Elisabeth è una ragazza molto speciale che a causa del suo passato deve trasferirsi in un'altra città. Questo cambiamento la porterà tra le braccia del suo angelo oscuro: il suo destino.
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Era la mia stanza, sì proprio
lei. La mia nuova stanza nella nuova casa. Una flebile luce
oltrepassava la finestra. Sentivo come un richiamo. Qualcuno che
sussurrava il mio nome. Forse è il vento, pensavo, la mia
fantasia. “Elisabeth”, quel sussurro insisteva. Mi
alzai e mi diressi alla finestra. Scostai le tende e la aprii. Una
ventata di aria fresca mi invase. C’era un profumo in
quell’aria così inebriante. Il mio cuore
cominciò a sussultare, impazzito direi. Allora aprii gli
occhi e lo vidi. Era proprio dinanzi a me in tutto il suo splendore. Il
mio angelo oscuro. Oscuro, sì, perché era in
ombra. Aprì le braccia e le tese verso di me. Un invito ed
io non mi feci pregare e in un attimo fui avvolta dalle sue braccia.
Protettivo. Il suo abbraccio era fonte di una sensazione di pace,
serenità. Era caldo. Non in senso termico, ma la sensazione
era di grande calore. Il suo profumo. Non lo dimenticherò
mai. All’improvviso, mentre stava finalmente per essere
illuminato dalla luce del sole che stava per spuntare scomparve. Ed io
mi ritrovai sola.
“No” gridai svegliandomi dal sonno. Un sogno. Di
nuovo lo stesso. Erano anni che non facevo più questo sogno.
Aprii gli occhi e vidi il soffitto della stanza leggermente illuminato.
L’orologio della sveglia sul comodino segnalava le 06,00 del
mattino. È ora di alzarsi.
Andai in bagno, il mio riflesso nello specchio sembrava quello di una
sconosciuta. Non avevo una bella cera. Mi aspettava una dura
giornata. Mi abbandonai ad una doccia calda. Indossai la prima cosa che
trovai nell’armadio. Tante cose erano ancora nei bauli ai
piedi del mio letto. Non eravamo riuscite a sistemare tutto, ancora
dopo il trasloco. Scesi al piano di sotto e mi diressi in cucina dove
la mia mamma e la mia cara nonnina erano già sveglie e
intente a preparare la colazione. La mia mamma era una donna energica.
Lo era dovuta diventare dopo tutte le disgrazie accadute alla nostra
famiglia. Quella settimana era ancora libera. Avrebbe preso servizio
alla nuova scuola la settimana successiva. Magnifico potevo usufruire
della macchina. Non mi andava di arrivare in ritardo i primi giorni di
corso. Primi giorni, ora. Il semestre era già cominciato,
sarebbe stata dura inserirmi. A volte mi chiedo ancora
perché trasferirsi così di corsa. E poi i ricordi
ritornarono alla mente. Era stato necessario. Sperando che duri.
Mentre guidavo cercai di concentrarmi
solo sul nuovo college. Ai miei corsi. Alla mia cara amica Sabrina.
Anche lei mi avrebbe raggiunto appena possibile.
Sabrina era la mia migliore amica dalle elementari. Ci siamo incontrate
la prima volta in quella scuola speciale per ragazzi prodigio. Sapevamo
che saremmo diventate l’una l’ombra
dell’altra dal primo sguardo. Era come se ci stessimo
aspettando da sempre. Lei ora era felicemente sposata e suo marito
Bruce è come un fratello maggiore. È il fratello
che ho perso tanto tempo fa. Thomas, oh Thomas. Il mio caro dolce
fratello. Era poco più che adolescente quando
morì, dopo una lunga e sofferta malattia. Genetica.
È stato allora, avevo solo otto anni, che decisi che sarei
diventata medico. Mi sarei specializzata nella ricerca e avrei cercato
di aiutare e dare il mio contributo in memoria di Thomas. Era quella la
cosa più importante. Niente altro è mai contato
nella mia vita. Solo il mio obiettivo. E ci sarei riuscita. Non mi
sarei fermata di fronte a nulla.
Eccomi qua. Nel parcheggio dell’università. Oggi
sarebbe stata sicuramente una lunga giornata. Speriamo di non
incontrare troppa gente. O meglio troppi curiosi. Non mi va di essere
scortese, non è educato, ma non mi va neanche di raccontare
i fatti miei al primo sconosciuto. Sicuramente ci sarà
qualcuno che mi chiederà come mai una studentessa di Harvard
tanto brillante all’ultimo anno di specializzazione,
benché tanto giovane, abbia deciso di trasferirsi a semestre
iniziato in una sperduta università di provincia. Meglio non
pensarci. Mi incamminai all’ingresso con l’elenco
dei miei corsi in mano, ritirato il venerdì prima. Mi
diressi verso l’aula della prima ora. La mattinata trascorse
tranquilla. Fortunatamente ero riuscita a svignarmela prima che
qualcuno notasse la mia presenza e cominciasse a fare domande. Mi
sentivo strana, non era solo l’ansia per quella nuova
situazione. No, sentivo che quel giorno sarebbe stato diverso, sentivo
che sarebbe accaduto qualcosa. Non so cosa, ma qualcosa che avrebbe
cambiato la mia vita. Forse ero diventata solo paranoica. Ma non
riuscivo a non pensare al sogno della notte scorsa. Quel sogno era
tornato! Quando ero bambina lo facevo tutte le notti. Era bello
perché ero felice. Ero legata con un filo indistruttibile al
mio angelo nero, lui vegliava su di me ed io mi sentivo al sicuro,
protetta, che qualsiasi cosa sarebbe accaduta non avrebbe potuto
scalfirmi in nessun modo, perché lui era al mio fianco. Non
avevo mai visto il suo volto era sempre nell’ombra. Poi
qualcosa è cambiato c’era un pericolo, un pericolo
che veniva da qualcosa di tremendamente malvagio che voleva uccidere il
mio angelo nero e lui fuggiva via da me. Per proteggermi, certo, ma io
mi sentivo persa, smarrita, avvolta dalla terribile
oscurità. Era inquietante. Dopo la morte di mio padre, ho
smesso di fare quel sogno, anzi non ho più sognato. Avevo
paura dei miei sogni, perché si avveravano. Un mese prima
dell’incidente di mio padre lo sognavo tutte le sere e quando
è accaduto, beh è stato terribile,
perché è avvenuto esattamente come nei miei
incubi. Cosa devo aspettarmi, ora? Ho paura. Qualcosa
accadrà sicuro. Rimuginando su questi pensieri angosciosi
non mi resi conto che mi ero persa. E ora?
“Ciao”, una voce alle mie spalle mi
salutò. “Ti sei persa?”
Mi voltai con l’aria stravolta e la vidi, la persona che mi
aveva rivolto la parola. Era una ragazza molto carina, i capelli corti
scuri, il viso a cuore, occhi scuri, sorriso luminoso. Era alta , poco
più di me. Doveva avere 24/25 anni.
“Sì”, dissi “Ero
soprappensiero e mi sono persa”.
“Sei nuova, non è vero? Sei una matricola o al
secondo anno?”
“No, sono una specializzanda” dissi un
po’ risentita. E sì che ero più giovane
di tutti loro, ma addirittura scambiarmi per una poppante!
“Davvero?” disse alquanto sbigottita.
“Devi dirmi il tuo segreto sembri molto, molto più
giovane”.
“che facoltà sei iscritta?”
“Medicina”.
“Ah, allora hai il tirocinio adesso! Magnifico ti
accompagno” disse.
“Sei diretta alle parti dell’ospedale?”
chiesi
“No, sono diretta proprio lì. Anche io sono una
specializzanda di medicina” e mi rivolse un sorriso
affascinante.
“Scusa, non mi sono neanche presentata. Mi chiamo Sarah,
Sarah Castle” e mi porse la mano.
“Elisabeth, Elisabeth Hansen” mi presentai
stringendole la mano a mia volta.
Ci incamminammo nel corridoio. La mia nuova interlocutrice era
simpatica. Mi stava aggiornando un po’ sugli inciuci e i
piccoli scandali della nostra facoltà. Fu gentile e non mi
fece neanche una di quelle domane che temevo tanto. In ospedale mi
presentò ai colleghi della classe di tirocinio. Erano quasi
tutti uomini. Era un po’ imbarazzante, in effetti. Mi
guardavano come fossi una stranezza e alla fine ci fu qualcuno che con
il tatto di un elefante mi chiese: “ Ma quanti anni hai?
Sembri più una matricola”
“Venti” dissi. Mi guardarono come fossi un extra
terrestre “Ho frequentato le scuole speciali e mi sono
diplomata molto presto” aggiunsi.
“Un piccolo genio, allora!” disse qualcun altro.
Sentii le mie guance arrossire.
“Beh, ragazzi abbiamo trovato la nostra mascotte!”
e tutti si strinsero in una risata fragorosa che mi coinvolse. Il resto
del pomeriggio fu piacevole, trascorse in fretta, nessuna
complicazione. Alla fine del turno ci ritrovammo all’ingresso
del reparto di nuovo tutti insieme. Ricordavo i nomi di ognuno, Harry,
Sarah, Logan, Veronica, Carl. Tutti simpaticissimi. Eravamo
lì a chiacchierare del più e del meno quando si
aprirono le porte dell’ascensore e li vidi. Erano bellissimi.
Un uomo dai capelli corvini e gli occhi color nocciola,
l’incarnato pallido, le movenze morbide e flessuose il
sorriso gentile. Era alto, snello, asciutto, ma muscoloso. La maglietta
attillata sotto il camice bianco rivelava i tratti perfetti della
muscolatura. E la ragazza al suo fianco. Una visione. Sembrava una dea.
I capelli lunghi ricci e mordidi castano scuro e gli occhi color
cioccolato. Anche il suo incarnato era pallido, ma il suo corpo
flessuoso e perfetto. Sembravano una coppia di fotomodelli, ma lui
doveva essere un medico a giudicare dal camice bianco e la targhetta
appuntata al petto. Ero talmente annebbiata da non riuscire a leggere
il nome. E poi come se qualcuno mi avesse letto nel pensiero
“Quello è il dottor Emerson. Lucas Emerson.
È uno schianto. Il sogno proibito di quasi tutte le
infermiere e non dell’ospedale” esordì
Sarah doveva aver visto la mia espressione attonita.
“E la ragazza chi è?” chiesi di rimando.
“La sua fidanzata. Si Chiama Simone Wentworth”.
“E’ bellissima” dissi.
“Sì. Come puoi notare i nostri colleghi le sbavano
dietro come cagnolini. E a lei la cosa sembra divertirla. Ah, per la
cronaca i due vivono insieme. Insieme al fratello di lei. Quello
sì che è uno schianto molto, molto più
del dottor Emerson.”
“Davvero?”
“Sì, anzi mi meraviglio che non sia con loro. Di
solito fa sempre una capatina in ospedale”.
Mi fermai ancora a guardarli. Erano bellissimi e lei era qualcosa di
incredibile, neanche nei miei sogni avrei avuto un portamento simile.
Io ero l’esatto opposto. In genere ero un po’
goffa, sempre distratta e immersa nei miei pensieri. Non facevo mai
molta attenzione a dove mettevo i piedi. E il resto beh, non
c’è paragone. E poi scomparvero dietro
l’angolo. Prima, però, avrei giurato che la
ragazza mi avesse guardato di sottecchi.
Riprendemmo la nostra conversazione interrotta da quella apparizione.
Carl stava proponendo di andare a festeggiare da qualche parte, ma mio
malgrado dovetti rifiutare l’invito. Mamma e nonna Hansen mi
stavano sicuramente aspettando. “Un’altra sera,
magari. Grazie, siete tutti così gentili. A casa mi staranno
aspettando. È tutto il giorno che sono fuori.”
“D’accordo” disse Veronica
“un’altra sera, allora, magari possiamo metterci
d’accordo prima così puoi avvisare casa”
“ok”.
In quel momento arrivò un’infermiera con degli
avvisi da esporre in bacheca. “non ci posso
credere!” esclamò Sarah.
“Cosa?” chiesi incuriosita da tanto brio.
“Si sono liberati due posti nel corso del dottor
Emerson!”
“E’ un corso importante?” chiesi.
“Non conosci il corso dei predestinati?” disse
Logan.
“No, dovrei? E chi sono i predestinati?”.
“Il corso del dottor Lucas è uno dei corsi cui
aspirano tutti gli specializzandi con mire nel campo della ricerca
medica” spiegò Veronica.
“Sì, se passi il corso con lui automaticamente al
termine degli studi si è assunti alla Fondazione
Phoenix” continuò Sarah.
“La Fondazione Phoenix? Ne ho sentito parlare. È
uno dei complessi più rinomati in zona nel settore della
ricerca, in tutti i campi” dissi.
“Come si fa per accedere al corso?” aggiunsi con
una nuova luce negli occhi. Quello era il mio obiettivo.
“Bisogna compilare un modulo in segreteria.
Dopodichè si viene convocati direttamente dal dottor
Emerson, e credimi lui è molto selettivo. Ammette soltanto i
migliori” disse Harry che fino a quel momento non aveva detto
una parola.
Mi voltai e vidi l’ora dall’orologio affisso alla
parete.
“Oh mio Dio è tardi. Devo andare ci vediamo
domani”
“A domani” dissero gli altri in coro.
Mi precipitai nel parcheggio in men che non si dica. Avevo le mani
occupate dai libri e quaderni di appunti. Frugavo nelle tasche del
giubbotto in cerca delle chiavi e per non smentire la mia goffaggine mi
caddero buona parte dei libri in terra. Che disastro. Nel mentre
decidevo se dare priorità alla ricerca delle chiavi o
recuperare i libri, questi me li ritrovai ben impilati di fronte il mio
naso.
“Grazie” dissi d’istinto a chiunque
avesse risolto il dilemma. Alzai il capo e vidi un’ombra che
mi fissava. Due occhi che sembravano due stelle. Così
luminosi. Era un ragazzo a giudicare dalla sagoma, era alto, snello
asciutto.
“Siamo piuttosto distratti, eh? Non è un
bene!” disse in tono giocoso facendo un passo avanti. Si
ritrovò proprio sotto il lampione e la sua luce lo
illuminò. Era la cosa più bella che avessi mai
visto. Mi si fermò il respiro. Altro che il dottor Emerson e
la sua splendida fidanzata. Questo ragazzo era un dio,
un’apparizione, un angelo. I suoi occhi brillavano teneri e
dolci come due fiamme, due scintille azzurre che brillavano
nell’oscurità, i lineamenti del viso erano
delicati e perfetti come quelle delle statue dei miti greci. Mi ci
volle qualche secondo per riavermi da quella visione. Molto gentilmente
disse: “Ti converrebbe recuperare ciò che stavi
cercando dalla tasca prima che ti restituisca i libri, non vorrei che
ricadessero di nuovo. Potrebbero risentirsene!” disse con un
sorriso compiaciuto e divertito.
“Giusto” fu tutto quello che riuscii a rispondere.
Frugai di nuovo nelle tasche del giubbotto. Ma niente. Cercai di
raggiungere quelle dei jeans. E il mio soccorritore che stava cercando
di soffocare una risata, mi prese il resto dei libri e mi
liberò le braccia. Cercai nella borsa, ma niente.
“Oh no, devo aver perso le chiavi” dissi in tono
disperato. E ora dove le avrei cercate?
L’angelo di fronte a me rise divertito e disse:
“sono quelle?” Indicando un paio di chiavi che si
intravedevano all’interno dell’auto ancora inserite
nel cruscotto.
Mi sentii tanto stupida e con rabbia aprii la portiera del guidatore.
“Grazie dell’aiuto” dissi stizzita mentre
recuperavo i miei libri e una vampata di calore mi avvampò
le guance. Successe tutto in un attimo. L’improvviso rossore
delle mie guance nel recuperare i libri le nostre mani si sfiorarono e
il contatto provocò come una scossa elettrica che mi
invase tutta. L’espressione divertita del ragazzo
scomparve, si accigliò, sembrò come trattenere il
respiro e si allontanò da me come fossi stata una specie di
appestata. Si nascose di nuovo nell’ombra. Sembrava
barcollare, si piegò come stesse male. Allora gettai i libri
sul sedile del passeggero e feci come per avvicinarmi.
“Tutto bene?” dissi.
“Sì”, la sua voce era roca, come in
preda ad una terribile sofferenza.
Mi mossi di un passo.
“Stai lontana da me!” gridò come in un
ringhio e alzò lo sguardo. I suoi occhi, i suoi occhi
ardevamo come fiamme. Non erano lo scintillio divertito di poco prima,
anzi erano carboni incandescenti, rossi come le fiamme
dell’inferno. Il suo sguardo carico d’odio. Mi
paralizzai, non riuscivo a ragionare, sentivo solo quello sguardo su di
me come se mi attraversasse da parte a parte, sentii come un dolore
lancinante al petto. Non so perché, ma non riuscivo a
distogliere gli occhi dai suoi, eppure dovevano essere terrorizzati,
percepivo come una forza magnetica attirarmi verso quello sconosciuto,
quasi ne dipendesse la mia stessa vita.
Poi un suono, un rombo di un motore che sopraggiungeva
spezzò quella magia ed entrambi distogliemmo lo sguardo. In
un attimo lo sconosciuto si dileguò.
Ancora disorientata, salii in macchina, chiusi lo sportello. Rimasi
qualche minuto lì cercando di riordinare le idee. Chi era
quel ragazzo? Tanto affascinante quanto inquietante. Basta indugiare su
questi pensieri è ora di tornare a casa.
Lungo il tragitto fu difficile non pensarci. Il suo sguardo
così accattivante, quei lineamenti perfetti, e le labbra
sembravano scolpite da Michelangelo. Un sospiro uscì dalle
mie labbra. Era innaturale, avrei dovuto essere terrorizzata da quel
bizzarro sconosciuto, dopo lo sguardo di profondo odio che mi aveva
lanciato, sembrava volesse uccidermi. Eppure non riuscivo ad averne
paura. No, mi sentivo come nel parcheggio terribilmente attratta come
una calamita. Che razza di pensieri mi vengono in mente? In tutta la
mia esistenza non ho mai indugiato su un ragazzo, la mia mente e il mio
essere li ha sempre ignorati. Non ho mai pensato ad un ragazzo in
questi termini. Ed ora eccomi, mi sembro una scolaretta alla sua prima
cotta. Ma che sto dicendo? Non capisco più niente. Deve
essere l’aria di tutti questi cambiamenti tutti in una volta.
Domani lo avrei rivisto? Chissà chi era. Basta. E scossi la
testa per scacciare via quei pensieri.
Arrivata a casa. Entrai senza dire una parola, percorsi
l’ingresso e mi precipitai in cucina. Muta. Non dicevo nulla.
Il che era insolito, normalmente quando rientravo dopo una giornata
fuori casa la prima cosa era bombardare di domande sugli avvenimenti
della giornata e poi cominciavo con il descrivere la mia. Mia madre mi
lanciò un lungo sguardo indagatore, poi incrociò
quello di mia nonna, che sembrava avere le stesse domande stampate in
viso. Dovevo fare qualcosa, l’aria stava diventando troppo
pesante.
“Novità? Cosa mi raccontate di bello?”
esordii per cercare di rompere il ghiaccio, mentre affondavo la
forchetta nel piatto di pasta che mi era stato premurosamente
conservato.
“Ha chiamato Sabrina, tutto il santo giorno” disse
mia madre.
“Devo richiamarla” dissi.
“Non ce ne sarà bisogno” disse nonna
Hansen. “Tra poco dovrebbe richiamare. Il tempo è
quasi scaduto”.
“Come è quasi scaduto?”
“Ha chiamato per tutto il santo giorno ogni
mezz’ora circa. L’ultima telefonata è
arrivata dieci minuti prima che rincasassi”.
“E tu? Cosa ci racconti?” chiese con aria
indagatrice la mia perspicace mammina.
“Niente di che, è stata una normale giornata di
college come sempre” risposi. Beh, qualcosa è
successo, ma preferivo tenerlo per me.
“Hai conosciuto qualcuno?” chiese la nonna.
Ma perché in questa casa dovevano essere tutti
così attenti, perspicaci e non so cos’altro. O
forse era la mia faccia a dire tutto. Sono sempre stata un libro aperto.
Sentii le mie guance andare a fuoco.
“Beh,….” Tentennai.
La mamma e la nonna si misero in posizione di ascolto con le orecchie
attente come i gatti.
“Insomma, sì. Ho conosciuto qualche
persona” dissi alla fine.
“Una ragazza di nome Sarah è stata tanto gentile
ad accompagnarmi per tutto il campus. Siamo nella stessa classe di
tirocinio e anche gli altri del gruppo sono simpatici.”
“Bene” sbottò la mamma.
“mi fa piacere che fai nuove amicizie. Stai attenta,
però. Lo sai cosa è successo ad Harvard e gli
sguardi di tutte e tre si incupirono al ricordo.
“Non preoccuparti, mamma, starò
attenta”. Sembrava rassicurassi più me stessa che
gli altri. Lo squillo del telefono spezzò
l’atmosfera ormai plumbea.
“Rispondo io” dissi e mi alzai da tavola per
dirigermi al telefono in soggiorno. “Deve essere
Sabrina.”
“Pronto?”
“Pronto, Lizze, sei tu?” rispose una voce femminile
all’altro capo del telefono.
“Sì sono io Sabry. Come stai?”
“Sto bene, solo qualche piccolo disturbo, ma è
normale nel mio stato”
“Come mai hai assillato i miei con il telefono, oggi? Non
sapevi che ero a lezione e che sarei rincasata tardi?”
“Sì, lo so, ma mi sentivo inquieta. Avevo come uno
strano presentimento”
Io e Sabrina eravamo così legate che riuscivamo a percepire
lo stato d’animo l’una dell’altra anche
se non eravamo insieme. Non mi sarei aspettata che oggi la mia angoscia
fosse tale da raggiungerla a chilometri di distanza.
“Ti capisco. Anche io ero agitata. Poi è andato
tutto bene”
“hai conosciuto qualcuno?” chiese.
Aver sottolineato quella parola con il tono della sua voce voleva dire
che aveva intuito qualcosa?
“No” dissi seccamente.
“Non venirmi a dire che dopo un’intera giornata tra
università e ospedale, i posti più affollati in
assoluto, a parte i centri commerciali, non hai conosciuto neanche
un’anima?”
“Beh, sì, qualcuno. I miei compagni di corso.
Molto simpatici”
“E…?”
“E niente, basta così”.
“Non me la dai a bere. Ti conosco come le mie tasche. Hai uno
strano tono di voce. Sei sulla difensiva. Il che significa che hai
incontrato più di qualcuno!” concluse con un tono
soddisfatto.
“Uhm…”
“Ho fatto centro giusto?”
“Diciamo di sì”. Sentii dei rumori,
probabilmente la mamma o la nonna o entrambe si erano appostate per
origliare la conversazione.
“Come è? È carino?”
Più che carino, pensai, una visione. “Ne
riparliamo quando arriverai” dissi con tono evasivo.
“ci sono i nostri in ascolto, eh? Va bene. A proposito.
È ufficiale Bruce ha avuto il trasferimento. Partiamo
venerdì. Sabato mattina saremo lì. Abbiamo anche
già trovato casa” mi comunicò.
“Sul serio? Ma è fantastico. Non vedo
l’ora di averti di nuovo qui con me”.
“A presto. Lizzie. E quando arriverò dovrai
raccontarmi tutto, intesi? Ora ti saluto è ora del riposo.
Un bacio a presto” mi salutò.
“A presto”. Agganciai. Rimasi qualche istante a
meditare guardando il telefono. Poi salii al piano superiore e mi
diressi nella mia camera. Raccolsi il pigiama il beauty con le mie
cose, andai in bagno, feci cominciare a scorrere l’acqua
calda della doccia. Cominciai a spogliarmi e alla fine alzai lo sguardo
per vedermi allo specchio. Gli occhi erano lucidi, le labbra tirate in
un sorriso da ebete, le guance rosee, molto rosee. Cosa mi era
successo? Scossi di nuovo la testa. Mi ci vuole una bella doccia. Mi
lanciai sotto il getto dell’acqua calda. Rilassai i muscoli.
Mi infilai il pigiama, pettinai i miei lunghi capelli castani e li
asciugai attentamente. Poi ritornai nella mia stanza. Mi infilai sotto
le calde coperte, spensi la luce dall’interruttore accanto al
letto. Una rapida occhiata alla finestra di fronte e l’ultimo
pensiero rivolto al mio angelo nell’oscurità.