OCCHI DI VETRO
Sentivo il mio cuore battere come i
rintocchi di un orologio, regolari, statici, senza nessun tipo di variazione
che ne cambi il movimento.
I battiti meccanici del mio cuore
che giorno dopo giorno andava in pezzi, piccoli granelli di sabbia come in una
clessidra che non si capovolgerà più.
Così il mio cuore andava
consumandosi e così sentivo la mia esistenza svanire ogni attimo che passava.
Non
è mai stato “un buon momento” per me, forse non ho mai avuto l’occasione di
dirlo a nessuno. “Come va?” mi chiedevano sempre con la solita aria di
noncuranza che tanto odiavo. A chi importava di come stavo? E soprattutto chi
erano loro per voler sapere come stavo? In realtà questa domanda è diventata
una comune cortesia, non si vuole realmente sapere, sono le circostanze a
richiederlo e nella maggior parte dei casi chi chiede spera di sentirsi dire,
“tutto bene, grazie”.
Ed
è proprio questo che facevo, li ringraziavo. Di cosa poi non lo so.
Molte
volte pensavo che il mio posto nel mondo fosse vacante e che in realtà tutta la
mia esistenza fosse una mera illusione. Quando non ricevo stimoli di alcun tipo
e quando i miei occhi diventano di vetro capisco quanto invisibile io sia, non
ho mai pensato alla morte, però. Credo che alla fine nemmeno la morte allievi
il dolore e la sofferenza della vita, nessuno sa cosa ci sia aldilà e
suicidarsi non è un buon modo di scoprirlo.
Allora
ho deciso di vivere la mia meccanica vita, fatta di meccanici battiti del cuore
e di piccoli granelli di anima in una clessidra che non torna indietro.
Certe
volte mi rinfacciano la mia maturità, tutte le volte penso che sarei io a
rinfacciare loro la stupidità che regna sovrana sulla loro persona. Ma non lo
faccio mai, forse perché sono più infantile di loro, o forse perché non penso
ne valga la pena.
Ma
solo quelle volte in cui mi chiedo perché nessuno riesce a comprendere il mio
tormento, perché nessuno si chiede come mai i miei occhi si dissipano in
sguardi senza fondo o senza convinzione, perché a volte il mio respiro diventa
irregolare e i tremiti iniziano a prendermi dalla testa ai piedi.
Molti
scrittori antichi sostenevano che la felicità dura solo pochi attimi e poi
scompare, perché l’uomo non ne ha mai abbastanza e gli obbiettivi che si pone
smettono di esserlo una volta raggiunti.
Ma
se un obbiettivo smette di essere un obbiettivo, allora perché ci affanniamo
continuamente per tentare di raggiungerlo? Per arrivare alla fine e dire che
non era poi così importante.
La
mia esistenza non è mai stata altro se non un rubare tempo al tempo, se con la
mia morte potessi donare la vita a qualcuno di più sfortunato lo farei. Almeno
donerei a lui l’attimo di felicità che io non ho mai ricevuto, l’attimo in cui
dici “sono contenta di essere viva, grazie Dio”, in cui hai solo voglia di
ridere e piangere è l’ultimo dei tuoi pensieri. Dove non ti crei alcun tipo di
problemi oppure addirittura ne chiedi per poter iniziare a vivere.
Ho
incontrato molte persone nel mio cammino, in bilico tra vita e morte, molte le
conoscevo, altre no.
Quando entri nell’occhio del
ciclone, scopri di esserci sempre stata ma di aver ignorato quello che per
tutto il tempo hai avuto davanti. Capisci come la vita sia in realtà qualcosa
che ti sfugge dalle dita quando meno te lo aspetti, oppure te lo aspetti eccome
e ti appigli a qualsiasi cosa pur di non impazzire di dolore.
Quando
conobbi lui capii tutte queste cose e fu allora che tutto il mio universo si
sconvolse, trasmettendomi dentro tutte le sue ansie e le sue disperazioni.
Io
lo capivo, io riuscivo a comprenderlo, ma non potevo dirglielo, non potevo
confessarglielo, non potevo abbracciarlo o stringerlo forte per fargli
sciogliere quel nodo in gola che gli dilaniava l’anima. Quel fottuto nodo che
ha mandato giù per diciassette anni e che quando si scioglierà sarà troppo
tardi.
Io volevo solo salvarlo.
Salvarlo da un destino ormai
deciso.
Molte volte però, il desiderio non
prevale sulla realtà.
Lo
conobbi un anno fa, quando lo vidi passeggiare nel viale.
Era
con degli amici e stava ridendo, stava scherzando e anche schiamazzando, ma mi
bastò posare i miei occhi sulle sue iridi per capire che anche le sue erano di
vetro.
Rimasi
ad osservarlo per un po’ finché non scomparve dalla mia visuale e da quel
momento non riuscii più a dimenticarlo.
Non
so perché ripenso a tutto ciò ora che non ha più senso.
Forse
perché nonostante mi sia affannata per trovare una soluzione, non l’ho mai
trovata.
O
probabilmente l’amaro nello stomaco che da quel maledetto giorno risiede
indisturbato, mi spinge a ricordare forse il dolore più grande della mia vita
senza senso.
Ho conosciuto l’oppressione di una
malattia, ho conosciuto persone con la consapevolezza di poter morire in
qualsiasi momento. So per certo che svegliarsi la mattina è un dono del Cielo e
so per certo anche che nessuno più di noi sa cosa significa vivere la vita in
modo tormentato.
Tutte le sensazioni che lui provocò
dentro me le tengo ancora oggi, mentre guardo il sole dietro la finestra magari
annebbiata dalla brina notturna e penso che Dio ha voluto donarmi un altro
giorno.
Lui
non capiva, non capiva il male che stava facendo a sé stesso perché nessuno gli
aveva mai detto di smetterla, nessuno si era mai preoccupato di quanto dolore
si tenesse in corpo. Nessuno provava a comprenderlo, tranne forse suo fratello,
la sua metà, il suo legame più profondo.
Il
suo unico fratello gemello.
Colui
che lo sosteneva quando la tosse gli impediva di respirare, colui che soffriva
con lui quando la voglia di morire prima del tempo s’impossessava di lui, colui
che l’abbracciava quando di notte gli veniva voglia di piangere.
Purtroppo
lui non ha saputo reggere l’onda d’urto quando scoprì di non avere alcuna
possibilità di superare i vent’anni, da quel momento iniziò ad ammazzare il
tempo compiendo qualsiasi genere di bravata, arrivando anche a farsi arrestare.
Ormai
non aveva più voglia di nascondersi dietro un castello di carte, fatte di sogni
e speranze, aveva capito che il mondo si riduce ad una malattia e allora tentò
di sfidarlo, quel mondo. Ignorò le suppliche di suo fratello e prese la sua
strada, fino a quando quella sera non lo vidi, con i suoi occhi di vetro
identici ai miei, rassegnati ad una vita di stenti, di delusioni e cadute.
Guardarsi
allo specchio e vedere lo spettro di un morto che cammina, l’ombra della
persona che un tempo era, la luce spenta di due occhi che non hanno più nemmeno
lacrime. Toccare l’immagine riflessa e credere che si liquefaccia come neve al
sole, questo è tutto ciò che si prova vivendo a stretto contatto con la morte
che ti alita sul collo.
Quando
lo conobbi io, la sua resistenza era ormai all’estremo, io seppi della sua
situazione tramite un’amica e speravo lui non mi notasse mai, la mia
vigliaccheria era tale da non permettermi di prendere la situazione di petto.
Ma lui lo fece, mi notò e da lì cominciò il mio inferno.
Ci
vedemmo per altre tre volte e allora capii che era il momento di dirgli tutto,
guardando i suoi occhi di vetro vedevo tutto lo sconforto che cercava di
nascondere, il suo sguardo quando si posava su qualcosa rimaneva fisso proprio
come il mio.
Fu
allora che capii che anche la sua clessidra si stava esaurendo, e proprio come
la mia la sua non si sarebbe capovolta.
Quella
sera eravamo in un locale, prendemmo da mangiare e io tirai fuori ciò che
dovevo inghiottire prima di potermi cibare, lo feci apposta, lui conosceva
quelle pillole, avrebbe capito da sé. Non tardò, i suoi occhi si spalancarono
leggermente e il suo sguardo si posò sul mio, per quasi un minuto rimanemmo a
guardarci fissi comunicandoci in silenzio tutto ciò che provavano i nostri
cuori, tutta la malinconia celata nelle notti in cui l’ossigeno non svolge il
suo lavoro e tu credi di star vivendo gli ultimi istanti della tua breve vita.
Condividemmo
gli stessi sentimenti e fu così che lui si alzò e andò via.
Lo
seguii correndo, non potevo lasciare tutto così, lo presi dal braccio e lo
costrinsi a girarsi, i suoi occhi ispessirono la loro coltre di protezione per
quelle iridi che non avevano mai sorriso veramente. Quando lo vidi l’unica cosa
che mi venne in mente fu quella di piangere insieme a lui, lo abbracciai ed
insieme perdemmo le forze cadendo per terra come due fagotti ormai vuoti, come
due gusci che hanno ormai esaurito il loro contenuto, come una pianta che non
ha più linfa vitale.
Morii dentro.
Morì dentro.
Morimmo insieme quella notte
d’inverno, quando il vento cantava una litania per i nostri cuori.
Era
svenuto tra le mie braccia, lo tenni stretto ed appena vidi arrivare suo
fratello lo intimai a chiamare l’ambulanza. Lui rimase pietrificato. “Muoviti,
maledizione, muoviti!” gli urlai con tutto il fiato di cui ero capace mentre
sostenevo quel peso inerme con le mie sole forze, mentre mi accollavo tutta la
sua vita e condividevo le sue paure e le sue certezze.
Prese
il telefono con mano tremante e compose il numero mentre il suo respiro si
faceva corto, d’un tratto sentii la mano di lui muoversi nella mia schiena e lo
sorressi meglio che potei.
“Mi dispiace...”
Mi
disse soltanto, prima di accasciarsi alla mia spalla, inerme e privo di anima.
“Ti dispiace di cosa, stupido...” urlai singhiozzando sulla sua spalla magra,
nel frattempo si era messo a piovere e suo fratello si era accasciato sul
pavimento tenendosi la faccia tra le mani. Piangeva anche lui. Lo chiamai piano
e quando lui alzò gli occhi gli tesi la mano. Mi guardò per qualche istante
senza capire, poi l’afferrò e insieme ci stringemmo nel nostro dolore, immersi
dalla pioggia e completamente colmi di paura per un futuro che non esiste, per
un presente che pesa come un macigno e per la morte che continua ad alitare sul
collo nudo di ognuno di noi.
Quel
corridoio immensamente bianco e solitario mi ospitava in una di quelle mattine
grigie, sedevo su una di quelle panche scomode che ospitano migliaia di parenti
in ansia.
Ero
in pigiama e avevo un ago ficcato nel braccio.
Ma
stavo aspettando di avere notizie.
Aspettavo.
Aspettavo
e avrei forse aspettato per tutta la vita.
Davanti
a me c’era lui, suo fratello, anche lui in pigiama e con un ago infilato nel
braccio. Indossavamo una mascherina, ordini di ospedale a cui non potevamo
sottrarci, non avevamo detto una parola da quando eravamo arrivati e ci
scambiavamo solo sguardi ambigui e imbarazzati. Lui si tormentava le mani e
vedevo nei suoi gesti, nei suoi occhi (di vetro), una me riflessa allo
specchio.
Insicura.
Stanca.
Infelice.
Passarono
infinite ere prima che il dottore si decidesse ad uscire e così lo investimmo
senza preamboli di alcun genere. Ci guardò con aria diffidente, senza nessun
espressione in quelle piccole fessure che ne hanno viste di cotte e di crude. I
nostri occhi supplicarono una spiegazione che fosse coerente alle nostre
aspettative.
“E’ sopravvissuto, ma non gli resta
molto.”
Furono
le sue uniche parole. Furono le uniche parole che sentimmo uscire da quella
bocca coperta dalla nostra stessa mascherina.
Furono
le ultime parole che udì la mia anima prima di spegnere l’interruttore e
cominciare a disintegrarsi fino ad adesso.
Mentre
guardo dalla finestra, attraverso i miei occhi che probabilmente sono stati
anche i suoi, che hanno visto tutto ciò che ho visto io.
Adesso
mentre ripenso a te, mentre l’ennesima lacrima mi bagna la maglietta, mentre
l’ennesima goccia scende dal deflussore della flebo e mentre un'altra briciola
di cuore scende giù nella clessidra che non torna indietro.
Adesso.
Ora.
In
quel piccolo frangente nella mia vita, in cui ho veramente provato cosa
significa disperazione, in quel momento tu mi stringesti la mano e mi
sussurrasti, con la tua flebile voce di chi sa che non ha più molto tempo,
accompagnata dai miei singhiozzi che non finivano mai.
Mi
sussurrasti...
“Ti voglio bene, vivi per me e
prenditi cura di mio fratello. Addio...”
Poi
mi accarezzasti il mento, proprio come avevi fatto la prima volta, quando io
non riuscivo a vedere oltre la lastra di vetro.
Ora
che ci riesco, vorrei solo sfondarla.
Vorrei
solo far finta di non aver mai visto nulla.
Vorrei
solo non avere questi maledetti,
maledettissimi,
occhi di vetro.