Parte quarta, Bussare Sul Legno
Le
lunghezze che coloro che si tagliavano dovevano usare per nascondere il loro
segreto erano pazze. Sono sicura che amassero
particolarmente il periodo invernale, dove le maniche lunghe e le giacche e le
felpe potevano essere indossate comodamente. E nei giorni con cose tipo
Educazione Fisica ed allenamenti, Troy portava dei
polsini, ed io dei braccialetti. Non andavamo da nessuna parte senza delle
bende nuove, e ogni tanto facevamo affidamento l’una sull’altro per la riserva.
Un accordo tacito si era formato tra di noi. Non
parlarne, e offri una mano d’aiuto quando serve.
Era
arrivato alla mia attenzione che i pensieri di suicidio e il desiderio di
morire erano due cose altamente diverse. La voglia di
morire era flessibile –finchè il risultato era lo
stesso, non ti importava la sua causa. Solo finchè
eri morto. Ma la mia tomba si stava
scavando più velocemente di quanto avessi mai immaginato fosse possibile. Una
pigra sera, premetti il coltello nel mio polso un po’ più forte di quanto avrei
dovuto. Uscì più sangue, e fui grata mentre correvo in
bagno che mia madre non fosse in casa. Mentre facevo scorrere l’acqua sul mio
polso, iniziai a tremare. “Suicidio.” sussurrai.
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Nei primi
giorni di gennaio, mio padre mi chiamò. “Ehi, Ella,”
disse con voce felice “Come sta la mia ragazza preferita?”
Auto-distruttiva,
pensai nervosamente mentre giravo un ciondolo sul
braccialetto che Troy mi aveva dato per Natale. Mi
ricordava di lui ogni giorno, benchè non ci vedevamo
molto ora che la scuola era ricominciata. Una volta ogni tanto lui passava e
facevamo gli stupidi, ma nient’altro davvero. Lo rimpiangevo parecchio.
“Bene,
papà,” replicai piano “Come stai?”
Questa
vacuità della conversazione non migliorò molto. Non lo faceva mai, se posso
essere totalmente onesta. Ma sapevo che mio padre ci stava provando… provando a
tenersi in contatto, anche se era dall’altro lato della Terra. Voleva ancora
starmi vicino, nonostante la distanza che giaceva fisicamente tra di noi. Ero anche grata di ciò.
“Senti,
tesoro, devo andare. Ti chiamo nel prossimo paio di settimane, okay?” domandò,
ed io annuii mentre una coraggiosa lacrima rotolava
lungo la mia guancia. All’improvviso ebbi l’impulso di confessare il mio
segreto a mio padre. Ora che Troy ne era una parte,
non potevo affidarmi a lui per un rimedio psicologico. Noi eravamo due persone,
intrappolati in un mondo sanguinante che nessuno poteva capire per paura di
esserci dentro. Avevo bisogno di uscirne.
Quando mio
padre riagganciò, io percepii l’aria morta ed presi fiato.
“Papà, io mi taglio.” esclamai blandamente. Corrugai
un sopracciglio e ricominciai, un’avversione del mondo in cui suonavo che
covava dentro di me. “Papà… mi taglio i polsi. Lo faccio un sacco. E anche Troy lo fa. Ed è a causa mia. Odio questo fatto. Tu non lo
odi? Voglio dire, davvero, vorrei che si fermasse. Ma questo mi rende
un’ipocrita, giusto? Vorrei solo che capisse perché lo faccio. Lui è l’Hotshot del basket, lui ha ogni ragazza al suo volere,
eppure ha scelto me, ed io finisco
per incasinarlo. Dov’è la giustizia in tutto questo?”
Certo, non
ci fu risposta. Ma solo sapere che lui era lontano una telefonata mi diede un
po’ di conforto. Per la fine del mese, la mia vita sembrava iniziare a
riprendere il suo equilibrio naturale. Cioè, finchè
non iniziai a perdere qualcosa che pensavo non si sarebbe mai
potuto perdere: il mio cuore.
Crescendo,
non avevo l’idea di che cosa fosse davvero la gelosia.
Ovviamente, invidiavo mio padre per la sua libertà e le ragazze a scuola per le
loro famiglie stabili, ma il risentimento non era mai diventato il vero impulso
delle mie emozioni. Iniziò con una particolare scena dopo la scuola. In qualche
modo, Troy evitò l’allenamento di basket e venne a
casa mia. Ci allontanammo dal letto, e il pubblico –persone
nel cielo a cui piaceva guardarci contorcerci- osservò lui sedersi sul
pavimento mentre io rimanevo alla mia scrivania. Lui si stava togliendo una
crosta sul braccio. “Perché lo fai ancora?” domandai tagliente, schiaffandomi
una mano sulla bocca non appena le parole lasciarono le mie labbra. Lui mi
lanciò un’occhiata.
“Ci siamo
già passati,” rispose piatto. I nostri occhi si
incontrarono e lo implorai silenziosamente di smetterla. “Gabriella, non so
perché sei così tesa riguardo al tagliarsi. Non è che
tu non lo faccia.”
“Ma io sto
cercando di fermarmi,” replicai, tentando di suonare intensa
“Sai che sto facendo uno sforzo, Troy. E non è che io
sia una quantità di talento tale da essere una grossa perdita una volta che
sono morta.” Le sue sopracciglia si corrugarono e Troy si alzò in piedi, stringendo il bordo della scrivania.
Sapevo che avevo colpito un nervo.
“Smettila
di dirlo,” sibilò, la rabbia che bolliva sul suo viso
“Smettila di dire che non vali la pena e smettila di dire che non è rimasto
niente nella tua vita, bla, bla,
bla, tutte quelle stronzate.
Perché sai cosa, Gabriella? Ho provato di tutto per farti capire che sono qui.
Io ne valgo la pena, giusto? Lo pensavo, almeno. Pensavo che fossi un buon
compenso per tutta la roba che dobbiamo sopportare.”
La sua voce tremò. “Non capisci? Il mio tagliarmi è nato così che le tue
abitudini scomparissero. È un sacrificio. Perché ti
amo! Gabriella, cazzo, io ti amo. Ma cosa significa questo per te? Tutta quella merda che fa andare fuori di testa i miei genitori e fa
andare fuori di testa tua madre… ha qualche vero effetto su di te?”
Prima che
potessi rispondere, benché la mia bocca fosse di nuovo
asciutta il che rendeva difficile rispondere, lui raccolse la sua borsa
e si precipitò fuori dalla stanza. Io rimasi seduta, il braccio premuto contro
il bordo della scrivania, gli occhi fissati sulla porta. “Bel lavoro,” sospirai tra me, con la gola che gracchiava
dolorosamente. Non sapevo che altro dire. “Troy, per
favore, torna indietro. Torna indietro.”
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Ci fu una
sorpresa riguardo al modo in cui reagii alla litigata. Certo, ci eravamo
scambiati i Ti amo e c’erano state varie, ahem,
scappatelle nella mia camera, eppure non avevo mai pensato che saremmo finiti
insieme. Lui era diretto all’NBA, mentre io ancora non avevo idea di che fare
della mia vita. Lui riusciva con successo ad evitarmi a scuola, e io per
fortuna riuscivo ad essere calma ogni volta che ero
con gli altri. Questo periodo di serenità si fermò presto
quando Taylor mi disse che Troy
aveva un appuntamento per San Valentino. Mi sentii come un cartone, il cuore
che affondava alla fine dello stomaco e che si rompeva a metà.
“Mi
dispiace tanto…” esclamò comprensiva durante la lezione di biologia
quando notò il ripetuto ‘Vaffanculo Troy Bolton’ scarabocchiato su tutto il mio quaderno. Mi prese
la penna e le mise il tappo, lasciandola cadere in uno dei nostri zaini tra le
nostre sedie. Io fissai le mie scritte simili a dei graffiti e feci una
smorfia. Non importava quante volte scrivessi quella
frase, non mi sentivo per niente meglio.
“Sarebbe
carino morire.” borbottai con rabbia. Taylor ripiegò la mia mano così che formasse
un pugno e battè le mie nocche contro il banco. La
guardai alzando un sopracciglio.
“Bussare
sul legno,” spiegò “Tiene lontano gli spiriti.”
Non le credetti.
Fu allora
che realizzai che i pensieri di suicidio e il
desiderio di morire erano molto diversi. Io non mi consideravo suicida. Volevo
solo morire. Andai a casa a piedi quel pomeriggio, declinando ogni passaggio
che mi venisse offerto. Si creò un ritmo
mentre i miei piedi marciavano lungo il marciapiede, ed io mossi la
testa, con i capelli che ondeggiavano leggermente mentre ritornavo a casa. Mia
mamma aveva lasciato un biglietto sul bancone della cucina, scritto
velocemente… “fuori con Jim. Ci vediamo verso le
undici, G. xo Mamma.” Avevo
letto di meglio.
Per
qualche motivo, la stanza degli ospiti aveva il bagno più carino. Una larga
vasca da bagno ricoperta di mattonelle giaceva giusto nel centro, e i lavandini
erano di marmo e argento o qualcosa del genere. Mi appoggiai alla vasca e aprii
l’acqua calda, osservando il vapore salire mentre
iniziava a riempirsi. Il grande specchio a grandezza naturale alla mia sinistra
raccontò una storia mentre io mi toglievo ogni
articolo del mio abbigliamento. C’era una volta una ragazza, fragile e debole e
sfortunata. Lei tagliava il suo corpo molto spesso; alla lunga, era stato
ribattezzato auto-mutilazione. Le ne rideva. Non era niente del genere. Solo
qualcosa per passarsi il tempo.
La ragazza
era carina, lei lo sapeva, ma non aveva i mezzi per riempire gli spazi vuoti
dove pensava che cose come compassione e
senso comune sarebbero dovuti andare.
Il suo corpo nudo era curvo e sembrava una vecchia foto, imbellita in seppia; spesso
era graziato dalla presenza di un altro corpo. Lei sentiva la mancanza del
calore di lui, molto intensamente. Il modo in cui le labbra di lui baciavano
ogni parte di pelle che potessero raggiungere. Lei scorse l’unica parte
mutilata della sua figura… i polsi. I bendaggi erano stati avvolti quella
mattina, e lei sussultò mentre li toglieva. Le ferite
non erano guarite. Ma non importava.
Lei chiuse
il rubinetto, e prese il coltello. L’acqua stava fumando. Lei poteva sentire il
calore intrappolare il suo corpo mentre scivolava
sempre più sotto la superficie, fino a che solo le punte dei suoi capelli
rompevano l’altrimenti calma acqua.
L’elogio
sarebbe stato fantastico. Ad una ragazza che una volta amava vita e musica e un
ragazzo. Ad una ragazza che una volta pensava che i decathlon fossero
fantastici e le partite di basket avessero un valore. Ad una ragazza che aveva
visto giorni migliori. “Questo è per lei.” sussurrai,
e premetti la lama nel mio polso. Il sangue fuoriuscì dal taglio, proprio mentre un bussare alla porta riempì la stanza
silenziosa.
“Gabriella?”
mia madre. O almeno, era lei. “Gabriella,
che stai facendo?”
Poi arrivò
l’altro polso. L’acqua presto fu macchiata di rosso corallo. Non sapevo com’era
sentirsi morti, ma in quel momento mi sentivo piuttosto in pace. Magari
rilassata, nei pochi momenti in cui potevo provare piacere. E, secondo la
leggenda che la vita ti scorre davanti agli occhi prima
che stia per finire, vidi Troy.