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Autore: martaelena    25/10/2009    0 recensioni
Alla mattina, il momento di aprire gli occhi era deciso dall’oggetto rotondo con i due bastoncini appuntiti, uno più lungo ed uno più corto. Aveva un rumore stridulo, quell’affare, e gli sarebbe tanto piaciuto farlo smettere, ma non era abbastanza alto. O almeno non ancora.
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L'avventura

 

 

 “ L’AVVENTURA DI ARRIVARE NELLA STANZA ARANCIONE PER CHI E’ ALTO QUANTO UNO SGABELLO ” 

 

 

 

 

 

 

Alla mattina, il momento di aprire gli occhi era deciso dall’oggetto rotondo con i due bastoncini appuntiti, uno più lungo ed uno più corto. Aveva un rumore stridulo, quell’affare, e gli sarebbe tanto piaciuto farlo smettere, ma non era abbastanza alto. O almeno non ancora.

In quei momenti, quando con le manine si stropicciava gli occhi e stiracchiava con voluttà le gambe, la cosa che più gli piaceva fare era sbadigliare. A lungo e più più volte. Spesso accadeva che gorgogliasse allegro e battesse le mani quando uno sbadiglio lo aveva particolarmente soddisfatto.

La sola cosa che lo divertiva di più era giocare con le bolle di sapone. Ma quando era così presto, le bolle non erano ancora pronte per giocare, a meno che non le si svegli. Però poi non erano molto di buon umore. O così gli avevano raccontato.

Il suo stomaco rumoreggiò esigente e lui guardò incerto la porta.

Fino a poco tempo addietro era la donna con la vestaglia rosa che lo portava nella stanza arancione. Lo prendeva in braccio e gli faceva un sacco di moine che, più che fargli piacere, lo facevano ridere. Specie quella del naso schiacciato.

Ma era da un po’, più o meno da quando i giardini si erano riempiti di quei curiosi fili colorati in cima ( che si rompevano facilmente e tra i quali alcuni profumavano come il sapone che usava una volta per lavarsi ), che la donna con la vestaglia rosa non si faceva vedere più.

La prima volta che non si era presentata, aveva aspettato quattro giri completi del bastoncino appuntito più piccolo, seduto sul letto al buio. L’aveva chiamata tante volte, con gorgoglii anche un po’ disperati, c’era da ammetterlo ( ma per quelli la colpa era delle stupide goccioline salate che ogni tanto gli uscivano dagli occhi ).

Ma niente, lei non era venuta.

E allora aveva deciso di alzarsi.

Fortuna che aveva appena cambiato “cuccia”, così come la chiamava la Nana dalle treccine con i fiocchi rossi in fondo; sarebbe stato un problema cercare di uscire da quella con le sbarre.

Aveva imparato subito a spese del suo naso, ma anche della sua faccia in generale, che gettarsi a peso morto, come se stesse per volare, non era una buona idea. In fondo, lui non era come il bambino vestito tutto di verde.

Per cui, armandosi di buona volontà, si mise a sedere. Poi si avvicinò al bordo del letto e, con lentezza, lasciò scivolare prima l’una e poi l’altra gamba.

Il tonfo era la parte che odiava di più.

Era inevitabile che ci fosse ma non per questo riusciva ad apprezzarlo, specie perché spesso, se non stava attento, rischiava di picchiare la testa. Perciò, calibrando con attenzione la spinta delle braccia, scivolò per terra con un leggero ‘thud’. Sospirò di sollievo e, con aria decisa, cominciò a gattonare verso la porta.

Spesso, quando ancora la donna dalla vestaglia rosa lo veniva a prendere, non appena superavano la soglia della sua stanza, un profumo di caffè gli inondava le narici. Aveva imparato subito il nome di quella strana polverina marrone, sembrava quasi che al signore con il lungo pezzo di stoffa appeso al collo non potesse bastare mai. Spesso se lo trovavano davanti non appena uscivano, con una tazza rossa e nera in mano ed un pezzo di biscotto impigliato nel pizzetto. La donna allora rideva, un suono che personalmente gli piaceva molto, e con la mano libera gli toglieva quel pezzo di biscotto. Il signore allora rideva a sua volta e scivolava a baciarle la guancia, per poi arruffare con una mano i suoi capelli.

Ora, mentre con un leggero movimento del braccio, spingeva avanti la porta ed usciva, non riusciva più a sentire nessun profumo. C’era quel vecchio vaso una volta pieno di piante verdi rovesciato per terra ed il tavolino, sui cui solitamente era poggiato il suo biberon e dei curiosi disegni che somigliavano alla Nana, era completamente vuoto.

Gattonando verso sinistra passò davanti alla stanza gialla, quella dove una volta, a quell’ora la Nana guardava i suoi cartoni preferiti, sgranocchiando ogni tanto i cereali nella sua tazza. Quella mattina, la Nana c’era, ma non guardava nulla, o meglio, dormiva sul divano mentre dalla televisione un buffo signore con la giacca grigia e gli occhiali parlava di cose che lui non capiva per nulla. Era curioso quanto quel signore assomigliasse a quello che gli scompigliava i capelli la mattina e gli rimboccava le coperte la sera. Anche lui non si faceva più vedere da qualche tempo, era sparito assieme alla signora con la vestaglia rosa.

Si fermò accigliato.

Non mancava molto alla stanza arancione ed il suo stomaco, felice, fece una capriola. Ma c’era un problema.

Lì per terra c’erano ancora i suoi più temibili nemici. Luccicanti ed appuntiti, gli Specchi Malefici non aspettavano altro che il suo arrivo per divertirsi. Erano cattivi, decisamente senza scrupoli ed aveva imparato presto a sue spese che chiedergli di spostarsi non era una soluzione. L’unica cosa che poteva fare era di utilizzare le sue gambe per alzarsi in piedi, strisciare contro il muro come solo  i  più bravi sapevano fare e poi allontanarsi velocemente, prima che gli Specchi Malefici potessero architettare un contrattacco. Era decisamente la parte più pericolosa del suo cammino, ma, dentro di sé, ogni volta che riusciva nella sua impresa, si sentiva tremendamente forte e gorgogliava soddisfatto a fine giornata pensando a come li aveva sconfitti ancora una volta.

Gli Specchi Malefici erano comparsi da qualche tempo. La loro provenienza non era ignota, anzi, sapeva bene quale fosse la causa della loro nascita. Giusto sopra una mensola vicino alla porta per l’uscita verso il Mondo Esterno stava un altro di quei buffi disegni a colori che c’erano un po’ in tutte le stanze. Questo era decisamente il più grande di tutti e rappresentava lui, la donna con la vestaglia rosa ( stavolta con un abito verde ), l’uomo con il pizzetto nero e la Nana. Una delle prime volte che si era ritrovato a gattonare da solo verso la stanza arancione, l’aveva trovato per terra, rovesciato e gli Specchi Malefici erano tutti lì intorno. All’inizio era stato tratto in inganno ed aveva tentato di girare il disegno ma gli Specchi lo avevano attaccato e da allora era iniziata la guerra. Che fino a quel momento non aveva ancora visto il prevalere di nessuno dei due contendenti, ma era presto per cantare vittoria.

Si guardò al di sopra della spalla con aria soddisfatta: anche quella mattina se l’era cavata senza neanche un graffio, stava diventando un esperto.

Rimase in piedi ed, appoggiandosi con una mano al muro, procedette verso la stanza arancione. Svoltò l’angolo sulla sua sinistra e, finalmente, raggiunse la meta.

Le finestre erano aperte e da fuori spirava un leggero venticello che scostava le tendine strappate. Il tavolo, una volta teatro delle sue più aspre battaglie con i piselli ed i fagioli all’ora di pranzo, era ricoperto da un lenzuolo simile a quello del suo letto, solo pieno di macchie rosse ed, in alcuni punti, giallognole. Un cartone del latte era rovesciato vicino al frigo, ma di latte non ce n’era più traccia, forse finalmente quel buffo affare peloso che girava per casa e che si stiracchiava con le sue unghie sul divano nella stanza gialla aveva finito di berselo tutto. Poco male, aveva iniziato ad avere un odore strano, quel latte, e spesso si era ritrovato a fare giri più lunghi attorno al tavolo per evitare che il suo stomaco lo vedesse ed inorridisse, facendolo gattonare di corsa nella stanza verde, quella dove di solito giocava con le bolle di sapone.

Si appoggiò al tavolo e scrutò verso il lavandino: sapeva che la sua tazza, quella rotonda con i soldatini blu, era lì dentro, glielo aveva detto la Nana, e la Nana non diceva mai bugie, o così lei raccontava quando lo fissava con aria truce ed i capelli sciolti sulle spalle ( “Le treccine non ci sono più perché gli elastici rossi sono fuggiti per farmi dispetto” aveva aggiunto una volta mentre lo aiutava ad andare a letto ).

Doveva trovare una soluzione.

Vide allora che sul tavolo giaceva abbandonata la tazza dell’uomo con il pizzetto: il rosso non era più tanto rosso ed il nero era incrostato un po’ di marrone, ma nel complesso il manico c’era ancora, non come per la tazza viola della donna con la vestaglia rosa, che era spezzata a metà, in un angolo del corridoio.

Sapeva anche che sul tavolo c’erano ancora i cereali ed il latte che da quasi una settimana mangiava. Perciò, facendo leva sulle braccia, si issò a fatica su uno sgabellino arancione e da lì, si arrampicò sul sedile della sedia.

Era tutto come aveva lasciato ieri e, gorgogliando soddisfatto, si arrampicò sul tavolo.

La tazza rossa e nera non era vuota però.

C’era un liquido strano, dall’odore pungente ( e vagamente disgustoso ) di colore marrone. Arricciò il naso e, per evidenziare ancor di più il proprio disgusto, agitò le braccia, quasi a voler scacciare quell’odore disgustoso.

Non avendo altre soluzioni, rovesciò il contenuto della tazza giù dal tavolo,  apprestandosi poi a rovesciare il latte nella tazza, sebbene ci fossero ancora tracce di quel liquido disgustoso sul fondo.

Fu in quel momento che fece il suo ingresso l’uomo nero.

Non era da tanto tempo che girava per la casa, sebbene lo facesse prevalentemente di notte e, ogni tanto, la mattina. Non parlava mai e lui dubitava che sotto quella folta barba ci fosse addirittura una bocca. Portava una giacca grigia, a macchie rosse, aveva profondi occhi neri e sembrava il cattivo che in ogni cartone animato rapisce la principessa.

Lo guardò e sentì le sue manine tremare un po’.

L’uomo lo fissò a sua volta, sospirò pesantemente. Poggiando la giacca sulla sedia, aggirò il tavolo e gli tolse la tazza e cartone del latte dalle mie mani.

Dal lavandino afferrò la sua tazza con i soldatini blu e la riempì  di latte e poi dei suoi cereali preferiti, quelli rotondi al miele.  Gliela mise davanti con dentro un cucchiaino pulito.

Poi gli scompigliò i capelli. Con un gesto lento, tenero e, forse, un po’ spaventato.

Fece per dire qualcosa, ma il suo sguardo venne catturato dalla veste rosa un po’ strappata ( una vestaglia ? ) gettata in un angolo della stanza. Si irrigidì e si allontanò di scatto, quasi si fosse bruciato con qualcosa.

A passi veloci, raggiunse la porta verso il Mondo Esterno, la aprì e, prima di uscire del tutto, si voltò a guardarlo.

Gli sembrò quasi che gli occhi neri fossero diventati più lucidi. Lo sentì mormorare qualcosa, ma, prima di riuscire a capire che cosa, l’uomo nero se ne era andato.

La casa ricadde nel silenzio.

Rimase a contemplare con aria assorta la porta.

Poi il suo stomaco rumoreggiò impaziente e si ricordò della ciotola di cereali appetitosi che aveva tra le mani. Sorrise, quel sorriso ancora un po’ sdentato che spesso faceva ridere la donna con la vestaglia rosa ed il signore con il pizzetto nero.

Chissà dove erano finiti?

Ma non era il momento adatto pensare quello.

Anche per quella mattina ce l’aveva fatta ad arrivare alla stanza arancione, e questo era l’importante.

 

 

  
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