Chiedo umilmente scusa per l’enorme quantità di tempo
che ci ho messo per aggiornare ma, purtroppo, tra scuola e lavoro è
stato un tantino impossibile scrivere. Inoltre ci tenevo particolarmente a
questo capitolo che farà un po’ tra introduzione a fatti e persone
che entreranno in scena più avanti.
Scusate ancora!!!
E ora:
x Kloe2004: Ciao…scusami, per favore, del enorme ritardo con cui
posto e per averti fatta aspettare tanto. Mi dispiace davvero. Effettivamente,
di storie sulla coppia Pegasus/Isabel, se ne trovano addirittura troppo poche. E io continuo a chiedermi
perché visto che sono una delle coppie più intriganti e complesse
dell’anime/manga. Sarà che non mi
piacciono le cose semplici. Sarà perché Pegasus e Isabel, come
personaggi singoli, stentano a piacere al pubblico. Lui è visto come un
raccomandato, o un cagnolino fedele pronto a scodinzolare e fare tutto
ciò che gli dice Isabel. E lei, forse, non piace proprio per la sua
immagine da principessina viziata che possiede. Tuttavia nel corso della serie
cambia parecchio, anche troppo. Insomma…passiamo da un opposto
all’altro. Prima viziata e capricciosa e poi pronta a pregare e ha dare
la vita per il genere umano senza nemmeno un passaggio di personalità
ben definito. Sembra una folle con problemi di personalità multipla.
Infondo non è difficile capire perché non piaccia, no?! Comunque…ho perso il filo. Avrei voluto postare
prima ma il tempo non ce l’ho avuto. Ma da adesso…ci saranno altre
svolte, e intendo concentrarmi anche sugli altri personaggi di questa storia,
senza ovviamente tralasciare questi due. Grazie del commento. Baci…Ciau.
Grazie a
tutti quelli/e che hanno commentato e anche solo letto.
Grazie di
cuore!
Baci a
tutti/e.
9.
…Passato…
Quattro mesi prima…
C’era un caldo tremendo
quel giorno. Il sole di punta inondava tutto con i suoi raggi bollenti che
bruciavano la pelle. Lei, distesa comodamente nel cortile interno della sua
scuola, si beava tranquillamente di quella stupenda giornata quasi estiva.
Accanto erano buttati malamente dei quaderni e dei fogli.
I suoi lunghissimi capelli di
seta le facevano sudare il collo candido, e il maglione pesante che si era
messa per andare a scuola quella mattina giaceva ormai dimenticato poco
lontano; i jeans a vita bassa lasciavano scoperta la pancia piatta, grazie
anche alle braccia lasciate inermi dietro la testa che le alzavano la
canottiera rossa. Gli occhi chiusi e un’espressione beata contornavano
l’immagine.
Il suono della campanella le
fece apparire una curiosa smorfia sul viso.
Isabel aprì pigramente
gli occhi blu e il sole glieli quasi bruciò. Li
richiuse immediatamente e sospirò pesantemente: di andare in classe
proprio non c’era voglia! E poi, sinceramente parlando, la professoressa
di matematica era talmente rincoglionita che mai più si sarebbe accorta
della sua mancanza. Molto meglio restarsene lì, spaparanzata, cercando
di concludere quella dannata canzone che le era venuta in mente quella notte.
Black Rose!
Certo il titolo era quello.
Di questo era sicura al cento per cento. Ma le parole non legavano con la
melodia che aveva nella mente, anzi. Sembrava quasi che stonassero in maniera
alquanto fastidiosa. E per questo motivo che, da ormai due ore, si trovava
distesa su quel prato, sotto il sole cocente, cercando di trovare le parole
giuste per completare quella che, n’era certa, sarebbe stata una canzone
meravigliosa.
Improvvisamente il cellulare
vibrò nella testa dei jeans facendola sbuffare: chi rompeva?
SI PUÒ SAPERE CHE CAVOLO DI
FINE HAI FATTO??????
JEJE
Isabel inarcò le
sopracciglia. A quanto pareva tutti i suoi piani erano saltati. E Jessica
glielo aveva spiegato in maniera fine e pacata. Si mise seduta a gambe
incrociate e rispose velocemente al messaggio.
STO ARRIVANDO…
ISSY
Non appena il cellulare le confermò
l’invio si alzò, racattà
velocemente la sua roba sparsa sul prato e, con calma, si diresse verso in
grande edificio bianco che corrispondeva al nome di scuola. Non appena mise
piedi in classe la professoressa Watson,
docente d’elite della scuola a
sentire lei, la spettinò con la sola forza dell’ugola.
“ SIGNORINA KIDO! MA LE
SEMBRA L’ORA DI PRESENTARSI IN CLASSE??? E SCOMMETTO CHE, SE
Isabel scosse lievemente la
testa: quell’urlo disumano l’aveva rintontita completamente!
Aspettò pazientemente che la pazza – così la conosceva
tutta la scuola – finisse di sbraitare a destra e a manca e poi, molto
educatamente, s’inventò una scusa qualunque, una di quelle che
usava quando non ce n’era una gia pronta per l’occasione.
Ovviamente la cara professoressa
Watson non volle credere ad una delle sue parole, ma la ragazza, per niente
preoccupata, sorrise sorniona all’insegnante e andò a sedersi,
incurante delle vene che pulsavano pericolosamente sulla tempia della donna.
“ Era
ora che arrivassi. Non sapevo
più che inventarmi per tenerla buona.” Le sussurrò una
ragazza al suo fianco sorridendo furbescamente.
“ Scusa Jeje, ma ho
completamente perso la cognizione del tempo stando fuori.” Disse Isabel
senza preoccuparsi troppo di abbassare la voce.
Jeje ridacchiò
lanciando un’occhiata alla professoressa ora seduta e sudata. “ Le
avrai fatto andare la pressione alle stesse. Poveretta…”
“ Oh, tanto povera non
direi. Al massimo si prende una o due dosi in più di calmanti.
Così la prossima ora dormirà placidamente sulla cattedra e noi
saremo libere di non fare nulla.”
La ragazza al suo fianco rise
nuovamente, stavolta apertamente prima di scuotere la testa e affondare la
testa tra le braccia ora posate sul banco. Isabel riconobbe all’istante
il messaggio e spostò la sua attenzione su qualcosa di più
interessante che, ovviamente, non era la lezione della professoressa. Per un
momento la sua attenzione tornò su Jeje, tranquillamente spaparanzata
sul banco. Ancora non stava dormendo, ma era possibile che questo accadesse
entro breve. I capelli scuri, tagliati in quel caschetto allungato sul davanti,
fungevano perfettamente da tende.
Guardandola l’amica che
le stava accanto
la sua mente volò indietro nel tempo, a 10 anni prima, a quando
s’era trasferita a New York con suo nonno. All’inizio non era stato
affatto facile. Il Giappone le mancava tanto, così come Chasya e tutto
ciò che aveva laggiù. Aveva provato più volte a convincere
suo nonno che non era necessario che andassero in America, soprattutto
perché sapeva che lo stavano facendo per migliore la lingua, ma il
vecchio Duca era stato irremovibile. Tuttavia era bastato il tempo a placare i
problemi e a sanare la ferita che la separazione dalla sua migliore amica aveva
causato. Andando a scuola aveva conosciuto Jeje prima di tutti, e poi piano
piano anche tutti gli altri. All’inizio non aveva ritenuto possibile che
loro, tutti così diversi gli uni dagli altri, potessero trovare un punto
in comune, e invece era accaduto proprio questo.
La musica!
Ecco cosa li aveva uniti.
Quella cosa chiamata musica. Quella passione che, anni addietro, aveva
costruito e poi rinforzato il legame fra lei e Chasya. Tutto, alla musica
doveva proprio tutto. Le doveva la presenza costante, anche se lontana, della
sua migliore amica; le doveva la presenza ormai essenziale di quei pazzi che
erano i suoi amici, i suoi compagni. Quelli con cui aveva formato quella band
fuori dagli schemi della società alla quale lei apparteneva.
Perché la musica che loro facevano era libertà, era gioia,
trasgressione e passione. Un mix esplosivo, certo, ma non ben visto dalle
persone snob e aristocratiche che lei frequentava a causa dell’impero di
suo nonno.
E così si era trovata
divisa. Divisa tra due vite, l’una l’opposto dell’altra.
Da una parte
l’eleganza, la raffinatezza, i soldi, la politica e il commercio. Una
vita fatta di lussi sfrenati, circondata da persone dai nomi altisonanti e dai
corpi ricoperti di diamanti e rubini, oro e argento, zaffiri e smeraldi.
Persone appariscenti grazie ai loro soldi, ma vuote e prime di altro. Fredde proprio come i diamanti di cui tanto si vantavano.
E dall’altra una vita
completamente diversa. Una vita dove non conta il conto in banca,
l’influenza politica e lo sfarzo quasi fastidioso, pieno soltanto di
egoismo e monotonia. Una vita dove la musica regnava sovrana, dove si
può trasgredire, infrangere le regole e lasciarsi alla
spalle una vita che, in fin dei conti, sta bene solo agli adulti, ma che sta
stretta a dei ragazzi. Una vita fatta di cose semplici come la scuola, degli
amici e una passione che non smette mai di bruciare.
E così Isabel finiva
per trasformarsi, come se in lei esistessero due personalità
contrapposte. Aveva imparato a fingere bene in quegli anni, aveva imparato a
sorridere falsamente a tutti coloro che omaggiano di doni solo per avere
favori. Ma quand’era sul palco, con il microfono in mano e le sue canzoni
che rimbombavano nella testa come martelli pneumatici tutto questo scompariva.
E poteva essere libera. Libera di avere 16anni e di essere chi voleva. Libera
di essere semplicemente Isabel.
bïa
Quella sera…
La stanza di Isabel era,
tanto per cambiare, un casino totale! E questo perché, come ogni venerdì
sera, i componenti della band erano lì riuniti per il consueto pigiama
party. Era un’abitudine che avevano preso quasi per caso; una sera Jeje
si era presentata a casa sua tutta elettrizzata: aveva composto un numero
pazzesco con la chitarra elettrica e non vedeva l’ora di farglielo
ascoltare. E una volta che Isabel lo aveva sentito aveva insistito
perché anche gli altri lo potessero ascoltare. Così, quella sera
stessa, li aveva radunati a casa sua e…ecco che tutto era successo. Da
quel giorno ogni venerdì sera erano lì, in camera di Isabel, con
patatine, bibite e quant’altro, a ridere e scherzare.
In quel momento erano tutti e
quattro intenti a prendere in giro Kevin che, come al solito, si era appena
fatto una delle sue magre figure. Non che lui fosse uno “sfigato”, solo un tenero pasticcione dal carattere
forse troppo infiammabile. Con quei suoi capelli neri sempre sparati all’in su per sembrare un duro, e gli occhiali sul
naso che smentivano quella prima impressione. Ah, se solo se li
fosse tolti… Glielo avevano più volte detto che senza sarebbe
stato meglio, ma lui, imperterrito, continuava a metterli fregandosi del
giudizio degli altri. E dire che aveva due occhi verdi ch’erano la fine
del mondo! Di un colore così intenso da non sembrare nemmeno vero. Un
contrasto incredibile con il nero dei suoi capelli. Un bel ragazzo, niente da
dire, ma per Isabel era soltanto il suo tenero, imbranato e irruento
fratellone. Voleva un bene dell’anima a quel ragazzo, tanto che, ormai,
il soprannome fratellone non era poi
tanto raro per lui. Aveva sempre amato la sua dolcezza e la sua gentilezza, con
la quale era in grado di fare da pacere anche nelle risse più violente.
Le sue parole erano in grado di arrivare dovunque e a chiunque. Era questo che
le piaceva di lui. E ne andava fiera, senza sapere che, tempo dopo, avrebbe
incontrato un altro ragazzo come Kevin, un ragazzo che l’avrebbe sempre
aiutata e a cui, un giorno, avrebbe dovuto moltissimo.
“ Kevin
Kevin…” Lo riprese Jeje ancora ridendo. “ A volte mi domando
proprio come fai…”
“ Non
ci vuole poi molto. Basta non
attivare il cervello…e in questo Kevin non ha alcun problema.” Disse James con l’aria da sbruffone che gli
apparteneva da sempre.
“
Nemmeno per te sarebbe un problema, Jamie. Tu, il cervello, nemmeno ce l’hai.” Lo prese in giro
Isabel strizzando l’occhio a Kevin a battendo il cinque a Jeje.
“ Molto
simpatica.” Disse James lanciandole contro un cuscino e fingendosi
offeso. Nessuno ci fece troppo caso. Erano ormai abituati ai battibecchi fra
Isabel e James, battibecchi che nessuno si premurava più di ascoltare.
Erano proprio come cane e gatto quei due! Troppo simili nelle loro idee, ma
anche troppo orgogliosi per ammettere che l’altro avesse ragione.
James, al contrario di Kevin,
aveva la tipica aria da bullo. Ed era anche un’immagine che gli donava
parecchio…se non fosse stato per il cuore grande e il suo animo gentile.
James fingeva sempre di essere il capo,
il duro, ma in realtà non poteva che cedere davanti ad una ragazza in
lacrime, o ad un cagnolino ferito. Con quei suoi capelli castano scuro e la
frangia che ricadeva sugli occhi perennemente ossigenata
fino a diventare bionda, gli occhi chiari di un azzurro pallido aveva una
schiera di ragazze alle spalle. Peccato che usasse questa cosa sempre nella maniera
sbagliata…facendo incavolare Jeje ogni due per tre. Ah, quei due erano
proprio fatti l’uno per l’altro. Peccato che non lo capissero.
Certo erano due testoni tutti
e due. Tanto che Jeje ci aveva messo parecchio per ammettere che James le
piaceva. E anche tanto. E Isabel sapeva perfettamente quali fossero i
sentimenti del ragazzo nei confronti dalla sua amica. Lui stesso glieli aveva
confessato poco tempo prima. Sembrava quasi che l’avessero presa per la
confidente del gruppo!?
Ma nonostante quei piccolo
intrigo amoroso i rapporti della band
erano sempre stati perfetti. Sia sul palco sia nella vita normale. Una
sincronia incredibile, un affiatamento mai visto. Avevano capito fin da subito
che loro quattro erano fatti per stare insieme, per fare qualcosa insieme. E
non si erano mai sbagliati.
Isabel osservò i suoi
tre amici che ridevano spensierati. Si sentiva sempre così bene
quand’era insieme a loro. E sapeva perfettamente che, un giorno, le
sarebbero mancati moltissimo. Perché lei, presto o tardi, se ne sarebbe
dovuta andare. Certo aveva frequentato le elementari, medie e adesso si
apprestava ad iniziare superiori in America, ma suo nonno aveva più
volte espresso il desiderio che l’Università la facesse in
Giappone. Aveva urlato contro di lui come mai aveva fatto: perché
continuava strapparla ai suoi affetti ogni volta che trovava qualcuno a cui
volere bene veramente? Perché continuava a farla soffrire a quel modo?
“ Ragazzi!”
Chiamò i suoi migliori amici con la voce seria che le apparteneva solo
nei casi più gravi, quel tono che tutti odiavano perché portava
sempre notizie poco rassicuranti. “ Io…devo dirvi una
cosa…” Ammise abbassando lo sguardo, sentendosi nuovamente
sopraffatta dalla tristezza.
“ È successo
qualcosa?” Le chiese Jeje preoccupata andandole vicino e poggiandole una
mano sulla spalla.
“ No. O meglio…non ancora.” Ci tenne a
precisare. “ Ma accadrà e io…io non so se potrò
evitarlo…” Sembrava sul punto di piangere. In che era molto raro
per lei.
“ Issy…” La
chiamò Kevin con immensa dolcezza.
“ Non ve l’avevo
detto prima perché pensavo di poterlo impedire ma…ma mio nonno non
ha voluto sentir ragione alcuna.” Prese fiato mentre sentiva l’aria
intorno a se farsi pesante e carica di tensione. “ Io…dovrò
tornare in Giappone.”
CRACK
Le parve si sentirlo
distintamente il suo cuore andare in pezzi. Ed insieme a lui una promessa che
si erano scambiati tanto tempo prima.
“ Noi resteremo insieme per sempre. E
diventeremo famosi insieme. Promesso?”
“ PROMESSO!”
E faceva male perché
in quelle parole ci avevano creduto veramente, nonostante il tempo fosse
passato e loro non avessero più 10 anni. Gia, promesse di bambini. Ma
loro ci avevano creduto veramente. E faceva male pensare che ben presto tutto
sarebbe andato a puttane. Tutto si sarebbe disgregato come polvere.
“ Ma…ne sei
sicura?” Chiese Jeje respirando appena.
“ Purtroppo si.” Ammise lei con il capo ancora chino. “ Sono
riuscita a convincerlo a rimanere qui per le superiori, ma
l’Università dovrò farla in Giappone. Su questo non ha
voluto sentir ragione. Io…” Cercò la forza
di continuare, ma le lacrime le offuscavano la vista e i singhiozzi uccidevano
le parole. “ Mi…mi dispiace tanto. Da.-davvero…”
E Isabel non si trattenne
più. Pianse come una bambina, come poche volte aveva fatto nella sua
vita. Aveva imparato fin dall’inizio che la vita non è affatto
facile, che è piena di segreti, bugie e quant’altro. Ma quello a
cui non si era mai abituata era il dolore. A quello proprio non ci riusciva.
Non seppe quando, ma sentii
le braccia di James stringerla forte a se. Poche volte lui si era lasciato
andare così. E quando lo faceva voleva dire che anche lui stesso stava
male. Tanto male. E quello era uno di quei momenti.
Isabel pianse sulla sua
spalla. La mano di Jeje ancora appoggia sulla sua e quella di Kevin che si
chiudeva sulla sua mano e la stringeva per infonderle forza e coraggio.
“ Non
preoccuparti.” Disse James senza lasciarla andare. “ Ce la faremo
comunque. Vedrai.”
Due mesi dopo…
Fissava la sua immagine
riflessa nel grande specchio del camerino e si chiedeva se avesse optato per
l’abbigliamento giusto. Lei, solitamente, era più un tipo da jeans
e scarpe da ginnastica che da minigonne e tacchi. Tuttavia quella sera era
speciale. Quello che si apprestavano a fare era l’ultimo concerto della stagione,
e se tutto andava bene c’era la possibilità che un noto
discografico li notasse. Era talmente eccitata dall’idea che quasi non
riusciva a stare ferma.
“ Ehi, Issy.” La
chiamò Jeje facendo capolino nel camerino. “ Siamo pronti.”
Isabel si voltò a fissarla
brevemente. Stava per iniziare.
Jeje portava un paio di jeans
chiari, una maglia viola lunga fino al ginocchio e senza maniche e un paio di decolté nere tacco 14. Al polso aveva messo la stessa
rosa nera che lei aveva appuntato sui capelli.
Annuì convinta prima
di seguirla dietro le quinte fino a raggiungere il palco. La folla
esultò fragorosamente alzando le braccia e urlando a
squarcia gola. Isabel portò lo sguardo prima su di loro e poi sui suo amici. Kevin aveva optato per un look più
pacato; jeans chiari, camicia bianca sbottonata sul davanti e scarpe da
ginnastica. James, invece, doveva come al solito mostrarsi figo. Jeans neri,
scarpe da ginnastica e una maglia grigia talmente attillata che Isabel si
chiese come facesse a respirarci dentro. Entrambi avevano una rosa nera
appuntata al petto.
“ Buonasera a tutti,
ragazzi!” Esclamò Isabel prendendo il microfono. Altre grida. “ Come avrete sicuramente notato tutti noi quattro portiamo
una rosa nera. E questo perché, questa sera che
– che tra l’altro è anche l’ultima – vi faremo
ascoltare in anteprima la nostra nuova canzone: Black Rose!” Un boato si alzò dal pubblico; era sempre
così quando cantavano qualcosa di nuovo. “ Speriamo che vi
piaccia!” E dopo aver fatto cenno a Jeje la musica scoppiò più
forte che mai.
Prima di incominciare Isabel
lanciò un’ultima occhiata ai suoi amici: Jeje alla chitarra, Kevin
alle tastiere e James con la batteria! Perfetto. Tutto era pronto!
“ SI INIZIA!”
Poteva ancora sentire
l’adrenalina scorrere veloce nel suo corpo. Due ore intere di concerto
l’aveva elettrizzata al massimo tanto che, alle 2 di notte, lei non aveva
proprio sonno. Aveva salutato gli altri poco prima ed ora si trovava in
macchina con suo nonno che, come al solito, era venuto a vederla cantare.
Stava seduto davanti a lei
nella grande limousine e le sorrideva ignaro che, entro pochi minuti, quello
sarebbe stato il suo ultimo sorriso.
Cinque giorno dopo…
C’era puzza di
disinfettante in quel posto, ovunque lei si trovasse.
Aprì piano gli occhi e
un bianco accecante minacciò di bruciarglieli. Troppo chiaro, troppo
bianco…troppo silenzio. E…cos’era successo? Dov’era? E
suo nonno?
Mille domande si affollavano
nella sua mente confusa. Sentiva la testa esploderle quasi mentre, vicino a
lei, un suono regolare e acuto le perforava i timpani. Sembrava quasi… Si, quelle macchina che si mettono ai malati che sono in
coma. Ma cosa c’entrava con
lei?
“ Bambina.” Disse
una voce calma e gentile di donna. “ Come stai? Riesci a sentirmi?” Chiese piano. Solo quando le
poggiò però una mano sul braccio risvegliando in lei la
sensibilità si accorse che stava parlando con lei.
“ Si…”
Sussurrò flebilmente. Purtroppo non riusciva a dire altro. La bocca era
completamente impastata ed era gia un miracolo che fosse riuscita ad aprirla.
“
Bene. Allora chiamò il
medico.” E se ne andò.
Isabel ci mise pochi secondi
a capire che quello in cui si trovava era un letto d’ospedale.
Immediatamente le immagini di…di quando? Non riusciva a ricordarlo? Il
tempo sembrava inesistente ormai. Ma ricorda il fischio, poi il botto…e
poi il buoi totale.
Fu tutto chiaro pochi minuti
dopo quando, con un camice troppo bianco, un medico si presentò nella
sua stanza con un sorriso gentile.
“ Ben svegliata,
Isabel.” Disse sorridendole affabile mentre lei cercava di mettersi a
sedere, fallendo. “ No no. Non si sforzi.”
La rimproverò lui bonario.
“ Cos’è
successo?” Chiese la ragazza tornando distesa.
“ Ha
avuto un incidente ed è rimasta in coma per cinque giorni. Ha due costole rotte, così come il braccio sinistro
e ha avuto una commozione cerebrale. Ma data la sua giovane età confido
che si rimetta al più presto. Non ha riportato danni permanenti e questo
è gia qualcosa.” Mentre parlava Isabel aveva la netta impressione
che la sua voce fluisse veloce alle sue orecchie, ma lei non riuscisse ad
afferrare completamente il discorso.
Poi un lampo. Qualcosa si
accese in lei. Tutto fu chiaro. Ogni scena, ogni emozione, ogni piccolo pezzo
tornò improvvisamente al suo posto portandole una domanda alle labbra.
“ E
mio nonno? Come sta il nonno? E
Mylock?” Chiese allarmata mentre, nel suo
profondo, c’era qualcosa che gia le suggeriva la risposta. Come un
fremito di paura, di terrore. Il presentimento che qualcosa fosse cambiato per
sempre.
“ Il
signor Mylock sta bene. Ha
riportato diverse fratture scomposte e anch’egli una commozione cerebrale
ma non c’è da preoccuparsi. Si rimetterà alla
grande.” Tuttavia quella spiegazione non convinse la ragazza.
Perché il dottore sembrava soppesare la risposta? Cosa c’era di
così grave da non poter essere detto?
“ E mio…mio
nonno…?” Chiese nuovamente lei cercando di controllare la voce
ancora impastata.
L’uomo sospirò
scuotendo la testa. “ Mi dispiace, Isabel. Purtroppo
suo nonno non ce l’ha fatta…”
CRACK
Fine. Qualcosa s’era
spezzato per sempre.
Isabel rimase immobile nella
sua posizione. Non capiva più nulla. Era come se ci fosse un blackout
dentro di lei. Capì di star piangendo solo quando sentì il sapore
salato della lacrime che, imperterrite, scorrevano
lungo le sue guancie ora pallide e salate e le bagnavano le labbra.
Ma oltre a quelle lacrime non
vi furono altre reazioni. Non trovava la forza, dentro di se, di fare altro.
Tutte le sue emozioni erano scomparse. Era rimasto solo il vuoto dentro di lei.
Una voragine che, in quel momento, stava risucchiando quanto di più
bello avesse dentro di lei. I ricordi col nonno…i sentimenti… Ormai
non esisteva più nulla!
bïa
“
Ecco. Ora sai tutto…”
Disse piano Isabel uscendo dal flusso dei ricordi e
tenendo lo sguardo basso.
Il dolore lacerante che
sentiva dentro di se era indescrivibile. Sembrava un fuoco ch arde bruciando
tutto quello che gli capita a tiro.
Pegasus, accanto a lei, aveva
lo sguardo perso nel vuoto. Quello che Isabel gli aveva raccontato era
terribile. Non riusciva nemmeno ad immaginare come si sentisse. Era qualcosa
d’inconcepibile per lui in quel momento. Certo, anche lui e sua sorella
avevano perso entrambi i genitori da piccoli ed erano stati addottati, ma lui
non aveva praticamente assistito alla morte di chi amava così tanto. Lui
non li ricordava nemmeno i suoi genitori. Mentre Isabel…
Alzò gli occhi su di
lei e la scoprì a piangere ancora, come d'altronde aveva fatto per tutto
il racconto. Mai una volta aveva smesso di versar lacrime, quasi stesse
cercando di espellere tutto il dolore che sentiva dentro da sempre, ma che
aveva segretamente trattenuto cercando di essere forte.
Allungò un braccio
verso di lei e la strinse forte al petto. Sentiva il bisogno di stringerla, di
consolarla in qualche modo. Tuttavia sapeva benissimo che il dolore che portava
dentro di se era difficile da lenire. Solo tempo e tanta forza d’animo,
forse, ci sarebbero un giorno riusciti. Ma ora era
ancora presto per dimenticare e lasciar andare. Quello era il tempo di
sopportare, d’imparare a convivere ancora con la parte più
terribile della vita. Solo così sarebbe riuscita, un giorno, a rialzarsi
e ad essere più forte.
Isabel si strinse forte a lui
cercando quel calore di cui, ora più che mai, aveva bisogno. Quella
forza che tanti le avevano invidiato e che ora sembrava essersi dissolta.
Strinse forte la camicia del ragazzo con le piccole mani. Aveva bisogno di
sfogarsi. E piangere era l’unica cosa che il quel momento potesse fare.
E rimasero lì, soli.
Il silenzio faceva da sovrano ai singhiozzi sommessi di Isabel. Le braccia di
Pegasus erano ancora intorno alle sue spalle, pronte a stringerla più
forte se lei ne avesse avuto il bisogno. Ma in realtà, in quel momento,
Isabel aveva solo bisogno della sua presenza.