’è nessuno che possa aiutarmi.

L’interno della scatola è spoglio. Contiene solo una siringa, con la dose già preparata.

So perfettamente che, se sul mio volto nulla trapela, nei miei occhi brilla invece una sottile scintilla. Di brama.

Prendo la siringa con la riverenza di un chirurgo.

In fondo, è quello che sono. Chirurgo della mia anima.

Così, eretto sulla sedia che tante volte ho visto occupare da Albus, guardo la punta acuta scintillare tra le mie dita.

Anche lei, come il Marchio, sorride.

Io no. Io mi sento ubriaco di stanchezza.

Affamato di incoscienza.

Mi rilasso, pian piano, contro lo schienale dello scranno.

Controllo il mio avambraccio.

Le punture delle sere precedenti sono quasi invisibili. È stata mia cura nasconderle agli occhi di tutti... anche ai miei.

Dimenticare non fa che bene all’anima, ecco ciò che ho imparato. Dimenticare, anche se per poche, inutili ore. Lasciarsi portar via.

Smettere di pensare. 

Con dita esperte, posiziono l’estremità luccicante della siringa proprio là dove il teschio spalanca la sua bocca per vomitare il serpente nero.

Basta una leggera pressione, e la punta penetra nella mia carne, con un lieve, ardente e desiderato dolore.

Chiudo gli occhi, aspettando, mentre, con un sospiro, reclino la testa.

« Severus ».

Sapevo che mi avrebbe chiamato.

Non rispondo. Premo più a fondo la siringa – finché non mi ha dato tutto quello che poteva. Nient’altro che sonno senza sogni. Dolce nepente. La ragione che si addormenta e non provocherà mostri.

Il mio respiro si sta alterando. Sono ancora abbastanza cosciente da accorgermene. So che, se aprissi gli occhi, vedrei il mondo sfocato davanti a me.

È stata mia cura anche crearmi una droga solo per me, solo per me. Nessun sogno, nessun dolore, solo assuefazione, giorno dopo giorno, sera dopo sera.

Una nicchia in me stesso dove nascondermi.

Mi sento emettere un lieve gemito di sollievo, mentre estraggo con gesti pesanti la mia nutrice.

Poi, Albus inizia a parlare.

Oh, lo amo.

Amo la sua voce così familiare nelle mie orecchie mentre scivolo nel mio paradiso artificiale.

Amo sentirlo parlare.

Mi ricorda quand’era qua, con me, vicino a me. So che prenderebbe una mia mano fra le sue e sospirerebbe e scuoterebbe il capo, e so che non mi condannerebbe.

Ma cosa importa – è già tutto andato.  

So che parlerebbe proprio come sta facendo ora, con la sua voce calda e leggera.

Parla della sua giovinezza, credo: un aneddoto di tempi passati, buffe avventure giovanili, per accompagnarmi nel mio effimero empireo.

Sento la sua voce cullarmi, condurmi per mano attraverso le nebbie.

Mi sussurra all’orecchio storie di tanto tempo fa; mi parla dolcemente mentre io mi lascio cadere.

La mano scivola giù dall’avambraccio; la siringa mi cade dalle dita inerti.

Il respiro si è regolarizzato.

Un ovattato buio mi circonda; mi rendo conto del sospiro triste di Albus prima di addormentarmi fra le sue braccia.

 

 

Note dell’Autrice:

A chi si aspettava una storia più “nel mio stile”: che ci posso fare? Le mie dannate mani fanno tutto da sole, e io spero che questa storia (“angst”? Qualcuno mi dica che non ho scritto angst! Io! *O*) riesca comunque a strapparvi una recensione.

*Frega la siringa a Snape e si anestetizza per non sentire i ringhi dei lettori*

   
 
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