“ L’AVVENTURA DI
ARRIVARE NELLA STANZA ARANCIONE PER CHI E’ ALTO QUANTO UNO SGABELLO ”
Alla mattina, il
momento di aprire gli occhi era deciso dall’oggetto rotondo con i due
bastoncini appuntiti, uno più lungo ed uno più corto. Aveva un rumore stridulo,
quell’affare, e gli sarebbe tanto piaciuto farlo smettere, ma non era
abbastanza alto. O almeno non ancora.
In quei momenti,
quando con le manine si stropicciava gli occhi e stiracchiava con voluttà le
gambe, la cosa che più gli piaceva fare era sbadigliare. A lungo e più più
volte. Spesso accadeva che gorgogliasse allegro e battesse le mani quando uno
sbadiglio lo aveva particolarmente soddisfatto.
La sola cosa che lo
divertiva di più era giocare con le bolle di sapone. Ma quando era così presto,
le bolle non erano ancora pronte per giocare, a meno che non le si svegli. Però
poi non erano molto di buon umore. O così gli avevano raccontato.
Il suo stomaco
rumoreggiò esigente e lui guardò incerto la porta.
Fino a poco tempo
addietro era la donna con la vestaglia rosa che lo portava nella stanza
arancione. Lo prendeva in braccio e gli faceva un sacco di moine che, più che
fargli piacere, lo facevano ridere. Specie quella del naso schiacciato.
Ma era da un po’,
più o meno da quando i giardini si erano riempiti di quei curiosi fili colorati
in cima ( che si rompevano facilmente e tra i quali alcuni profumavano come il
sapone che usava una volta per lavarsi ), che la donna con la vestaglia rosa
non si faceva vedere più.
La prima volta che
non si era presentata, aveva aspettato quattro giri completi del bastoncino
appuntito più piccolo, seduto sul letto al buio. L’aveva chiamata tante volte,
con gorgoglii anche un po’ disperati, c’era da ammetterlo ( ma per quelli la
colpa era delle stupide goccioline salate che ogni tanto gli uscivano dagli
occhi ).
Ma niente, lei non
era venuta.
E allora aveva
deciso di alzarsi.
Fortuna che aveva
appena cambiato “cuccia”, così come la chiamava
Aveva imparato
subito a spese del suo naso, ma anche della sua faccia in generale, che
gettarsi a peso morto, come se stesse per volare, non era una buona idea. In
fondo, lui non era come il bambino vestito tutto di verde.
Per cui, armandosi
di buona volontà, si mise a sedere. Poi si avvicinò al bordo del letto e, con
lentezza, lasciò scivolare prima l’una e poi l’altra gamba.
Il tonfo era la
parte che odiava di più.
Era inevitabile che
ci fosse ma non per questo riusciva ad apprezzarlo, specie perché spesso, se
non stava attento, rischiava di picchiare la testa. Perciò, calibrando con
attenzione la spinta delle braccia, scivolò per terra con un leggero ‘thud’.
Sospirò di sollievo e, con aria decisa, cominciò a gattonare verso la porta.
Spesso, quando
ancora la donna dalla vestaglia rosa lo veniva a prendere, non appena
superavano la soglia della sua stanza, un profumo di caffè gli inondava le
narici. Aveva imparato subito il nome di quella strana polverina marrone,
sembrava quasi che al signore con il lungo pezzo di stoffa appeso al collo non
potesse bastare mai. Spesso se lo trovavano davanti non appena uscivano, con
una tazza rossa e nera in mano ed un pezzo di biscotto impigliato nel pizzetto.
La donna allora rideva, un suono che personalmente gli piaceva molto, e con la
mano libera gli toglieva quel pezzo di biscotto. Il signore allora rideva a sua
volta e scivolava a baciarle la guancia, per poi arruffare con una mano i suoi
capelli.
Ora, mentre con un
leggero movimento del braccio, spingeva avanti la porta ed usciva, non riusciva
più a sentire nessun profumo. C’era quel vecchio vaso una volta pieno di piante
verdi rovesciato per terra ed il tavolino, sui cui solitamente era poggiato il
suo biberon e dei curiosi disegni che somigliavano alla Nana, era completamente
vuoto.
Gattonando verso
sinistra passò davanti alla stanza gialla, quella dove una volta, a quell’ora
Si fermò
accigliato.
Non mancava molto
alla stanza arancione ed il suo stomaco, felice, fece una capriola. Ma c’era un
problema.
Lì per terra
c’erano ancora i suoi più temibili nemici. Luccicanti ed appuntiti, gli Specchi
Malefici non aspettavano altro che il suo arrivo per divertirsi. Erano cattivi,
decisamente senza scrupoli ed aveva imparato presto a sue spese che chiedergli
di spostarsi non era una soluzione. L’unica cosa che poteva fare era di
utilizzare le sue gambe per alzarsi in piedi, strisciare contro il muro come
solo i
più bravi sapevano fare e poi allontanarsi velocemente, prima che gli
Specchi Malefici potessero architettare un contrattacco. Era decisamente la
parte più pericolosa del suo cammino, ma, dentro di sé, ogni volta che riusciva
nella sua impresa, si sentiva tremendamente forte e gorgogliava soddisfatto a
fine giornata pensando a come li aveva sconfitti ancora una volta.
Gli Specchi
Malefici erano comparsi da qualche tempo. La loro provenienza non era ignota,
anzi, sapeva bene quale fosse la causa della loro nascita. Giusto sopra una
mensola vicino alla porta per l’uscita verso il Mondo Esterno stava un altro di
quei buffi disegni a colori che c’erano un po’ in tutte le stanze. Questo era
decisamente il più grande di tutti e rappresentava lui, la donna con la
vestaglia rosa ( stavolta con un abito verde ), l’uomo con il pizzetto nero e
Si guardò al di
sopra della spalla con aria soddisfatta: anche quella mattina se l’era cavata
senza neanche un graffio, stava diventando un esperto.
Rimase in piedi ed,
appoggiandosi con una mano al muro, procedette verso la stanza arancione.
Svoltò l’angolo sulla sua sinistra e, finalmente, raggiunse la meta.
Le finestre erano
aperte e da fuori spirava un leggero venticello che scostava le tendine
strappate. Il tavolo, una volta teatro delle sue più aspre battaglie con i
piselli ed i fagioli all’ora di pranzo, era ricoperto da un lenzuolo simile a
quello del suo letto, solo pieno di macchie rosse ed, in alcuni punti,
giallognole. Un cartone del latte era rovesciato vicino al frigo, ma di latte
non ce n’era più traccia, forse finalmente quel buffo affare peloso che girava
per casa e che si stiracchiava con le sue unghie sul divano nella stanza gialla
aveva finito di berselo tutto. Poco male, aveva iniziato ad avere un odore
strano, quel latte, e spesso si era ritrovato a fare giri più lunghi attorno al
tavolo per evitare che il suo stomaco lo vedesse ed inorridisse, facendolo
gattonare di corsa nella stanza verde, quella dove di solito giocava con le
bolle di sapone.
Si appoggiò al
tavolo e scrutò verso il lavandino: sapeva che la sua tazza, quella rotonda con
i soldatini blu, era lì dentro, glielo aveva detto
Doveva trovare una
soluzione.
Vide allora che sul
tavolo giaceva abbandonata la tazza dell’uomo con il pizzetto: il rosso non era
più tanto rosso ed il nero era incrostato un po’ di marrone, ma nel complesso
il manico c’era ancora, non come per la tazza viola della donna con la vestaglia
rosa, che era spezzata a metà, in un angolo del corridoio.
Sapeva anche che
sul tavolo c’erano ancora i cereali ed il latte che da quasi una settimana
mangiava. Perciò, facendo leva sulle braccia, si issò a fatica su uno
sgabellino arancione e da lì, si arrampicò sul sedile della sedia.
Era tutto come
aveva lasciato ieri e, gorgogliando soddisfatto, si arrampicò sul tavolo.
La tazza rossa e
nera non era vuota però.
C’era un liquido
strano, dall’odore pungente ( e vagamente disgustoso ) di colore marrone.
Arricciò il naso e, per evidenziare ancor di più il proprio disgusto, agitò le
braccia, quasi a voler scacciare quell’odore disgustoso.
Non avendo altre
soluzioni, rovesciò il contenuto della tazza giù dal tavolo, apprestandosi poi a rovesciare il latte nella
tazza, sebbene ci fossero ancora tracce di quel liquido disgustoso sul fondo.
Fu in quel momento
che fece il suo ingresso l’uomo nero.
Non era da tanto
tempo che girava per la casa, sebbene lo facesse prevalentemente di notte e,
ogni tanto, la mattina. Non parlava mai e lui dubitava che sotto quella folta
barba ci fosse addirittura una bocca. Portava una giacca grigia, a macchie
rosse, aveva profondi occhi neri e sembrava il cattivo che in ogni cartone
animato rapisce la principessa.
Lo guardò e sentì
le sue manine tremare un po’.
L’uomo lo fissò a
sua volta, sospirò pesantemente. Poggiando la giacca sulla sedia, aggirò il
tavolo e gli tolse la tazza e cartone del latte dalle mie mani.
Dal lavandino
afferrò la sua tazza con i soldatini blu e la riempì di latte e poi dei suoi cereali preferiti,
quelli rotondi al miele. Gliela mise
davanti con dentro un cucchiaino pulito.
Poi gli scompigliò
i capelli. Con un gesto lento, tenero e, forse, un po’ spaventato.
Fece per dire
qualcosa, ma il suo sguardo venne catturato dalla veste rosa un po’ strappata (
una vestaglia ? ) gettata in un angolo della stanza. Si irrigidì e si allontanò
di scatto, quasi si fosse bruciato con qualcosa.
A passi veloci,
raggiunse la porta verso il Mondo Esterno, la aprì e, prima di uscire del
tutto, si voltò a guardarlo.
Gli sembrò quasi
che gli occhi neri fossero diventati più lucidi. Lo sentì mormorare qualcosa,
ma, prima di riuscire a capire che cosa, l’uomo nero se ne era andato.
La casa ricadde nel
silenzio.
Rimase a
contemplare con aria assorta la porta.
Poi il suo stomaco
rumoreggiò impaziente e si ricordò della ciotola di cereali appetitosi che
aveva tra le mani. Sorrise, quel sorriso ancora un po’ sdentato che spesso
faceva ridere la donna con la vestaglia rosa ed il signore con il pizzetto nero.
Chissà dove erano
finiti?
Ma non era il
momento adatto pensare quello.
Anche per quella
mattina ce l’aveva fatta ad arrivare alla stanza arancione, e questo era
l’importante.