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Autore: _Tenshi89_    28/10/2009    0 recensioni
*Postato cap. 47!*
Per tanti anni mi sono detta che quella gente doveva morire. Per tanti anni mi ero giustificata dicendo che qualcuno doveva pur fermarli.
Balle. Tutte balle.
Io ero un’assassina.
Ero la più perfetta delle macchine per uccidere, in fondo. Un predatore micidiale.
Ho sempre avuto la pretesa di giudicare quella gente perché seguiva un folle ideale, ho sempre preteso di dire che loro erano la feccia, che io ero nel giusto. Era giusto per me vederli morire uno per uno, con il terrore marchiato per sempre nei loro occhi.
Se è vero quel che si dice, che l’ultima immagine vista in vita rimane per sempre impressa negli occhi, loro vedranno me per l’eternità.
Li uccisi tutti. Come loro avevano fatto con la mia famiglia; li avevo uccisi perché erano delle persone malvagie, avevano fatto soffrire tante persone innocenti. Avevo messo finalmente fine a quei massacri assurdi.
Erano i cattivi.
Ma io ero forse migliore di loro?

Gli errori si pagano, sempre.
Ma le conseguenze non sono sempre facili da affrontare...
Questa è la storia di Elian.
Una storia di odio, una storia di amore.
Genere: Romantico, Malinconico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: Lemon | Avvertimenti: Spoiler!
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***















Guardai il cielo scuro sempre di più alto sulla mia testa, mentre ci preparavamo ad atterrare in aeroporto. Ero finalmente arrivata in Italia, eppure il viaggio mi era sembrato troppo corto, molto più corto di quello che mi ero immaginata.
Quando le ruote dell’aereo toccarono la pista d’atterraggio, realizzai quello che avevo fatto.
Mi trovavo in Italia, a pochissime ore dalla mia vera destinazione. Mi trovavo davvero in Italia.
Certo, era stato facile farmi venire questa brillante idea negli Stati Uniti, a migliaia di chilometri da li. Adesso che mi trovavo vicina al mio obiettivo, le mie convinzioni presero a vacillare pericolosamente.
Ero pazza. Non c’era nessunissimo dubbio, ero veramente fuori di testa. Forse avrei dovuto riflettere un po’ di più, magari mi sarei dovuta chiedere cosa avrei fatto una volta arrivata.
Già, cosa avrei fatto?
Non lo sapevo. Non avevo davvero idea di quello che avrei fatto.
Sospirai. Di stupidaggini ne avevo fatte tante nella mia vita, una in più non mi avrebbe cambiato la vita.
O forse avrebbe potuto?
Sorrisi tra me e me, mentre mettevo piede a terra, insieme al resto dei passeggeri. Sentivo che dovevo tentare il tutto per tutto, dovevo rimettere ordine nel gigantesco casino che avevo combinato, anche a costo di prendere l’ennesima batosta.
Dopo un po’ mi staccai dal gruppo di viaggiatori, mentre loro si dirigevano verso il nastro rotante alla ricerca dei loro bagagli, io mi diressi spedita verso l’uscita.
Mi ritrovai all’aperto, avvolta dalla fresca e limpida sera. Mi guardai intorno, alla ricerca di qualche mezzo di trasporto, possibilmente veloce e poco appariscente. Notai qualche centinaio di metri più in là l’indicazione per un parcheggio, il parcheggio dell’aeroporto. Mi avviai in quella direzione, sperando di trovare qualcosa che facesse al caso mio.
C’erano davvero molte macchine, per lo più utilitarie. Notai che sul cruscotto di ognuna c’era un bigliettino dell’aeroporto, ognuno con una data, sicuramente la data del rientro dei proprietari delle auto. Bè, se ne fosse mancata qualcuna, credo difficilmente se ne sarebbero accorti, all’aeroporto; oltretutto, il parcheggio sembrava incustodito. Sorrisi, era senza dubbio una serata fortunata.
Cercai tra tutte quelle con le date di rientro meno prossime, e tra queste scelsi un’auto sportiva, scura e dall’aspetto aggressivo, con una cilindrata e un motore che mi avrebbero sicuramente permesso di spostarmi abbastanza velocemente. L’aprii senza sforzo, salendo sul sedile anteriore e mettendola in moto, e dal rombo che fece capii di aver fatto la scelta giusta. Certo, non era sicuramente al livello della mia Audi bianco perla, ma per il momento mi sarei dovuta accontentare.
Uscii dal parcheggio a tutta velocità, più tardi, poi, avrei pensato a come far recapitare la macchina al legittimo proprietario, quando non mi fosse servita più. Avevo fretta di lasciarmi alle spalle il grande aeroporto, le luci, la folla di gente, quindi mi diressi spedita verso l’autostrada.
Riuscivo ad orientarmi abbastanza bene nel posto, nonostante fosse notevolmente cambiato dall’ultima volta che vi ero stata, e non ebbi grandi difficoltà ad imboccare l’autostrada.
Ci misi molto meno tempo del previsto, l’autostrada era deserta e potei viaggiare senza problemi, fino a quando non lessi su un cartello “uscita FIRENZE – 500 metri”.
Sterzai verso l’uscita dell’autostrada, mentre sentivo la tensione crescere di attimo in attimo. Volterra era molto più vicina di quanto mi fossi aspettata, e io non avevo ancora la più pallida idea di quello che avrei fatto una volta arrivata. Adesso vedevo la campagna toscana scivolare veloce dai finestrini dell’auto, e seppi con certezza che non mancava molto.
Riuscii a scorgere, da lontano, la spessa cinta muraria che circondava la città, appollaiata al di sopra di una collinetta, e l’unico accesso alla città, una strada stretta che sotto la luce notturna assomigliava in modo impressionante ad un serpente, sinuoso e sull’attenti, teso verso la sua preda.
Chissà se sapevano del mio arrivo. I Volturi non avevano nessuno come Alice al loro servizio, ma conoscendo quello di cui erano capaci era anche possibile che avessero saputo del mio arrivo. Dentro di me, speravo ardentemente di essere ancora in tempo per poter contare sull’effetto sorpresa.
Mai si sarebbe aspettato di vedermi tornare a Volterra. Mai si aspetterebbe di vedermi attraversare la piccola piazza della città, diretta verso la sua dimora, mai, nemmeno con la più fervida delle immaginazioni.
Attraversai l’ingresso vuoto e silenzioso della città, e da quel momento seppi che non sarei più potuta tornare indietro.
Abbandonai la macchina a qualche centinaio di metri di distanza dal Palazzo dei Priori, mentre nella mia testa, come se improvvisamente si fosse diradata una fittissima nebbia, si delineavano i contorni di un’idea strana, pazza, folle, che però mi diede la carica per arrivare fino all’ingresso del cunicolo che portava dai Volturi. Giunta alla fine dello stretto vicolo sul retro del Palazzo, spostai la grata del pavimento, e scivolai nel tombino. Camminavo silenziosa lungo il buio e accidentato corridoio, cercando di fare il meno rumore possibile. Non volevo che si accorgessero della mia presenza, anche se dubitavo che non se ne fossero già accorti.
Quasi non mi sorprese non incontrare nessuno di guardia, alla fine del corridoio, nei pressi della grande grata che dava accesso al palazzo sotterraneo. In fondo, chi avrebbe mai osato entrare di soppiatto nella dimora dei Volturi?
La grata era aperta, quindi non ebbi difficoltà ad entrare, e la cosa mi insospettì non poco. Poi, però, mi ritrovai davanti un grande salone chiaro, all’altro capo del quale si trovava una bassa e massiccia porta di legno, e capii perché. In fondo, era notte fonda, la gente comune a quell’ora dormiva, mentre i vampiri possono muoversi indisturbati in giro per la città, magari a caccia. Nonostante questa logica deduzione, però, iniziai a sentirmi meno tranquilla. Avrei preferito incontrare un manipolo di guardie inferocite, piuttosto che il nulla assoluto. Era piuttosto strano. Era stato troppo facile.
Ma quando attraversai la bassa porta di legno, vidi una figura alta e massiccia, in piedi accanto ad un ascensore. L’avevo già incontrato in passato, si chiamava Felix, e nonostante gli anonimi abiti civili che indossava, una semplice camicia e un paio di pantaloni scuri, non potei non riconoscerlo come una delle guardie dei Volturi. Dalla sua espressione, sembrava mi stesse aspettando.
«Ben arrivata, signorina», mi disse, ironico, mentre mi avvicinavo cauta al punto in cui si trovava. «Ti stavo aspettando».
«Ma davvero?», gli chiesi, in tono sarcastico, senza fingere cortesia.
Lui scosse la testa. «Non hai fatto molto per nasconderti, quando sei arrivata in città», disse, con un sorrisetto. «Era logico che ci accorgessimo della tua presenza».
Mi fermai a meno di due metri da lui, che era immobile, con la schiena appoggiata al muro, le mani in tasca, lo sguardo fisso su di me. «Cosa vuoi?», mi chiese alla fine, mettendo da parte il sorrisetto ironico e diventando improvvisamente serio.
«Ho bisogno di incontrare una persona», gli dissi, avanzando di un passo nella sua direzione.
Lui piegò la testa a un lato, sempre guardandomi serio. «Ah, si? E chi dovresti incontrare?».
Gli feci un mezzo sorrisetto. «Devo vedere Aro», gli dissi, tranquilla. «E ho bisogno di vederlo subito».



***




  
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