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Autore: luis    17/10/2009    0 recensioni
Elisabeth è una ragazza molto speciale che a causa del suo passato deve trasferirsi in un'altra città. Questo cambiamento la porterà tra le braccia del suo angelo oscuro: il suo destino.
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO PRIMO

    Era la mia stanza, sì proprio lei. La mia nuova stanza nella nuova casa. Una flebile luce oltrepassava la finestra. Sentivo come un richiamo. Qualcuno che sussurrava il mio nome. Forse è il vento, pensavo, la mia fantasia. “Elisabeth”, quel sussurro insisteva. Mi alzai e mi diressi alla finestra. Scostai le tende e la aprii. Una ventata di aria fresca mi invase. C’era un profumo in quell’aria così inebriante. Il mio cuore cominciò a sussultare, impazzito direi. Allora aprii gli occhi e lo vidi. Era proprio dinanzi a me in tutto il suo splendore. Il mio angelo oscuro. Oscuro, sì, perché era in ombra. Aprì le braccia e le tese verso di me. Un invito ed io non mi feci pregare e in un attimo fui avvolta dalle sue braccia. Protettivo. Il suo abbraccio era fonte di una sensazione di pace, serenità. Era caldo. Non in senso termico, ma la sensazione era di grande calore. Il suo profumo. Non lo dimenticherò mai. All’improvviso, mentre stava finalmente per essere illuminato dalla luce del sole che stava per spuntare scomparve. Ed io mi ritrovai sola.
“No” gridai svegliandomi dal sonno. Un sogno. Di nuovo lo stesso. Erano anni che non facevo più questo sogno. Aprii gli occhi e vidi il soffitto della stanza leggermente illuminato. L’orologio della sveglia sul comodino segnalava le 06,00 del mattino. È ora di alzarsi.
Andai in bagno, il mio riflesso nello specchio sembrava quello di una sconosciuta. Non avevo una bella cera. Mi aspettava  una dura giornata. Mi abbandonai ad una doccia calda. Indossai la prima cosa che trovai nell’armadio. Tante cose erano ancora nei bauli ai piedi del mio letto. Non eravamo riuscite a sistemare tutto, ancora dopo il trasloco. Scesi al piano di sotto e mi diressi in cucina dove la mia mamma e la mia cara nonnina erano già sveglie e intente a preparare la colazione. La mia mamma era una donna energica. Lo era dovuta diventare dopo tutte le disgrazie accadute alla nostra famiglia. Quella settimana era ancora libera. Avrebbe preso servizio alla nuova scuola la settimana successiva. Magnifico potevo usufruire della macchina. Non mi andava di arrivare in ritardo i primi giorni di corso. Primi giorni, ora. Il semestre era già cominciato, sarebbe stata dura inserirmi. A volte mi chiedo ancora perché trasferirsi così di corsa. E poi i ricordi ritornarono alla mente. Era stato necessario. Sperando che duri.
    Mentre guidavo cercai di concentrarmi solo sul nuovo college. Ai miei corsi. Alla mia cara amica Sabrina. Anche lei mi avrebbe raggiunto appena possibile.
Sabrina era la mia migliore amica dalle elementari. Ci siamo incontrate la prima volta in quella scuola speciale per ragazzi prodigio. Sapevamo che saremmo diventate l’una l’ombra dell’altra dal primo sguardo. Era come se ci stessimo aspettando da sempre. Lei ora era felicemente sposata e suo marito Bruce è come un fratello maggiore. È il fratello che ho perso tanto tempo fa. Thomas, oh Thomas. Il mio caro dolce fratello. Era poco più che adolescente quando morì, dopo una lunga e sofferta malattia. Genetica. È stato allora, avevo solo otto anni, che decisi che sarei diventata medico. Mi sarei specializzata nella ricerca e avrei cercato di aiutare e dare il mio contributo in memoria di Thomas. Era quella la cosa più importante. Niente altro è mai contato nella mia vita. Solo il mio obiettivo. E ci sarei riuscita. Non mi sarei fermata di fronte a nulla.
Eccomi qua. Nel parcheggio dell’università. Oggi sarebbe stata sicuramente una lunga giornata. Speriamo di non incontrare troppa gente. O meglio troppi curiosi. Non mi va di essere scortese, non è educato, ma non mi va neanche di raccontare i fatti miei al primo sconosciuto. Sicuramente ci sarà qualcuno che mi chiederà come mai una studentessa di Harvard tanto brillante all’ultimo anno di specializzazione, benché tanto giovane, abbia deciso di trasferirsi a semestre iniziato in una sperduta università di provincia. Meglio non pensarci. Mi incamminai all’ingresso con l’elenco dei miei corsi in mano, ritirato il venerdì prima. Mi diressi verso l’aula della prima ora. La mattinata trascorse tranquilla. Fortunatamente ero riuscita a svignarmela prima che qualcuno notasse la mia presenza e cominciasse a fare domande. Mi sentivo strana, non era solo l’ansia per quella nuova situazione. No, sentivo che quel giorno sarebbe stato diverso, sentivo che sarebbe accaduto qualcosa. Non so cosa, ma qualcosa che avrebbe cambiato la mia vita. Forse ero diventata solo paranoica. Ma non riuscivo a non pensare al sogno della notte scorsa. Quel sogno era tornato! Quando ero bambina lo facevo tutte le notti. Era bello perché ero felice. Ero legata con un filo indistruttibile al mio angelo nero, lui vegliava su di me ed io mi sentivo al sicuro, protetta, che qualsiasi cosa sarebbe accaduta non avrebbe potuto scalfirmi in nessun modo, perché lui era al mio fianco. Non avevo mai visto il suo volto era sempre nell’ombra. Poi qualcosa è cambiato c’era un pericolo, un pericolo che veniva da qualcosa di tremendamente malvagio che voleva uccidere il mio angelo nero e lui fuggiva via da me. Per proteggermi, certo, ma io mi sentivo persa, smarrita, avvolta dalla terribile oscurità. Era inquietante. Dopo la morte di mio padre, ho smesso di fare quel sogno, anzi non ho più sognato. Avevo paura dei miei sogni, perché si avveravano. Un mese prima dell’incidente di mio padre lo sognavo tutte le sere e quando è accaduto, beh è stato terribile, perché è avvenuto esattamente come nei miei incubi. Cosa devo aspettarmi, ora? Ho paura. Qualcosa accadrà sicuro. Rimuginando su questi pensieri angosciosi non mi resi conto che mi ero persa. E ora?
“Ciao”, una voce alle mie spalle mi salutò. “Ti sei persa?”
Mi voltai con l’aria stravolta e la vidi, la persona che mi aveva rivolto la parola. Era una ragazza molto carina, i capelli corti scuri, il viso a cuore, occhi scuri, sorriso luminoso. Era alta , poco più di me. Doveva avere 24/25 anni. “Sì”, dissi “Ero soprappensiero e mi sono persa”.
“Sei nuova, non è vero? Sei una matricola o al secondo anno?”
“No, sono una specializzanda” dissi un po’ risentita. E sì che ero più giovane di tutti loro, ma addirittura scambiarmi per una poppante!
“Davvero?” disse alquanto sbigottita. “Devi dirmi il tuo segreto sembri molto, molto più giovane”.
“che facoltà sei iscritta?”
“Medicina”.
“Ah, allora hai il tirocinio adesso! Magnifico ti accompagno” disse.
“Sei diretta alle parti dell’ospedale?” chiesi
“No, sono diretta proprio lì. Anche io sono una specializzanda di medicina” e mi rivolse un sorriso affascinante.
“Scusa, non mi sono neanche presentata. Mi chiamo Sarah, Sarah Castle” e mi porse la mano.
“Elisabeth, Elisabeth Hansen” mi presentai stringendole la mano  a mia volta.
Ci incamminammo nel corridoio. La mia nuova interlocutrice era simpatica. Mi stava aggiornando un po’ sugli inciuci e i piccoli scandali della nostra facoltà. Fu gentile e non mi fece neanche una di quelle domane che temevo tanto. In ospedale mi presentò ai colleghi della classe di tirocinio. Erano quasi tutti uomini. Era un po’ imbarazzante, in effetti. Mi guardavano come fossi una stranezza e alla fine ci fu qualcuno che con il tatto di un elefante mi chiese: “ Ma quanti anni hai? Sembri più una matricola”
“Venti” dissi. Mi guardarono come fossi un extra terrestre “Ho frequentato le scuole speciali e mi sono diplomata molto presto” aggiunsi.
“Un piccolo genio, allora!” disse qualcun altro. Sentii le mie guance arrossire.
“Beh, ragazzi abbiamo trovato la nostra mascotte!” e tutti si strinsero in una risata fragorosa che mi coinvolse. Il resto del pomeriggio fu piacevole, trascorse in fretta, nessuna complicazione. Alla fine del turno ci ritrovammo all’ingresso del reparto di nuovo tutti insieme. Ricordavo i nomi di ognuno, Harry, Sarah, Logan, Veronica, Carl. Tutti simpaticissimi. Eravamo lì a chiacchierare del più e del meno quando si aprirono le porte dell’ascensore e li vidi. Erano bellissimi. Un uomo dai capelli corvini e gli occhi color nocciola, l’incarnato pallido, le movenze morbide e flessuose il sorriso gentile. Era alto, snello, asciutto, ma muscoloso. La maglietta attillata sotto il camice bianco rivelava i tratti perfetti della muscolatura. E la ragazza al suo fianco. Una visione. Sembrava una dea. I capelli lunghi ricci e mordidi castano scuro e gli occhi color cioccolato. Anche il suo incarnato era pallido, ma il suo corpo flessuoso e perfetto. Sembravano una coppia di fotomodelli, ma lui doveva essere un medico a giudicare dal camice bianco e la targhetta appuntata al petto. Ero talmente annebbiata da non riuscire a leggere il nome. E poi come se qualcuno mi avesse letto nel pensiero “Quello è il dottor Emerson. Lucas Emerson. È uno schianto. Il sogno proibito di quasi tutte le infermiere e non dell’ospedale” esordì Sarah doveva aver visto la mia espressione attonita.
“E la ragazza chi è?” chiesi di rimando.
“La sua fidanzata. Si Chiama Simone Wentworth”.
“E’ bellissima” dissi.
“Sì. Come puoi notare i nostri colleghi le sbavano dietro come cagnolini. E a lei la cosa sembra divertirla. Ah, per la cronaca i due vivono insieme. Insieme al fratello di lei. Quello sì che è uno schianto molto, molto più del dottor Emerson.”
“Davvero?”
“Sì, anzi mi meraviglio che non sia con loro. Di solito fa sempre una capatina in ospedale”.
Mi fermai ancora a guardarli. Erano bellissimi e lei era qualcosa di incredibile, neanche nei miei sogni avrei avuto un portamento simile. Io ero l’esatto opposto. In genere ero un po’ goffa, sempre distratta e immersa nei miei pensieri. Non facevo mai molta attenzione a dove mettevo i piedi. E il resto beh, non c’è paragone. E poi scomparvero dietro l’angolo. Prima, però, avrei giurato che la ragazza mi avesse guardato di sottecchi.
Riprendemmo la nostra conversazione interrotta da quella apparizione. Carl stava proponendo di andare a festeggiare da qualche parte, ma mio malgrado dovetti rifiutare l’invito. Mamma e nonna Hansen mi stavano sicuramente aspettando. “Un’altra sera, magari. Grazie, siete tutti così gentili. A casa mi staranno aspettando. È tutto il giorno che sono fuori.”
“D’accordo” disse Veronica “un’altra sera, allora, magari possiamo metterci d’accordo prima così puoi avvisare casa”
“ok”.
In quel momento arrivò un’infermiera con degli avvisi da esporre in bacheca. “non ci posso credere!” esclamò Sarah.
“Cosa?” chiesi incuriosita da tanto brio.
“Si sono liberati due posti nel corso del dottor Emerson!”
“E’ un corso importante?” chiesi.
“Non conosci il corso dei predestinati?” disse Logan.
“No, dovrei? E chi sono i predestinati?”.
“Il corso del dottor Lucas è uno dei corsi cui aspirano tutti gli specializzandi con mire nel campo della ricerca medica” spiegò Veronica.
“Sì, se passi il corso con lui automaticamente al termine degli studi si è assunti alla Fondazione Phoenix” continuò Sarah.
“La Fondazione Phoenix? Ne ho sentito parlare. È uno dei complessi più rinomati in zona nel settore della ricerca, in tutti i campi” dissi.
“Come si fa per accedere al corso?” aggiunsi con una nuova luce negli occhi. Quello era il mio obiettivo.
“Bisogna compilare un modulo in segreteria. Dopodichè si viene convocati direttamente dal dottor Emerson, e credimi lui è molto selettivo. Ammette soltanto i migliori” disse Harry che fino a quel momento non aveva detto una parola.
Mi voltai e vidi l’ora dall’orologio affisso alla parete.
“Oh mio Dio è tardi. Devo andare ci vediamo domani”
“A domani” dissero gli altri in coro.
Mi precipitai nel parcheggio in men che non si dica. Avevo le mani occupate dai libri e quaderni di appunti. Frugavo nelle tasche del giubbotto in cerca delle chiavi e per non smentire la mia goffaggine mi caddero buona parte dei libri in terra. Che disastro. Nel mentre decidevo se dare priorità alla ricerca delle chiavi o recuperare i libri, questi me li ritrovai ben impilati di fronte il mio naso.
“Grazie” dissi d’istinto a chiunque avesse risolto il dilemma. Alzai il capo e vidi un’ombra che mi fissava. Due occhi che sembravano due stelle. Così luminosi. Era un ragazzo a giudicare dalla sagoma, era alto, snello asciutto.
“Siamo piuttosto distratti, eh? Non è un bene!” disse in tono giocoso facendo un passo avanti. Si ritrovò proprio sotto il lampione e la sua luce lo illuminò. Era la cosa più bella che avessi mai visto. Mi si fermò il respiro. Altro che il dottor Emerson e la sua splendida fidanzata. Questo ragazzo era un dio, un’apparizione, un angelo. I suoi occhi brillavano teneri e dolci come due fiamme, due scintille azzurre che brillavano nell’oscurità, i lineamenti del viso erano delicati e perfetti come quelle delle statue dei miti greci. Mi ci volle qualche secondo per riavermi da quella visione. Molto gentilmente disse: “Ti converrebbe recuperare ciò che stavi cercando dalla tasca prima che ti restituisca i libri, non vorrei che ricadessero di nuovo. Potrebbero risentirsene!” disse con un sorriso compiaciuto e divertito.
“Giusto” fu tutto quello che riuscii a rispondere.
Frugai di nuovo nelle tasche del giubbotto. Ma niente. Cercai di raggiungere quelle dei jeans. E il mio soccorritore che stava cercando di soffocare una risata, mi prese il resto dei libri e mi liberò le braccia. Cercai nella borsa, ma niente.
“Oh no, devo aver perso le chiavi” dissi in tono disperato. E ora dove le avrei cercate?
L’angelo di fronte  a me rise divertito e disse: “sono quelle?” Indicando un paio di chiavi che si intravedevano all’interno dell’auto ancora inserite nel cruscotto.
Mi sentii tanto stupida e con rabbia aprii la portiera del guidatore.
“Grazie dell’aiuto” dissi stizzita mentre recuperavo i miei libri e una vampata di calore mi avvampò le guance. Successe tutto in un attimo. L’improvviso rossore delle mie guance nel recuperare i libri le nostre mani si sfiorarono e il contatto provocò come una scossa elettrica che mi invase  tutta. L’espressione divertita del ragazzo scomparve, si accigliò, sembrò come trattenere il respiro e si allontanò da me come fossi stata una specie di appestata. Si nascose di nuovo nell’ombra. Sembrava barcollare, si piegò come stesse male. Allora gettai i libri sul sedile del passeggero e feci come per avvicinarmi.
“Tutto bene?” dissi.
“Sì”, la sua voce era roca, come in preda ad una terribile sofferenza.
Mi mossi di un passo.
“Stai lontana da me!” gridò come in un ringhio e alzò lo sguardo. I suoi occhi, i suoi occhi ardevamo come fiamme. Non erano lo scintillio divertito di poco prima, anzi erano carboni incandescenti, rossi come le fiamme dell’inferno. Il suo sguardo carico d’odio. Mi paralizzai, non riuscivo a ragionare, sentivo solo quello sguardo su di me come se mi attraversasse da parte a parte, sentii come un dolore lancinante al petto. Non so perché, ma non riuscivo a distogliere gli occhi dai suoi, eppure dovevano essere terrorizzati, percepivo come una forza magnetica attirarmi verso quello sconosciuto, quasi ne dipendesse la mia stessa vita.
Poi un suono, un rombo di un motore che sopraggiungeva spezzò quella magia ed entrambi distogliemmo lo sguardo. In un attimo lo sconosciuto si dileguò.
Ancora disorientata, salii in macchina, chiusi lo sportello. Rimasi qualche minuto lì cercando di riordinare le idee. Chi era quel ragazzo? Tanto affascinante quanto inquietante. Basta indugiare su questi pensieri è ora di tornare a casa.
Lungo il tragitto fu difficile non pensarci. Il suo sguardo così accattivante, quei lineamenti perfetti, e le labbra sembravano scolpite da Michelangelo. Un sospiro uscì dalle mie labbra. Era innaturale, avrei dovuto essere terrorizzata da quel bizzarro sconosciuto, dopo lo sguardo di profondo odio che mi aveva lanciato, sembrava volesse uccidermi. Eppure non riuscivo ad averne paura. No, mi sentivo come nel parcheggio terribilmente attratta come una calamita. Che razza di pensieri mi vengono in mente? In tutta la mia esistenza non ho mai indugiato su un ragazzo, la mia mente e il mio essere li ha sempre ignorati. Non ho mai pensato ad un ragazzo in questi termini. Ed ora eccomi, mi sembro una scolaretta alla sua prima cotta. Ma che sto dicendo? Non capisco più niente. Deve essere l’aria di tutti questi cambiamenti tutti in una volta.
Domani lo avrei rivisto? Chissà chi era. Basta. E scossi la testa per scacciare via quei pensieri.
Arrivata a casa. Entrai senza dire una parola, percorsi l’ingresso e mi precipitai in cucina. Muta. Non dicevo nulla. Il che era insolito, normalmente quando rientravo dopo una giornata fuori casa la prima cosa era bombardare di domande sugli avvenimenti della giornata e poi cominciavo con il descrivere la mia. Mia madre mi lanciò un lungo sguardo indagatore, poi incrociò quello di mia nonna, che sembrava avere le stesse domande stampate in viso. Dovevo fare qualcosa, l’aria stava diventando troppo pesante.
“Novità? Cosa mi raccontate di bello?” esordii per cercare di rompere il ghiaccio, mentre affondavo la forchetta nel piatto di pasta che mi era stato premurosamente conservato.
“Ha chiamato Sabrina, tutto il santo giorno” disse mia madre.
“Devo richiamarla” dissi.
“Non ce ne sarà bisogno” disse nonna Hansen. “Tra poco dovrebbe richiamare. Il tempo è quasi scaduto”.
“Come è quasi scaduto?”
“Ha chiamato per tutto il santo giorno ogni mezz’ora circa. L’ultima telefonata è arrivata dieci minuti prima che rincasassi”.
“E tu? Cosa ci racconti?” chiese con aria indagatrice la mia perspicace mammina.
“Niente di che, è stata una normale giornata di college come sempre” risposi. Beh, qualcosa è successo, ma preferivo tenerlo per me.
“Hai conosciuto qualcuno?” chiese la nonna.
Ma perché in questa casa dovevano essere tutti così attenti, perspicaci e non so cos’altro. O forse era la mia faccia a dire tutto. Sono sempre stata un libro aperto.
Sentii le mie guance andare a fuoco.
“Beh,….” Tentennai.
La mamma e la nonna si misero in posizione di ascolto con le orecchie attente come i gatti.
“Insomma, sì. Ho conosciuto qualche persona” dissi alla fine.
“Una ragazza di nome Sarah è stata tanto gentile ad accompagnarmi per tutto il campus. Siamo nella stessa classe di tirocinio e anche gli altri del gruppo sono simpatici.”
“Bene” sbottò la mamma.
“mi fa piacere che fai nuove amicizie. Stai attenta, però. Lo sai cosa è successo ad Harvard e gli sguardi di tutte e tre si incupirono al ricordo.
“Non preoccuparti, mamma, starò attenta”. Sembrava rassicurassi più me stessa che gli altri. Lo squillo del telefono spezzò l’atmosfera ormai plumbea.
“Rispondo io” dissi e mi alzai da tavola per dirigermi al telefono in soggiorno. “Deve essere Sabrina.”
“Pronto?”
“Pronto, Lizze, sei tu?” rispose una voce femminile all’altro capo del telefono.
“Sì sono io Sabry. Come stai?”
“Sto bene, solo qualche piccolo disturbo, ma è normale nel mio stato”
“Come mai hai assillato i miei con il telefono, oggi? Non sapevi che ero a lezione e che sarei rincasata tardi?”
“Sì, lo so, ma mi sentivo inquieta. Avevo come uno strano presentimento”
Io e Sabrina eravamo così legate che riuscivamo a percepire lo stato d’animo l’una dell’altra anche se non eravamo insieme. Non mi sarei aspettata che oggi la mia angoscia fosse tale da raggiungerla a chilometri di distanza.
“Ti capisco. Anche io ero agitata. Poi è andato tutto bene”
“hai conosciuto qualcuno?” chiese.
Aver sottolineato quella parola con il tono della sua voce voleva dire che aveva intuito qualcosa?
“No” dissi seccamente.
“Non venirmi a dire che dopo un’intera giornata tra università e ospedale, i posti più affollati in assoluto, a parte i centri commerciali, non hai conosciuto neanche un’anima?”
“Beh, sì, qualcuno. I miei compagni di corso. Molto simpatici”
“E…?”
“E niente, basta così”.
“Non me la dai a bere. Ti conosco come le mie tasche. Hai uno strano tono di voce. Sei sulla difensiva. Il che significa che hai incontrato più di qualcuno!” concluse con un tono soddisfatto.
“Uhm…”
“Ho fatto centro giusto?”
“Diciamo di sì”. Sentii dei rumori, probabilmente la mamma o la nonna o entrambe si erano appostate per origliare la conversazione.
“Come è? È carino?”
Più che carino, pensai, una visione. “Ne riparliamo quando arriverai” dissi con tono evasivo.
“ci sono i nostri in ascolto, eh? Va bene. A proposito. È ufficiale Bruce ha avuto il trasferimento. Partiamo venerdì. Sabato mattina saremo lì. Abbiamo anche già trovato casa” mi comunicò.
“Sul serio? Ma è fantastico. Non vedo l’ora di averti di nuovo qui con me”.
“A presto. Lizzie. E quando arriverò dovrai raccontarmi tutto, intesi? Ora ti saluto è ora del riposo.
Un bacio a presto” mi salutò.
“A presto”. Agganciai. Rimasi qualche istante a meditare guardando il telefono. Poi salii al piano superiore e mi diressi nella mia camera. Raccolsi il pigiama il beauty con le mie cose, andai in bagno, feci cominciare a scorrere l’acqua calda della doccia. Cominciai a spogliarmi e alla fine alzai lo sguardo per vedermi allo specchio. Gli occhi erano lucidi, le labbra tirate in un sorriso da ebete, le guance rosee, molto rosee. Cosa mi era successo? Scossi di nuovo la testa. Mi ci vuole una bella doccia. Mi lanciai sotto il getto dell’acqua calda. Rilassai i muscoli. Mi infilai il pigiama, pettinai i miei lunghi capelli castani e li asciugai attentamente. Poi ritornai nella mia stanza. Mi infilai sotto le calde coperte, spensi la luce dall’interruttore accanto al letto. Una rapida occhiata alla finestra di fronte e l’ultimo pensiero rivolto al mio angelo nell’oscurità.

   
 
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