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Autore: Nenredhel    30/10/2009    2 recensioni
"Hai mai fatto un sogno tanto realistico da sembrarti vero? E se da quel sogno poi non dovessi più svegliarti? Come potresti distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è?" Prendo in prestito queste parole di Matriz perchè calzano veramente a pennello... è la mia seconda Fic... vi prego recensitemi, ho bisogno dei vostri pareri!
Genere: Sovrannaturale, Mistero, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Buongiorno Lettore. Mi chiamo... No questo non ha alcuna importanza.

Ecco, poche parole e già si palesa la mia inettitudine.

Ciò che è importante dire è che non sono uno scrittore, né un artista, né nulla di simile, quindi spero vorrai perdonare se la mia prosa sarà goffa ed impacciata.

Sono solo un uomo di mezza età, nulla di più e nulla di meno, che ritiene indispensabile narrarti una storia.

La storia che voglio raccontarti è quella di Leonardo Pazzi, un ragazzo di 26 anni che vide la realtà.

 

Era notte, e lui era convinto di essere nel suo letto, quando aprì gli occhi.

Il buio era denso, e nero come inchiostro. Dapprima non riuscì a scorgere nulla, ma poteva sentire.

Sentiva qualcosa di troppo freddo e duro, sotto di sé, perché potesse essere il suo letto.

Sentiva di essere semiseduto, e non sdraiato, con la schiena poggiata a qualcosa di ruvido e umido.

Sentiva un dolore lancinante all’altezza delle scapole.

Sentiva qualcosa opprimere i suoi polsi fino a farli dolere.

Sentiva gelo, oscurità, disperazione e la presenza di molte persone.

Capì di avere una benda sugli occhi e, istintivamente, sollevò una mano per toglierla, ma le catene tintinnarono, impedendo il movimento e provocando nuova sofferenza al polso.

Un liquido denso e caldo gli scivolò sul braccio.

Solo a quel punto si accorse dello straordinario puzzo che impregnava quel posto. Si stupì di non averlo percepito prima.

C’era qualcosa di tremendamente assurdo in quello che gli stava accadendo, era ovvio, eppure non sperimentava alcun tipo di agitazione, come fosse tutto consuetudine.

Strattonò di nuovo le catene e quelle tornarono a lacerargli la carne. Mandò un gemito e tornò immobile.

Ma dove diavolo era? E chi l’aveva portato lì?

-Aiuto!- provò a chiamare senza troppa convinzione, quindi iniziò a tastare intorno a sé, muovendosi con cautela per non farsi nuovamente del male.

Si bloccò un istante quando gli parve di udire delle voci che rispondevano...ma probabilmente era solo l’eco.

I polpastrelli, intanto, sfregavano sul pavimento irregolare. Sembrava fatto di grossi massi squadrati e accostati uno all’altro, incastrati. Certo una soluzione decisamente spartana.

Leonardo gemette di frustrazione. Voleva levarsi quella maledetta benda e vedere dov’era. Iniziò a sfregare la nuca contro il muro, cercando di sfilare a quel modo il fazzoletto che gli copriva gli occhi, ma quell’operazione gli provocava dei terribili dolori alle scapole.

Perseverò per qualche minuto, quindi si accasciò nuovamente, stremato. Poggiò la testa al muro nella posizione più comoda che gli riusciva di assumere e, in pochi secondi, scivolò nuovamente in un torpore che somigliava più alla morte che al sonno.

 

Quando riaprì gli occhi una luce chiara entrava dalla finestra accanto al letto, nessuna benda gli ostruiva la vista, nessuna catena gli lacerava le carni, e l’unica persona vicino a lui, che emanava un buon profumo di gelsomino, era Sabrina.

Leonardo si massaggiò gli occhi, osservando poi la splendida ragazza assopita accanto a lui, e pensando con un brivido al sogno terribilmente realistico fatto quella notte. Tremò.

In quel momento la ragazza si destò, sorridendogli assonnata. Si allungò verso di lui, lo baciò teneramente, quindi si alzò dal letto iniziando a togliersi il pigiama per poi andare a lavarsi e vestirsi in bagno.

Leonardo fissò incredulo la schiena di Sabrina, e rimase, poi, imbambolato a guardare la porta chiusa del bagno, che l’aveva nascosta alla sua vista.

Non era possibile.

Sicuramente si era ingannato.

Era solo suggestionato dal sogno di quella notte... certo, non c’era altra spiegazione!

E cosa avrebbero dovuto essere, altrimenti, quei moncherini sanguinolenti che spuntavano dalle scapole della ragazza?

Ma lui sapeva perfettamente cos’erano, anche se nel suo sogno non aveva potuto vedere nulla di simile.

Non appena il bagno fu di nuovo libero, il ragazzo si alzò e andò a tuffare la testa sotto un getto di acqua gelida.

Non voleva più pensare a quel sogno assurdo.

 

Era di nuovo lì. Di nuovo legato, di nuovo seduto su di un pavimento gelido e umido, di nuovo immerso in quel terribile tanfo, ma la sua benda era un po’ scostata, e gli pareva di poter muovere un po’ più liberamente le mani.

Andò subito a tastarsi la schiena, e quando trovò i mozziconi di osso, imbrattati di sangue e piume, che si aspettava, sussultò per il dolore.

Respirò profondamente per calmarsi. Aveva, o meglio aveva avuto, le ali. E allora?

Lo sapeva già da prima di poter controllare di persona, e allora perché tutta questa agitazione, ora? Perché questa disperazione che gli attanagliava il petto?

Ad ogni sospiro gli pareva che la puzza dovesse soffocarlo. Era terribile! Ma da dove veniva?

Si impose di cercare di guardarsi intorno, sfruttando lo spiraglio che gli lasciava la benda. Il buio era troppo fitto per vedere veramente qualcosa, ma scorse vari corpi sdraiati qui e là, come buttati alla rinfusa uno sull’altro, e intuì che la stanza in cui si trovavano era immensa.

Avrebbe voluto vedere di più, capire di più, ma si sentiva soffocare, come se la stessa aria che respirava fosse avvelenata da quel tanfo letale. Ansimava, sentiva che non sarebbe stato cosciente ancora a lungo...

 

Leonardo Pazzi, seduto ad uno dei tavolini del bar che gestiva insieme a sua sorella e a Sabrina, rifletteva.

Pensava al suo strano sogno e si chiedeva se fosse realmente un sogno. Era così terribilmente reale...

Gli pareva più di essere riuscito a sbirciare in un posto di solito precluso a quelli della sua razza. Un po’ come poter dare un’occhiata oltre la muraglia ornata di cocci aguzzi di bottiglia che costeggia la nostra vita.

Non era da lui fare quelle considerazioni.

Sospirando, si levò dalla sedia, prese il cappotto e uscì nell’atmosfera frizzante della primavera appena arrivata. Voleva fare due passi e schiarirsi le idee, un po’ di aria fresca gli avrebbe sicuramente giovato.

Aria fresca. Aria pura. Ma quell’aria non aveva assolutamente nulla di puro.

Quel puzzo, quel terribile lezzo, era lì, intorno a lui e gli si appiccicava alla pelle in modo disgustoso, lo aggrediva senza ritegno.

Il ragazzo si guardò ossessivamente intono, con una certa dose di terrore che gli palpitava nel petto.

Si aspettava di vedere di nuovo la stanza buia, i corpi ammassati come immondizia uno sull’altro... ma c’era solo l’odore.

Doveva capire da dove veniva e sfuggirne! Ansimava, si sentiva impazzire.

Poggiò la schiena al muro di una casa, la gente gli passava davanti, indifferente, come fosse invisibile.

Leonardo osservava quelle persone che procedevano intente sui sentieri delle loro vite e gli parve, improvvisamente, di vederli chiaramente per la prima volta: camminavano senza andare in nessun luogo, semplicemente rimbalzando in modo ridicolo contro le pareti di quell’orrendo carcere, e il loro correre, come quello di galline starnazzanti in un pollaio, era così perdutamente vano.

Il ragazzo ansimava ancora, e si lasciò scivolare lungo il muro fino a trovarsi seduto a terra. Iniziava a capire, e a respirare meglio.

I suoi occhi non guardavano più le gambe che si muovevano veloci lì davanti, inseguivano altri pensieri, ma infine si posarono di fronte a lui.

Un corpo, abbandonato lungo il ciglio della strada, proprio a pochi centimetri dai suoi piedi. Un corpo spezzato, schiacciato, peloso ed insanguinato. Dimenticato.

Morte.

La morte di ogni speranza, libertà.

Anzi oblio, dimenticanza.

Leonardo abbandonò la testa contro il muro e inspirò profondamente l’aria che aveva ripreso il consueto e delizioso odore di smog. Una lacrima scivolava silenziosa sulla guancia destra.

Perché? Perché gli stava accadendo tutto ciò?

Iniziava a capire le regole del gioco, ma chi lo stava costringendo a vivere quelle cose?

Ma soprattutto cosa? Cosa gli stava accadendo? Cos’era tutto quello?!

 

Eccolo, di nuovo. Sapeva, ormai, che sarebbe tornato, era solo questione di tempo.

La benda era ormai scostata quasi completamente dai suoi occhi. Il tanfo era ancora presente, ma non più penetrante come prima. Si stava abituando a quello come a tutto il resto, anzi, a dire la verità, gli sembrava di esserci sempre stata abituato... pensava.

Poteva vedere piuttosto bene intorno sé. Il buio non era più un problema o forse non sembrava più così fitto, ora che scorgeva una finestrella, lassù in alto.

Poteva vedere chiaramente i corpi intorno a lui. Erano nudi, come lui.

Era ovvio, nessun modo per nascondersi...

Con stupore, scoprì di riuscire a ragionare lucidamente anche da questa parte del muro, nonostante la paura.

Sì, perché sentiva una potente stretta al petto, un paura istintiva, una terribile sensazione di ineluttabilità.

Sollevò le mani e si guardò i polsi segnati dalle pesanti catene, quindi osservò la propria pelle sporca, e poi quella dei compagni di sventura.

Molti sembravano dormire, ma alcuni erano svegli, e urlavano, altri singhiozzavano sommessamente, altri ancora si arrampicavano sui corpi gettati per terra per protendere le braccia attraverso le finestrelle. Tutti, però, indossavano la benda, oppure tenevano gli occhi ben chiusi. Leonardo si sorprese a pensare a questi ultimi come ai Desti, coloro che intuivano.

Quelli alle finestre sembravano molto giovani, e Leonardo si guardò, ad un tratto, attentamente intorno.

C’era gente di ogni età, ma nessun bambino. Ringraziò Dio silenziosamente.

Il ragazzo ebbe la sgradevole sensazione di essere sul punto di comprendere tutto, ma di non riuscire veramente ad afferrare la verità, come cercando quella parola che conosci bene, ma che continua a sfuggirti, restandoti in bilico sulla punta della lingua, solo pochi millimetri fuori dalla portata della tua mente.

D’un tratto, vide un’ala bianca ed un corpicino acerbo passare a pochi centimetri da una delle finestre, sfiorando le dita di chi si protendeva. Sentì quei giovani sospirare e gemere per le ferite fresche alle scapole e i solchi che stavano solo iniziando a scavarsi nei polsi. Il sangue era ancora fresco e colava lentamente sulle candide schiene di adolescenti.

Leonardo nascose il viso nelle mani, afferrandosi i corti capelli coperti di sporcizia, come fossero un’ancora.

Chi? Chi gli stava facendo quello? No, non era solo un sogno! Chi?! CHI ERA?!

Rabbia. Disperazione.

 

Di nuovo a casa, di nuovo alla vita di tutti i giorni, ma qualcosa era cambiato, Leonardo non poteva, non riusciva ad ignorarlo. Aveva una gran paura che tutto quello che gli stava accadendo non fosse altro che una strana ed assurda forma di pazzia, tuttavia, qualcosa dentro di lui gli insinuava nella mente il terribile dubbio: e se la pazzia non fosse sempre stata altro che verità?

Ogni giorno di più, ogni volta che tornava in quella tremenda prigione, e poi si svegliava nuovamente nella propria camera, capiva che quel muro oltre a cui guardava ogni notte si stava assottigliando, tanto da apparire niente più di un velo trasparente.

Lo vedeva, con i suoi occhi, da sveglio: vedeva le catene, vedeva le ali spezzate, vedeva la sporcizia, le bende, il sangue, sentiva le urla, la puzza. Ogni giorno avrebbe voluto strapparsi gli occhi dalle orbite piuttosto che continuare a vedere tutto quello. E intanto cercava, tentava disperatamente di capire chi gli stava mostrando quelle cose, e soprattutto chi le stava facendo subire a tutti i suoi simili. E cercava, tentava disperatamente di capire dove finisse il sogno e iniziasse la realtà, dove fosse il sogno e dove la realtà.

Erano schiavi, inconsapevoli, rinchiusi in una prigione che non aveva sbarre, né odore, per tutti tranne che per lui.

Stava diventando un’ossessione, una malattia, trovare il modo per liberarsi, per togliere le catene che vedeva sui suoi polsi, e per far sapere, per far comprendere all’umanità che la loro era una libertà fatta di catene. Eppure capiva che se avesse semplicemente iniziato a raccontare a tutti quello che vedeva l’avrebbero solamente rinchiuso, pazzo fra i pazzi.

No, dovevo doveva trovare l’artefice di tutto quel male, solo così avrebbe potuto avere qualche possibilità di reclamare la libertà.

 

Cadeva. L’aria sibilava nelle sue orecchie, anche se capiva che era solo una creazione della sua mente. Cadeva in un tunnel nero che sembrava un pozzo, ma si rendeva conto che alla fine non ci sarebbe stata acqua, o fogne, ma solo quella maledetta prigione. E questa volta non avrebbe più fatto ritorno: qualcuno lo aveva chiuso lì e aveva buttato via la chiave.

Quando arrivò, scoprì di non avere più benda, e che le pesanti catene che gli pendevano dai polsi non lo legavano più al suo posto: erano spezzate. Poteva girare liberamente, tanto non c’era più possibilità di fuggire.

Vagabondò per anni, che gli parvero secondi. In quel luogo il tempo perdeva di significato.

Trovò sua sorella, trovò Sabrina, trovò molta altra gente che conosceva. Passò lunghe ore, o forse giorni, parlando sommessamente a quella o all’altra persona, desiderando egoisticamente che si svegliassero, sperando con tutto il cuore che rimanessero per sempre all’oscuro della nostra disperata situazione.

All’inizio cercava ancora un responsabile, desiderava la libertà, e per questo voleva trovare il colpevole ed ucciderlo, o forse rinchiuderlo lui stesso.

Poi anche questo pensiero lo abbandonò. Sedeva, urlava e piangeva, come gli altri Desti che sentiva. Non c’era più sonno né sogno.

E proprio quando perfino l’idea di trovare il colpevole non lo sfiorava più, finalmente lo trovò.

Era un giorno come un altro, anzi, meglio dire un momento come un altro, perché anche giorno e notte avevano poco significato in quel posto.

Vide un giovane, poco più che un bambino. Le sue ali erano intatte, grandi e magnifiche. Non aveva mai notato prima la porta su cui se ne stava in piedi, ma la cosa non lo stupiva. Era fermo, guardava noi. Poi, lentamente, avanzò in mezzo a noi, quindi si accucciò, e raccolse qualcosa da terra. Ci fu un rumore sferragliante, quindi vide i due esili polsi coperti dai pesanti bracciali delle catene che si sollevavano con fatica dietro la nuca, ad allacciare una benda logora e nera. Prese, poi, tra le mani, quello che pareva un maglio, e si percosse ripetutamente la schiena, finché il sangue non iniziò a scorrere da ciò che rimaneva delle sue grandi e magnifiche ali. Due persone, un uomo ed una donna, lo aiutavano amorevolmente. Infine, il bambino sedette, poggiò la testa al muro, e scivolò nel sogno.

Chiusi gli occhi, e piansi silenziosamente. Piansi per ore che parvero giorni, o forse per giorni che parvero ore ma infine... Fu allora che, sollevando le palpebre sugli occhi arrossati, trovai il mio sguardo stanco a posarsi nuovamente, finalmente, sul bel volto pulito della mia Sabrina, illuminato dalla luce bianca ed accecante di un ospedale. Sorrisi fra le lacrime.

Finalmente, potevo tornare a sognare.

   
 
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