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Autore: Luine    16/10/2009    1 recensioni
Quando mi hanno regalato questo diario per il mio dodicesimo compleanno, non credevo che mi sarebbe stato tanto utile. Credevo che sarebbe rimasto intonso come quando l'ho scartato. E, invece, eccomi qui a scrivervi sopra e a raccontare la mia (strana) vita.
Mi chiamo Ken Iccijojji, vivo a Tokyo con i miei genitori, Videl e Gohan, e con mia sorella maggiore, Pan.

Kenny ha dodici anni, una sorella maggiore alquanto turbolenta e una situazione familiare decisamente movimentata. A causa del terrore di sua madre di vederlo diventare come Pan, si ritrova iscritto in una scuola speciale per ragazzini problematici che già da subito si rivela essere una vera e propria caserma militare.
Tra paure, insegnanti molto duri, amici fidati e misteriosi, incomprensioni, equivoci e risate, si snodano le vicende di Kenny che come valvola di sfogo ha il suo diario, sul quale annota le sue più intime paure e i fatti di vita quotidiani, cercando di convincere se stesso che, forse, poteva andare peggio.
[ Dragon Ball, Digimon 02, Gundam Wing, What a mess Slump e Arale, e altri ]
Genere: Comico, Commedia, Parodia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Le lezioni al primo anno

Hangar 14



30 Ottobre


Nell'ultimo periodo la mia depressione “da caserma” è andata a periodi alterni: un po' tornava, un po' me ne dimenticavo. Questo è stato soprattutto grazie ad Arale, anche se un po' hanno avuto merito lo studio e le lezioni che mi hanno portato via un sacco di pensieri. Nell'ultimo periodo, che è stato parecchio lungo, dato che è praticamente dal secondo giorno che non scrivo più niente, ho evitato l'infermeria e anche la Une, anche se sono stato costretto a vederla in classe e a farmi interrogare da lei.

La storia dell'alzabandiera continua ad andare avanti. Ormai, riesco a svegliarmi da solo alle cinque e anche a rimanere sveglio alle lezioni di Bristow. Attenzione: rimanere sveglio, non seguirlo. Un grande passo avanti, rispetto ai primi tempi.

Alex, invece, è ancora un po' arrugginito e, se riesce a svegliarsi alle cinque da solo, ha ancora un po' di problemi con Bristow e con la Noin, di cui non segue le lezioni neanche morto. Però, rispetto agli altri anni, almeno a sentire i professori, è molto migliorato.

«E' merito di Arale, che mi fa studiare come un matto!» ha detto, una sera, in biblioteca, al sergente Hopkins che, con una cioccolata calda in mano, ascoltava il tutto con vivo interesse.

Quell'uomo passa un sacco di tempo con il gruppetto di cui faccio parte – formato da Frank, Arale e Alex – ci offre le cioccolate e chiacchieriamo del più e del meno, soprattutto di fumetti o di studio (ma questo molto più di rado).

«Sì, ok...» Arale ha trangugiato l'ultimo sorso della sua tazza, lasciandosi intorno alla bocca, come ricordo, un bel cerchio di cacao, e riuscendo a tagliare il discorso a metà. «Vogliamo ripassare la dimostrazione delle funzioni iniettive e suriettive?»

Alex ha ragione: studiamo come matti. Fosse solo questo, sarebbe una pacchia: ogni tanto, almeno una volta a settimana, siamo costretti ad alzarci nel cuore della notte per rifarci il letto.

«Sono metodi di addestramento...» ci ha confidato Heero Yuy, una sera che era venuto a portare ad Alex un pacchetto di sigarette.

Il fatto è che, se ci rifacessero fare il letto in modo normale, sarebbe molto più facile. Invece, la Une pretende che ci rifacciamo il letto e che le coperte e le lenzuola le mettiamo a cubo. Alex non ci è mai riuscito e io solo ultimamente riesco a fare un qualcosa che gli assomigli.

Il mio amico, ogni volta, fa una palla e la appoggia al centro del suo letto.

«E questa cos'è?» ha chiesto la Une, l'ultima volta, disgustata, quando gli è passata davanti.

«Il cubo, colonnello!» ha risposto Alex, grattandosi un fianco, assonnato.

«Si metta sull'attenti, soldato Ramazza!»

Alex, controvoglia, ha eseguito.

«Insomma, cos'è?»

«Il cubo, colonnello...» ha ripetuto, sospirando.

«E dove sono gli angoli?» ha ringhiato la direttrice.

Alex si è grattato la testa, guardando le sue coperte appallottolate, dubbioso, mentre io, cercando di nascondermi il più possibile per non farmi vedere da lei, sbadigliavo come un disperato. «Beh, sono un po' smussati...»

«Fa anche lo spiritoso? Bene!» la Une ha fatto una smorfia di puro disgusto. «Rimarremo qui, in piedi, Ramazza, finché non farà un cubo come si deve!»

E così ha fatto. Alex ci ha messo tutto se stesso, ma senza risultati. Tutti quanti siamo stati costretti a fare quel cubo schifoso finché non fosse stato, non perfetto, ma quantomeno decente. Finora, gli unici due ragazzi della camerata che ci siano riusciti, sono stati Frank e Trowa Burton.

Insomma, la vita in caserma è un vero schifo.

Pan è l'Alex delle ragazze, imbranata e svogliata esattamente quanto lui, solo che, al contrario suo, invece di ubbidire, protesta ed è per questo che è già finita diverse volte in punizione. L'ultima volta, per esempio, è stata messa in piedi, accanto al suo letto, ferma in piedi, zitta e immobile, mentre le altre potevano tornare a dormire. Ma lei non è mai svenuta e io non mi sono mai sentito così scemo.

«Secondo me,» ha detto Arale, un giorno che eravamo andati a trovare l'infermiera Johnson. «non dovresti farti tante paranoie...»

«No, infatti!» ha confermato la Johnson. «Siete diversi...» Già, la stessa cosa che mi aveva detto Arale, ma io non sono mai riuscito a superare questa cosa, sebbene faccia di tutto per non pensarci.

«Lei è più forte di me. Più resistente!» ho protestato per l'ennesima volta.

«Beh, non è colpa tua!» ha ribattuto Frank, con veemenza. Dato che era amico di Alex e che io e Arale passavamo tanto tempo con lui, abbiamo cominciato a frequentare anche lui. Mi sta molto simpatico, anche se, ogni tanto, ha degli atteggiamenti piuttosto snob. «Piuttosto del Salvini che non ci fa fare la corretta attività fisica!»

La Johnson ha convenuto con lui e si posata le mani sui fianchi. «Hai perfettamente ragione, Kushrenada!» ha sospirato, mentre girava la testa verso una delle ampie finestre. «E sei anche più piccolo di lei.» mi ha ricordato.

«E la Une vuole vederci crollare!» ha aggiunto Alex, rabbioso.

«Sarà... ma se non fa le cose per bene...» la Johnson non ha continuato. Si è semplicemente allontanata, come per impedirsi di dire qualcos'altro.

Già, loro mi hanno appoggiato, ma non Heero, al quale Arale, più che io, ha raccontato quello che entrambi abbiamo sentito il secondo giorno in caserma. Lui, però, non ha avuto la stessa reazione indignata dei miei amici.

Si è seduto sul letto di Alex e si è stretto nelle spalle. Lui ci viene a trovare spesso, ma solo per questioni “contabili”, come dice Alex, o per portare qualcosa che gli chiedono i miei compagni (sono sicura che Sora gli abbia chiesto delle sigarette, la scorsa settimana). «Beh, siamo una caserma militare? Comportiamoci da militari! Questa scuola non è uno scherzo!» è stato il suo commento.

«Ma... ma...» ha protestato Arale, visibilmente scossa. «Qui si tratta della salute degli alunni!»

Lui ha fatto spallucce. «Vedi, Norimaki,» ha detto. «di solito, per intraprendere la carriera militare, si fanno dei test attitudinali, una visita medica... qui queste cose vengono fatte solo per figura, perché tutti quanti i ragazzini giapponesi – e non – possano entrare in questa scuola speciale. Purtroppo, non tutti quelli che entrano, riescono ad arrivare in fondo e si ritirano.» al che, il mio stomaco si è contratto in modo orribile, perché ho capito che anche io, presto o tardi, sarei entrato in quel mucchio. «I metodi duri che usa la Une sono tipici di quelli che hanno ricevuto un addestramento militare. Non la condanno per la sua rigidità, anzi, la capisco: deve formare un esercito, non un gruppo di ballerine!»

«Ma siamo ragazzini!» ha sbottato Arale. «Questo non ha nessuna importanza?»

«No.» ha risposto il responsabile del nostro piano, con tranquillità.

Frank, quando ne abbiamo parlato a cena, è stato d'accordo con lui, provocando l'indignazione sia di Alex che di Arale. Anche io ero piuttosto perplesso: avevo pensato che, appoggiandomi, aveva dato il suo dissenso ai metodi di addestramento della Une e, invece, a quanto pare, parlava solo del fatto che mi sentivo molto indietro rispetto a mia sorella.

«Non ci posso credere!» ha esclamato Arale, alla rivelazione del nostro amico. «Tu, proprio tu che odi Heero Yuy!»

Frank non può vedere Heero e non ho capito perché. Ogni volta che lo vede portare qualcosa di “illegale” in camera nostra, lo guarda torvo e quasi quasi non lo saluta.

«Non è questione di odio o amore!» ha esclamato, infastidito. «E' questione di avere ragione o torto. E lui, stavolta, ha ragione.»

«Ma... insomma, Frank, siamo ragazzini!»

«Tu non avevi idea di quello a cui andavi incontro, quando ti sei iscritta, giusto?» ha chiesto.

«Beh, ecco... io volevo studiare i Mobile Suit!»

«Ecco. Quindi non lo sapevi.» ha esclamato Trowa che era accanto ad Arale, all'altro suo lato. «Vi ho sentito parlare...» così ha giustificato la sua entrata nella nostra conversazione. «Quello che devi capire è che qui, se non sei motivato abbastanza, non resisti e te ne vai. Devi conoscere quello a cui vai incontro! Non si tratta solo di studiare, ma di formare i futuri soldati del Giappone.»

Alex ha sbadigliato sonoramente nel sentirlo parlare così. «Burton, te la posso dire una cosa? Parli come un politico!»

Trowa ha fatto un gesto spazientito. «Non è parlare da politici.» ha ribattuto. «Dicevo solo le cose come stavano per poter essere dei bravi soldati.»

«Ma tu non vuoi essere un soldato giapponese...» gli ha fatto notare Frank, corrugando la fronte.

«No... hai ragione.» ha risposto Trowa, senza alcuna vergogna. «Dico solo che è giusto avere una motivazione forte per poter sopportare la vita militare. E chiunque abbia capito con quale spirito frequentare questa scuola, dirà quello che ho detto io.»

Frank ha sorriso amaramente in risposta. «Già...» ha sospirato. Mi è sembrato molto malinconico, ma non ho capito perché.

«Io non sono d'accordo...» ha replicato Arale, battendo un pugno sul tavolo, più che mai infervorata. Non l'ho mai vista così presa da una discussione come in quel momento. «Possiamo essere bravi soldati anche senza bisogno di venire pressati e umiliati!»

«E' un modo per formare il nostro carattere e non farci fuggire di fronte alla prima difficoltà.» ha risposto Trowa, senza nessuna particolare intonazione. «E' necessario!»

«Bah.» Arale ha girato la testa dall'altra parte ed ha chiuso la conversazione.

Alla luce delle considerazioni dei miei compagni di classe e di Heero, credo di essere fuori posto: la mamma mi ha costretto a venire qui e non mi ha mai detto che quella era la vita militare. La dura vita militare.

Non mi sentivo motivato abbastanza, né all'altezza di gente come Heero, Trowa o Frank...

Ieri, davanti ai miei appunti di storia, seduto sulle scale che portavano al refettorio, ragionavo proprio su tutto questo (è anche per questo che ho deciso di scrivere qualcosa dopo tanto tempo), e non facevo altro che sentirmi sempre più incapace: i miei risultati scolastici non sono eccezionali e quelli militari... beh, meglio lasciar perdere. Riesco sempre a strappare la sufficienza nelle interrogazioni, ma come soldato lascio molto più a desiderare.

«Ehi, ragazzo, che ci fai per le scale?» sono quasi morto di paura, soprattutto quando, alzando la testa, ho visto che, davanti a me, in fondo alle scale, c'era l'uomo con la mascherina che mi ha accolto all'ingresso il primo giorno di scuola: Zack Marquise. Devo ammettere che quel tipo mi inquieta assai.

Mi sono alzato in piedi di scatto, rivolgendogli un rigido saluto militare, come avevo fatto tante volte. «Stavo studiando, signore!»

La sua bocca, l'unica cosa che la maschera non copriva, si è deformata in un sorriso. Ha salito le scale e quando mi ha raggiunto, ha abbassato la testa verso di me. «Forse è meglio se usi la biblioteca, non credi?» mi ha chiesto, gentilmente, ma si vedeva che era un invito a togliermi dalle scatole.

Mi sono rigirato gli appunti tra le mani. «Ecco... io, veramente, vengo da lì.» ho ammesso.

Sorprendentemente, non mi ha sgridato come avrebbe fatto chiunque altro, la Une in prima fila. «Volevi un po' di privacy?» mi ha domandato il colonnello.

«Ehm... sì, più o meno...» la verità era che scappavo da un'altra conversazione sull'essere un buon soldato o meno che Tai Yagami aveva ingaggiato con Arale che sembrava voler ingaggiare una specie di rivolta contro questa vitaccia.

Nell'ultima settimana quello è l'argomento che va per la maggiore nel nostro corso ed è un po' difficile ignorare l'argomento “resistenza”, quando tutti sembrano intenzionati a ricordarmelo. Almeno hanno smesso da un po' di guardarmi male, come se fossi un cane rognoso. Solo Bra e solo ogni tanto, dato che non reagisco, pensa bene di scaricarmi addosso qualche battuta maligna.

Non so cosa mi abbia spinto ad agire. So solo che l'ho fatto: ho richiamato indietro il colonnello, quando lui mi ha sorpassato. Ha abbassato la testa su di me. Quella maschera mi impediva di vedere i suoi occhi e non riuscivo a capire cosa pensasse del mio gesto. Mi sono sentito in soggezione, quasi fosse stata la Une stessa a guardarmi.

«Posso... posso farle una domanda, signore?» ho voluto sapere, chiedendo a me stesso perché volessi fargliene una così personale. Dopotutto, lui era un perfetto estraneo per me. Non era neanche un mio professore!

«Ma certamente.» ha risposto lui, girandosi di nuovo e sorridendo, incoraggiante. Non passava anima viva e c'era uno strano silenzio intorno a noi.

«Ecco... non... non deve rispondere per forza...» ho esordito: effettivamente, non erano neanche fatti miei. «Mi chiedevo, lei... lei è sempre stato molto motivato?»

Ero sicuro che mi guardasse fisso. «A fare cosa?»

«A fare la caserma!»

Marquise ha continuato a fissarmi per un po', poi ha sorriso, forse ridendo di me e del modo in cui gli avevo posto quella domanda. Ma non potevo dirgli “è sempre stato motivato ad essere un buon soldato?”. In quel momento avevo il cervello felpato.

«Perché vuoi saperlo?»

«Ecco... non voglio farmi gli affari suoi...» ho balbettato. Facevo la parte del maleducato a guardarmi le scarpe, invece che lui, ma non avevo il coraggio di alzare gli occhi più di quello. «E'... che...»

«Ho fatto una promessa.» ha detto, senza aspettare la mia risposta.

Stavolta sono stato io a non capire. «Una promessa?» ho ripetuto, riuscendo, per lo stupore, ad alzare lo sguardo sulla sua maschera bianca.

«Sì.» ha confermato, con naturalezza, senza perdere il suo sorriso.

Ho solo annuito, anche se la curiosità mi divorava per sapere che tipo di promessa potesse rendere resistenti e motivati.

«Quindi... per lei... è una motivazione molto forte...»

Nessuna emozione traspariva dalla parte visibile del suo viso. «Immagino di sì...» ha risposto, lentamente. Sembrava soppesare le mie parole e io mi sentivo sotto esame.

«Vede, colonnello, io...» ho deglutito. «Io non credo di essere abbastanza motivato.»

Lui non ha detto niente. Non ha provato a consolarmi come ha fatto Arale, non mi ha attaccato come ha fatto Heero il giorno di quella discussione.

Non parlava. Forse ha semplicemente pensato che ero uno smidollato capitato per sbaglio sul suo percorso. Comunque non se n'è manco andato ed è stato per questo che ho insistito: «Dove posso trovare una motivazione?»

«Non te lo posso dire io.» è stata la sua risposta. Se la sua immobilità fosse stato il suo sguardo, allora avrei detto che mi stava fissando intensamente. «Questa è una cosa che devi sapere tu.»

Lo stomaco mi si è contratto. «O... mollare?»

Lui ha inclinato la testa. «Tu vuoi mollare?»

«I-io... io... no, non lo vorrei, ma...» mi sono fermato.

«Ma?» mi ha spronato, con fermezza. Conosceva sicuramente la risposta, ma credevo che volesse sentirlo uscire dalle mie labbra per mandarmi via più in fretta, magari umiliandomi.

«Ma... sono una schiappa!» l'avevo detto. E nel peggiore dei modi. Anche stavolta, però, la maschera di Marquise mi ha impedito di vedere cosa gli passasse per la testa. Ho abbassato la testa. «Mi scusi...» ho cercato di rimediare.

L'ho sentito sorridere. «Come ti chiami?» mi ha chiesto. La mia testa è scattata verso il punto in cui la maschera disegnava due occhi. I miei erano sgranati, forse facevo l'effetto di uno che non ha capito la domanda. Non era propriamente così. Diciamo che non capivo perché farmi quella domanda.

«Ken Iccijojji. Cioè... sono... sono il soldato semplice Iccijojji.» ho detto, correggendomi: la Une è sempre categorica su questo punto, quando ci mette in fila, davanti al muro ed ognuno deve dire il suo grado e il suo cognome, urlando.

«Va benissimo Ken Iccijojji.» mi ha detto, scendendo di nuovo le scale. Mi ha stupito, ma quello che mi ha fatto del tutto andare in confusione è stato il fatto che mi abbia messo una mano sulla spalla. «Su, vieni con me.» è stato tutto quello che mi ha detto, precedendomi lungo le scale che portavano al cortile.

L'ho seguito, perplesso: perché voleva farmi uscire dalla caserma? Avevo cominciato ad avere paura che volesse legarmi e buttarmi nel retro di un camion e che dicesse al guidatore di portarmi a casa mia. In questo caso avrebbe avuto senso chiedermi il nome.

Ma nel cortile di terra battuta non c'erano camion in cui potermi sbattere o corde con cui potermi legare. L'abbiamo attraversato in silenzio, io che arrancavo alle sue spalle, guardandomi intorno timoroso.

«Colonnello, dove... dove stiamo andando?»

«All'hangar quattordici.» così ha risposto lui. La cosa non mi ha detto niente: non sapevo neanche cosa fosse... così gliel'ho chiesto.

«E' uno degli hangar in cui quelli del sesto anno si esercitano per riparare e costruire parti dei Mobile Suit che progettano.» così ha risposto Marquise, rallentando e permettendomi di camminargli a fianco.

«E perché ci stiamo andando, signore?»

«Perché credo che lì ci sia qualcosa che possa rispondere alla tua domanda, Ken Iccijojji.»

Non ho capito che cosa intendesse e non l'ho nemmeno capito, quando, attraversata una porta incassata nel grosso muro di cinta, ci siamo ritrovati in una specie di capannone rivestito di metallo, pieno di persone vestite di una tuta argentea, col simbolo dell'esercito spaziale appuntato sul petto. Molti erano chini su tavoli sparsi di qua e di là, spesso davanti ad altissime macchine mastodontiche, altri parlavano tra loro a voce molto alta, spesso per sovrastare il rumore di seghe circolari che lavoravano sulle macchine: i Mobile Suit.

Era la prima volta che ne vedevo uno dal vivo. Gli altri erano state illustrazioni portateci dalla Une e neanche tanto accurate, dato che abbiamo una fotocopiatrice vecchia di ventimila anni.

Comunque questi Suit avevano sembianze quasi umane, se non fosse per i musi sostituiti da grate o occhi vuoti ed inquietanti o per le migliaia di fili colorati che uscivano dalle braccia non ultimate.

Capivo, di fronte a loro, come doveva sentirsi una formichina nel vedere un essere umano.

«Ti piace?» ha chiesto Marquise, mentre camminavamo lungo il corridoio principale.

«E'... magnifico.» sono riuscito a dire, ma “magnifico” era limitativo per quelle macchine. «Qui aggiustate i Suit, ho capito bene?»

«Sì, e ne costruiamo di nuovi.»

Ci siamo fermati di fronte ad un Suit tutto bianco, dove stavano lavorando sei persone, tutte nella cabina di pilotaggio, situata nel petto della macchina.

«E questo cos'è?» ho chiesto.

«Si chiama Pioggia di Fuoco. E' uno dei Suit più potenti dell'intero esercito terrestre e spaziale. E' di gran lunga superiore a tutti i Suit in nostro possesso e in grado di tenere testa ad un Gundam.»

Ho girato la testa verso di lui che, invece, aveva gli occhi puntati sul Pioggia di Fuoco.

«Cos'è un Gundam?»

«Un Suit formato di una lega particolare, chiamata Gundanium, ma immagino che la studierai l'anno prossimo, a Materiali per la Costruzione di Macchine.»

Una materia con un nome così altisonante non deve essere niente di facile, ma in quel momento non ci ho pensato: ero tutto preso dal Suit che torreggiava su di me. Dalla mia posizione, proprio davanti ad un tavolo che sorreggeva una gran quantità di progetti dettagliatissimi che raffiguravano parti di Pioggia di Fuoco, non riuscivo a vedergli la testa.

«Chi lo pilota?» ho voluto sapere.

Lui non ha risposto.

«Deve essere molto in gamba: deve essere difficile da comandare.»

Ho creduto di aver detto una cavolata, perché lui ha ridacchiato, ma non mi ha preso in giro, anzi: mi ha posato una mano sulla spalla.

«Ogni volta che si combatte, bisogna sempre avere in mente il perché si combatte, altrimenti viene meno il motivo per cui queste macchine vengono costruite.» ha sospirato, riprendendo un tono serio. Ho abbassato gli occhi, ma cominciavo a capire:

«Chi guida queste macchine, deve anche essere pronto a morire?»

«E ad uccidere.» ha risposto lui, mestamente. Quelle parole mi hanno fatto stringere lo stomaco. «E' per questo che bisogna avere una motivazione forte per poter porre fine alla vita di un uomo o la propria. Bisogna averlo bene in mente.»

«Ma...» ho ribattuto, spaventato. «Noi... noi non dobbiamo andare in guerra... no? Il... il Generale ha detto che potremmo finire al sesto anno e...»

Ho sentito Marquise sospirare ancora, mentre la sua mano si stringeva più forte intorno alla mia spalla. «Non sono molti quelli che frequentano questa accademia e decidono di lasciarla alla fine del sesto anno.»

«E... e sono tutti consapevoli di questo?» ho mormorato, abbassando lo sguardo sulle mie scarpe: non riuscivo più a guardare il Suit.

«Non tutti, purtroppo.» ha risposto, mestamente.

Siamo rimasti in silenzio per un po', poi, dopo che lui ha dato un ordine ad uno con la tuta argentea.

«E chi continua senza aver trovato il suo motivo?»

Marquise ha abbassato la testa, quasi dovesse dare omaggio ad un amico morto da poco. «Sarà relegato alle ultime linee, guarderà i suoi compagni morire e non sarà in grado di reagire.»

Non ho risposto, angosciato com'ero. L'ho imitato e ho abbassato anche io la testa. Mi sentivo in dovere di farlo.

«Il suo pilota si chiamava Milliardo Peacekraft.» mi ha detto, dopo un attimo di silenzio, rotto solo dalla fiamma ossidrica che troncava di netto un grosso pezzo di metallo a pochi metri di altezza da noi, su un'impalcatura fissa ai lati di Pioggia di Fuoco.

«Il pilota di chi?» ho chiesto, stupidamente.

«Di Pioggia di Fuoco.» ha risposto. Non ha mostrato stizza o altro; tenendo lo sguardo fisso di fronte a sé, il corpo rigido, il passo marziale e monotono, ha cominciato a condurmi all'uscita. «Era il principe di Sanc Kingdom, il suo regno, eppure non ha mai trovato una motivazione abbastanza forte per morire per esso.»

Non sapevo neanche di cosa stesse parlando. Mi sono grattato la testa, perplesso.

«E... e quindi?» ho chiesto, non sapendo esattamente cosa aspettarmi.

Lui ha abbassato lo sguardo su di me. «Non ne conosci la storia?»

Ho scosso la testa e lui ha di nuovo sollevato la sua verso la strada per tornare dentro la caserma. Eravamo arrivati nel cortile, dove la luce del tramonto dava alla terra battuta una tonalità rosso sangue.

«Il regno è andato distrutto.» è stato il suo lapidario racconto.

«E... il principe? Cosa gli è successo?» ho voluto sapere. Avevo subito provato una certa simpatia per quel tipo, forse perché mi somigliava tanto, anche se io non ero di certo un principe.

Marquise ci ha messo un po' a rispondere. Sembrava voler mantenere la suspense del momento. «E' morto.» ha detto, dopo quella che mi è parsa un'eternità, in un tono così definitivo che sembrava che io potessi, in qualche modo, confutare le sue parole.

«Oh...» è stata l'unica cosa che ho saputo dire, triste. Era così che mi sarei ridotto, senza una motivazione forte? Era quello che mi voleva dire Marquise? Non l'ho capito.

«E... Pioggia di Fuoco... l'ha preso il nostro esercito?»

Stavolta Marquise ha proprio evitato la domanda e io non ho voluto insistere, anche perché era così freddo che cominciavo a sentire i brividi. Ma lui mi ha di nuovo posato la mano su una spalla e l'ha stretta forte, proprio come dentro l'hangar.

«Mi hai fatto una domanda molto importante, poco fa.» mi ha detto. E io mi lambiccavo il cervello per capire quale fosse. Probabilmente ha capito che me ne ero completamente scordato, così ha ripreso: «Mi hai chiesto come scoprire qual è la tua motivazione... e ti ho detto che solo tu puoi saperlo, giusto?»

Ho annuito, senza capire dove volesse andare a parare.

«Credo di non essere stato esauriente.»

Non ho detto niente: non è carino dire ad uno dei tuoi superiori che avrebbe fatto prima a non rispondere...

«Quindi, per trovare la tua strada, per sapere qual è la motivazione che ti spinge ad andare avanti, devi vivere le tue esperienze.» si è fermato, mentre nel mio cervello cominciavano a vorticare dubbi senza forma che non riuscivo a trasformare in domande. «Hai detto di non voler mollare. Adesso sai a cosa vai incontro. Trova la tua motivazione, tenendo bene a mente quello che ti ho detto oggi.»


Quella sera, appoggiato al davanzale della finestra sopra il mio letto, guardavo le stelle, ascoltando il russare lento di Alex e quello irruente di Pan, attutito dalla porta chiusa della camera delle ragazze.

Non riuscivo a dormire: continuavo a pensare alle parole di Marquise, al fatto di non dover mollare, alla motivazione forte che serve per vivere o morire per la propria patria. Era qualcosa a cui non avevo mai pensato, qualcosa che mi aveva turbato a tal punto da farmi perdere il sonno.

Ora capivo le parole di Trowa e di Heero. Loro sapevano perché vivere o morire, come lo sapeva Frank.

E poi... la storia di Milliardo Peacekraft e del Sanc Kingdom. Marquise non mi aveva voluto spiegare molto, eppure la storia mi incuriosiva: come era morto il pilota di quel magnifico Suit bianco? Non aveva una motivazione forte, ma... l'amore per il suo regno e per i suoi sudditi non bastava? Mi sono reso conto di non averlo chiesto a Marquise e ho subito capito che andare a chiederglielo non era per niente delicato.

Un grugnito più forte degli altri mi ha fatto scattare, spaventato, verso Alex che, adesso, non era più composto sul suo letto, ma piegato su un lato, un piede nudo fuori del materasso. Mi sono seduto sul bordo del mio letto e l'ho guardato. Mi sono chiesto perché lui fosse in quella caserma e cosa lo spingesse a continuare a venire, ogni anno e a ripetere sempre il primo. Non gliene fregava niente davvero come aveva detto il primo giorno? Lo faceva solo perché poi lo avrebbero arrestato?

«Kenny?» la voce di Frank mi ha fatto sussultare. Lui era seduto sul suo letto e, nel bagliore della luce della luna, riuscivo a vedere che aveva gli occhi aperti. «Non è che puoi chiudere quella finestra?»

Ho annuito e, inginocchiandomi di nuovo sul materasso, mi sono voltato per chiudere le imposte. Un secondo peso mi ha detto che lui si era seduto sul mio letto.

«Che c'è?» mi ha chiesto, in un soffio.

«Niente...» ho borbottato, chiudendoci nella più totale oscurità.

«Oggi sei sparito e, a cena, non hai voluto dire dove sei stato... e non sei venuto in biblioteca dopo.»

Ero stato piuttosto in disparte, a mensa e, con mia sorella, sembravamo l'accoppiata dei fratelli asociali: lei non fa molta vita sociale coi nostri compagni di corso, diciamo che la evita, se può.

«E ora non dormi... sono le due di notte!» ha continuato lui, guardando la sveglia sul mio comodino. «Vuoi parlarne?»

Non ero pronto a raccontargli dell'hangar, né delle parole di Marquise.

«Perché sei venuto qui, Frank?» gli ho chiesto, senza preamboli. Lui non ha risposto. Anzi, sembrava quasi che non respirasse proprio.

«Ci sono una serie di motivi...» ha risposto, dopo un po'. «E sono troppi per poterteli spiegare così su due piedi...»

Ho annuito, anche se lui non poteva vedermi: quello era un modo elegante per dirmi che non erano fatti miei, ma era comprensibile. Effettivamente non lo erano.

«Conosci il Sanc Kingdom?» ho domandato, allora. Speravo che mi dicesse di sì e che, l'indomani, ne avremmo parlato, se non subito.

«Ne ho sentito parlare...» mi ha detto, facendomi ben sperare.

«E cosa sai?»

«So che è stato distrutto.»

«E poi?»

Lui ha sospirato. «Come mai tutte queste domande?»

Non sapevo cosa dire: non volevo dirgli che Zack Marquise mi aveva messo una pulce nell'orecchio, non volevo fargli capire che avevo parlato con lui, nel periodo di tempo in cui ero, per così dire, “sparito”. Il mio amico non ha insistito, mi ha solo dato una pacca sulla spalla.

«Ne parliamo domani mattina, Ken. Dai, mettiti un po' a letto, prima che arrivi qualcuno a chiederci di fare strane forme geometriche con le coperte!»

Ho ridacchiato e, mentre lui si rialzava, ho deciso di infilarmi sotto il piumone e cercare di chiudere gli occhi per dormire. Eppure le parole di Marquise sulla guerra e sui Suit mi tenevano sveglio. Dovevo fare le mie esperienze e non mollare. Solo dopo avrei capito cosa volevo fare davvero...

«Frank?» l'ho chiamato, in un soffio. Speravo che non si fosse addormentato.

Lui ha risposto con un mugolio.

«Voglio trovare una motivazione forte.»

«Bravo...» ha borbottato lui, con voce impastata di sonno.

«Ho un po' di tempo per riuscirci, no?»

Altro mugolio.

«Ho sei anni per trovarla.» poi ci ho pensato: «Cinque e mezzo.»

La risposta da parte del mio amico, però, non è cambiata.

Ho chiuso gli occhi davvero, stavolta. «Saprò cosa fare prima del diploma, no?»

Stavolta, Frank non ha proprio risposto.

Ho stretto i pugni sotto il cuscino. «Non voglio mollare. Per una volta, non voglio proprio saperne. Non voglio essere il solito smidollato.»


*****


L'avevo detto che ci saremmo ritrovati dopo un mese. Voglia di lavorare saltami addosso! XD

Capitoletto forse un po' stereotipato, ma l'ho riletto tutto d'un fiato e mi è piaciuto (tra la stesura e la pubblicazione lascio passare diverso tempo, così che possa rivedere ogni capitolo con mente fredda. In questo modo non mi lasci condizionare dalle prime impressioni che, molto spesso, da parte mia, sono errate). ^^ Spero comunque vorrete commentare e darmi le batoste che mi merito. XD


_Pan_: sono contenta che tu abbia deciso di commentare. Vuol dire che la storia ti ha colpito! XD Adoro il personaggio di Alex e, sebbene sia così cattiva, anche Pan è assolutamente tra i miei preferiti. Un giorno (molto lontano), però, si riscatterà di tante cattiverie! XD Alla prossima.


Prof: ero quasi preoccupata che non commentassi più! XD sono troppo affezionata ai tuoi commenti precisi e puntigliosi. Spero di aver spiegato in modo abbastanza esauriente il perché dei comportamenti della Une. Certo che è umana, anche se, all'inizio di questo capitolo, ho dovuto darti ragione in pieno sulle tue impressioni su di lei... ma non dimentichiamo che è dal punto di vista di Kenny che la vediamo e, per adesso, lui vede solo l'aguzzina che è in lei. XD Ora taccio, perché se poi faccio spoiler la storia non la legge più nessuno. XD Per quanto riguarda i verbi, mi trovo sempre un tantino in difficoltà: ci sono delle situazioni che richiedono il presente perché continuano ad accadere anche mentre Kenny scrive sul diario, ma mi rendo conto che stona un po' col resto della frase. D'ora in poi cercherò di stare più attenta. ^^ E dopo questa risposta più lunga del capitolo ti lascio. XD Alla prossima!

  
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