Eros e Psyche
Il mio nome
è Psiche, la mortale.
Sono figlia minore di un re e di una regina. Oltre a me, i miei buoni
genitori
hanno due figlie dall'aspetto leggiadro e belle come due rose.
Ma per quanto siano graziose la loro bellezza potrà sempre
essere interpretata
con parole mortali.
I forestieri in viaggio potranno descriverla ad altri forestieri lungo
il loro
cammino, che a loro volta racconteranno la loro fama agli abitanti
delle
proprie patrie.
Ma non c’è stato ancora complimento o descrizione
che non siano sembrati smunti
al confronto con la vista della mia bellezza, che dicono -e lo
riconosco con un
po’ di timore quando vedo emergere la mia immagine nello specchio-
talmente radiosa,
talmente delicata e così superiore a qualsiasi lode da
rivaleggiare con
Afrodite, la divina regina dell'amore, al cui passaggio leggero e
invisibile i
fiori e le rose sbocciano in suo onore…
Nessuno andò più ai templi a
rendere omaggio alla legittima dea: non toccarono più gli
altari, non
bruciarono più ghirlande o uccisero agnelli,
poiché gli uomini erano convinti
di avere Afrodite in mezzo a loro.
La mia fama mi precedeva ovunque andassi.
Nel regno dei miei genitori al mio passo intimorito la gente
per
strada mi ricopriva di petali e fiori, sciolti o legati in mazzi, e mi
vedevo
rivolte preghiere ed offerti i sacrifici della dea.
Non volevo che gli immortali credessero che con la mia bellezza avanzassi
delle
pretese di divinità.
Pensavo che dividere con Afrodite la sua fama mi avrebbe attirato
l’ira della dea, e
così mi schermavo sempre, impaurita come una creatura del
bosco, respingevo
dolcemente le preghiere e i doni votivi, e io stessa, intimidita, supplicavo i
supplici che
non si prostrassero davanti a me e non si umiliassero ad abbracciarmi
le
ginocchia e a coprire di baci i miei piedi.
Nonostante la mia bellezza avesse la fama di essere divina, era sterile
ed
infeconda, e mi aveva lasciata in una desolata solitudine.
Le mie sorelle, avvenenti, ma di bellezza più modesta, si
erano felicemente
sposate ed avevano unito la nostra famiglia con quelle di due
re.
Nessuno,
invece, osava avanzare proposte nuziali per me, che ero ammirata
ovunque, ma
con l’ammirazione per le statue che, per quanto siano perfette,
rimangono solo delle immagini di beltà. Per i mortali io ero un simulacro prima di essere una donna. Nessuno nei miti e nella storia amò mai una
statua o volle vivere e morire per un
simulacro.
Credevo che, se fossi stata solo graziosa come una mortale, qualcuno
avrebbe
avuto il coraggio di sposarmi, e finii per detestare quella bellezza che
mi
restituiva lo specchio e che piaceva tanto a tutti.
Mi tormentavo i capelli e piangevo,
e quando ero esausta e senza forze mi alzavo e camminavo intorno con
sobbalzi
di pianto, talmente triste e debole che sentivo la mia testa come una bolla d'aria.
Disperata, credevo di esser tormentata dall’odio di Afrodite
per aver osato
essere bella come lei. Un giorno mi gettai in ginocchio davanti a mio padre e
piagnucolai,
supplicandolo di andare a chiedere all’oracolo
di Mileto se avrei mai avuto uno sposo. Mio padre mi accontentò, ma
quando ritornò aveva una faccia più contrita e
disperata della mia.
Il responso del dio era stato:
“Sopra un'alta montagna lascia, o re, la fanciulla ornata per le nozze di abiti funerei. Non aspettarti un genero nato da stirpe mortale, ma un crudele, un feroce, un mostro viperino, che volando con le ali nel cielo dà il tormento a tutti e con ferro e con fuoco distrugge ogni cosa; che lo stesso Zeus teme, di cui gli dei hanno il terrore e anche i fiumi infernali e le tenebre dello Stige”*
La sorpresa
fu violenta e improvvisa come
una bastonata a tradimento sulla nuca.
Cosa aveva una forza talmente virulenta? Cos'era
talmente aggressivo e invincibile da essere temuto dalle creature che
vivevano
nelle gole dei luoghi della morte e dagli dei, che pure erano supremi,
austeri e
potenti?
I miei genitori non avrebbero mai osato non obbedire al responso e da
parte mia
non feci mai nulla per impedirglielo, approvandolo fin dall'inizio con un po’
di paura.
Al mio matrimonio non suonarono il flauto nuziale, ma la nenia di morte
della
Lidia, mentre io, sulla rupe indicata, piangevo nei veli matrimoniali.
Tutta la città si era unita al dolore dei miei buoni
genitori e celebrava
insieme a loro le esequie della figlia viva.
Rimanevo elevata sopra la folla, sulla rupe dove ero stata
deposta
alla fine della processione, ad assistere alla vista del mio corteo
funebre.
Ed ecco il risultato di possedere una rara bellezza, pensavo, e di
essere
chiamata in coro dai popoli “nuova Afrodite”.
Avevo le guance bagnate e rosse e le spalle scosse dai singhiozzi.
Tremavo come
se la terra sotto di me fosse terremotata.
Mia madre e mio padre si arrampicarono sulla mia rupe e mi strinsero
entrambi
in un commosso abbraccio che mi ridiede il coraggio e la forza di un
uomo. Così,
infine, per un po' fui io a confortare loro, spingendoli verso quel
misfatto.
Li amavo troppo per fare qualcosa
per impedirglielo.
Sentivo che se le loro braccia non mi avessero tenuta tutta insieme sarei
caduta a
pezzi, e quando mi abbandonarono rimasi ad osservarli allontanarsi
insieme agli
altri, con le ginocchia tremanti.
Il pianto nella mia voce era diventato talmente dirotto che non
riuscivo neppure a
salutarli da lontano ma, quando la processione sparì tra le rocce, all'improvviso sentii l’aria, finora senza
forze, vorticare
attorno a me, e le nubi abbassarsi sulla mia testa.
L’orlo del mio peplo cominciò a svolazzare sulle
mie caviglie ed un mulinello
furioso di foglie secche e polverone si scatenò
travolgendomi in pieno e trascinando
i miei capelli e i veli nuziali.
Mi sentii sollevare dal vento per le braccia e poi da sotto le ascelle
e per le gambe,
quasi che l’aria fosse
di materia palpabile e avvolgibile
attorno al corpo.
Il vortice d’aria catturò delle nubi e mi avvolse
attorno una nebbia divina,
affinché nessuno potesse vedermi, o sentirmi, o toccarmi
mentre scendevo
dolcemente verso il pendio e venivo risucchiata sempre più
infondo dal candore
della foschia.
La meraviglia e lo spavento lottavano per prevalere l’una
sull’altro mentre il
pendio roccioso e acuminato finiva sulla collina in un prato verde,
apparso
dietro la nebbia che si diradava. Lo Zefiro mi conduceva leggiadro, tra
veli
aleggianti e soffi leggeri, su un letto di fiori dove era ammucchiata un
po’ di
paglia.
Cullandomi dolcemente, quasi in un grembo materno, l’aria
calda mi depose per terra.
Smettendo di vorticare sotto di me, la corrente si spostò e prese a girare su se
stessa, trascinando
polvere, foschia e foglie secche. Con queste cose simulò
l’immagine di un
uomo divino (a vederlo un meraviglioso prodigio) che camminava senza
suono di
passi sull’erba, coinvolgendo altri rametti dentro il suo corpo di nuvole e polvere.
Col palmo rivolto al cielo, vicino alla bocca, mi soffiò
addosso un profumo
penetrante di vino.
Sentendomi sopraffare dalla stanchezza
che veniva dallo sfogo delle lacrime e dall’aria intossicante,
che saliva fino alla mente pungendomi nel naso e provocandomi la
sensazione di una sbornia spaventosa, cedetti e dormii
pacificamente nel fieno, finché l’incantesimo di
Zefiro non si diradò nell’aria
attorno…
Il risveglio fu un lento spalancarsi d'azzurro davanti ai miei occhi.
Mi ero svegliata al suono del corso ridente di una sorgente
d’acqua dalla
purissima trasparenza e dai bei scintilli, con un mal di testa pulsante
dietro agli occhi.
Visto che dal tramonto del giorno prima il sole ora splendeva a
metà del
compimento del suo percorso, nel pieno del cielo d'un azzurro
così profondo da
rasentare le tinte viola, capii di aver dormito tutta la notte prima e
buona
parte del giorno.
Mi rigirai ed affondai nel mio
giaciglio di fieno. Con le braccia intorpidite feci forza sui gomiti
per
alzarmi un po’, attorno a me c’era
l’atmosfera eterea ed idilliaca dei capi
Elisi.
Avevo dormito in un piccolo spiazzo del bosco, a cielo aperto.
Mi alzai pulendomi il fieno dal
peplo e osservando il bozzetto idilliaco.
Tutto il giardino era pervaso di lucore: attorno a me, dopo la
bellissima fonte
dalle onde tranquille che la facevano luccicare al sole,
c’erano un boschetto
di alberi alti e grandi abbastanza da ricoprire l’orizzonte.
A sua volta circondato dal boschetto, come la radura, c’era
un palazzo che
sovrastava tutto, e sembrava alzarsi fino a voler raggiungere il cielo,
nella
sua parte più alta e inaccessibile, dove non c’era
l’aria.
Attraversai la bella corrente domandandomi
in che mare finisse e se seguisse la strada di casa.
All’entrata si capiva con certezza di trovarsi in una dimora
degli immortali.
I soffitti erano alti, intagliati in legno di cedro, oppure fatti in
marmo, e
le colonne erano grandi quanto grossi tronchi d’albero.
I muri e i pavimenti erano d’oro cesellato pieno di figure in
rilievo che
sembravano voler uscire dalle pareti dov’erano scolpiti.
Neppure tutto l’oro e l’argento di ogni tempio
sarebbero bastati a raggiungere
la ricchezza del bel castello.
Ogni opera aveva una gran finezza artistica che poteva venire solo
dalle mani degli dei e tutto era talmente bello e dorato che il palazzo era di per se
stesso
luminoso anche senza il sole.
Dove le superfici non riflettevano
la luce in sfolgorii infuocati o argentati ogni cosa era del bianco
soffuso del
marmo.
Il prezioso palazzo si estendeva in mille stanze in lungo e in largo e
la
curiosità aveva la meglio sul senso di smarrimento.
Ma non ero indifferente al fatto che qualcuno mi avesse rapita e che
non
potessi tornare da dove il Zefiro mi aveva portata via.
Chissà se i miei genitori mi sarebbero tornati a cercare o
se invecchiavano nel
lutto con rassegnazione.
Mai un mortale aveva avuto tanta abbondanza e aveva passeggiato
sull’oro e su
gemme come quelle. Ma il miracolo di quel luogo era che niente era
sotto
custodia, nonostante l’avidità di tanti uomini
potesse essere attirata a
rubarli, tutto era senza catene e senza lucchetti.
Sentii un moto d’aria come per lo spostamento di un fantasma
e poi delle voci
incorporee.
“Perché ti stupisci che non sia protetto nulla
quando la padrona è a casa?”
Non ebbi il coraggio di rispondere alle voci che mi giravano intorno
né di
contraddirle o di respirare.
“Tutto quello che ti circonda è tuo, anche noi che
siamo ancelle.
Il tuo sposo ci ha ordinato di accontentarti in tutto, e ha rimesso a
noi le
tue sorti.
Se desideri riposarti, avrai un bel letto, quando lo vorrai potrai
chiedere
l’acqua per il bagno, con dei vestiti puliti. E se hai fame
non ci vorrà più di
un istante per trovare la tavola pronta…”
Dopo un lungo silenzio in cui attesero che reagissi decisi di mettere
alla
prova tutto ciò che mi dicevano.
Chiesi di poter mangiare e si allontanarono dicendomi di seguire i loro
canti,
mi orientai cercando di capire dove fossero fuggite dalla provenienza
della
loro voce, e così mi condussero in una stanza più
alta che ampia dov’era
imbandita una cena da regina su una tavola semicircolare.
Chiesi un'orchestra e un suono senza sorgente si propagò
insieme ad un armonia
di voci, e benché non si vedesse nessuno era chiaro che
c’era un coro in quella
stanza.
Domandai se potessero scaldarmi e il fuoco si accese da solo sulle
fiaccole
fisse al muro, annerite dall’ultima volta che si era spento.
Con grande meraviglia, e confortata da presenze tanto servizievoli, mi
feci
accompagnare alla stanza destinata.
Il castello era talmente solitario ed ampio che sentivo l’eco
dei miei passi e
di quelle voci degli spiriti che mi obbedivano.
Mi mostrarono la mia bella stanza, buia e grande, che dava su un ampia
finestra
e non aveva lumi.
Nel semibuio del tramonto pregai le ancelle aeree di trattenersi,
parlarmi,
confortarmi un po’ grazie alle loro voci, di raccontarmi
delle storie o di chi
fosse quel castello.
Ma presto capii che le loro erano parole prive di pensieri, date alla
casa e
all’aria, che potevano solo ricevere ordini e ripetere le
frasi che avevano
imparato grazie agli incantesimi di un dio.
La casa divina, dunque, era capace di parlare poche parole con tante voci di
ancelle,
ascoltare, obbedire, ma per un vano incantesimo, non per vere presenze e
vere
anime.
Diedi tutti gli ordini che mi vennero in mente per costringere le voci
della
casa a non abbandonarmi.
Le chiesi di cantare, di rassettare, di mostrarmi dove tenere i
vestiti, di
aprire la finestra, di accendere un lume, ma qui mi dissero che non
potevano
obbedire.
Battei i piedi, agitai i pugni, pregai, mi infuriai, ma mi risposero
con le
stesse parole di non poter obbedire, sicché non ci fu
più ordine che mi venne
in mente per non sentirmi sola e le voci cantarono allontanandosi col
vento.
Nel buio tesi le braccia davanti a me alla ricerca del letto e mi
sistemai tra
le coperte vestita, un po’ impaurita dalla sorte del giorno
dopo, di quello dopo
ancora e di quello seguente.
Mi prese un' ansia indifesa del futuro. Anche una gabbia preziosa e
dorata era
sempre una prigione.
Pensai a una solitaria vita d’abbondanza, di false presenze,
di ordini che
potevo dare al vento ogni volta che volevo un po’
d’aria. Era la vita da dei
che poteva condurre una mortale, pensai, e d'improvviso ero molto
irritata con
quelle voci finte.
Il buio era fitto e senza trame e non riuscivo a vedere la stanza
attorno a me.
Tra le mie coperte non mi addormentavo: mi sentivo
sveglia grazie a un
istinto che mi diceva di diffidare di tutto e di aspettarmi cose brutte
nascoste. Queste sensazioni mi tenevano in guardia perché in
tutta quella
bellezza e quella ricchezza avevo già scoperto le prime
venature imperfette e
inattese. Qualcosa mi faceva pensare che tutto fosse una falsa
apparenza e
che un terribile pericolo stesse in agguato.
Nel silenzio disteso sentii un battito d'ali potente, come il suono di
un
uccello gigantesco che atterra, e da come si era fatto
più buio capii che
qualcuno si era stagliato davanti alla finestra.
Avevo gli occhi sgranati, con tutti i sensi tesi a cogliere qualunque
indizio o
rumore minaccioso, mentre, in preda ad una vertigine di terrore,
pensavo con
ansia al responso dell'oracolo.
"…Non aspettarti un genero nato da stirpe mortale, ma un crudele, un feroce, un mostro viperino, che volando con le ali nel cielo dà il tormento a tutti e con ferro e con fuoco distrugge ogni cosa…"
Girai piano piano la testa,
sperando che i miei movimenti rigidi, da preda braccata, non fossero
visibili al
buio. Ma, come non riuscivo a vedermi le braccia o le mani, non riuscivo a vedere
più in là.
Capii che qualcuno scendeva dal davanzale dal calpestio limaccioso di piedi
nudi sul
pavimento, e udii che gettava da parte con malagrazia qualcosa che
sferragliò in un
angolo.
Poi si mosse con passo cauto e in silenzio, chiusi gli occhi e mi finsi
addormentata, provando a mettere le coperte come ultima difesa tra me e
lui.
Era qualcuno che si stava avvicinando al talamo, e si era fermato
davanti a me. Sperai di convincerlo e di sembrare abbastanza innocente e immobile. Mi
sentivo
paralizzata e trattenevo il fiato
dall’ansia.
Sentivo i suoi occhi mettermi in esame percorrendo tutte le coperte.
Era da un po' di tempo che ero allerta, nel completo silenzio, quando
sentii un
sbuffo di stanchezza e un battito d'ali spazientito.
La paura mi tradì completamente perché sobbalzai
un po’.
Il mio ospite se ne
accorse e rise.
-I-io...io- alzai il viso dal cuscino, impaurita.
Mi misi in ginocchio sul talamo e nel buio vidi il bianco di un sorriso
birbante.
-I-io, sono Psiche- blaterai guardando confusa il sorriso addolcirsi
al suono della mia voce -L-le ancelle mi hanno ordinato di restare al
buio in
questa stanza...- e la sua voce approvò quel che dicevo con
un mormorio. Era completamente fermo, non spostava neanche il peso da una gamba all'altra, e dopo
un minuto di silenzio assorto che sembrò durare un giorno intero lo sentii sospirare di soddisfazione, come al raggiungimento di uno scopo che si era prefissato, e poi colsi il fruscio di vestiti sfilati.
Senza una parola, all’improvviso, lo sentii chinarsi davanti a
me, talmente
vicino alla mia faccia da vedere il bianco dei suoi occhi
luccicare, e per
istinto balzai dall'altra parte del letto. Ero senza fiato.
Appena si accorse che gli ero scappata gli sfuggì un basso
ringhio stizzito e
le ali sbatterono due volte imperiose, facendo volare le lenzuola.
Era spazientito perché si stava accostando a me ed io avevo
respinto il suo
gesto.
Lo sentii reprimere l’irritazione con un respiro profondo e
salire sul letto
per raggiungermi. Capivo dove si spostava dallo strusciare delle
lenzuola e dal
modo in cui il letto affondava sotto il suo peso, ma ad un tratto non sentii più i
suoi movimenti.
Tutto era talmente silenzioso fa farmi pensare di essere sola.
Senza osare respirare solo un po' più forte mi guardavo attorno nel buio impenetrabile, cercando di capire da che direzione sarebbe piombato,
quando
sentii che due ali piumate e morbide si chiudevano dietro di me avvolgendomi con dolcezza.
Provai a fuggire di nuovo cercando di dividere le ali, ma appena tentai
di ribellarmi
lo sconosciuto (se era un uomo) mi afferrò le mani e mi
ritrovai ancora più
velocemente sul suo petto.
Colse il momento per circondarmi con le braccia. Era un vero e proprio
assedio.
Spiegò le ali e le sbatté per la vittoria mentre
opponevo debolmente resistenza.
I suoi sospiri felici erano modulati come le fusa di un gatto e ,con me costretta vicino a lui, quell'essere sembrò placato e pacifico.
Non mi ero dimenticata che era mio sposo, ma non avevo neppure scordato
che era
anche il mio rapitore.
Avrà pensato che rapendomi, riflettei, avrei avuto tanta
paura di trovarmi lì, tutta sola - dov'era pieno di incantesimi e di dei dal volto fatto di
vento e
nebbia come il buon Zefiro - che sarei dovuta ricorrere per forza a
lui, il
viso che mi sembrava (o che piuttosto potevo immaginare) più
umano.
Mi fece sedere in grembo e mi poggiò il mento sulla testa,
con le ali
gentilmente ripiegate su se stesse per non ingombrare il talamo.
Sussurrava qualcosa a mezze labbra tra i miei capelli.
Ero circondata da lui in ogni direzione
“Accendi un lume” mormorai ora che mi ero arresa e
mi abbandonavo alle carezze. L'uomo grugnì come un bambino che non voleva fare quel che gli si diceva e nascose
il viso
nell’incavo del mio collo. Iniziò a frugarmi sotto
la veste, mi ignorava
sfacciatamente e cercava di fare solo quello che voleva il suo sangue.
“Chi sei? Se non posso vederti...” trattenni il
fiato quando prese a
mordicchiarmi un tenero lobo “...almeno fatti riconoscere
dalla tua voce, se
no, ti prego, accendi un lume per me”
Lo sconosciuto si fermò, si staccava di poco da me e mi
osservava. Capì che
vedeva anche al buio ogni fremito delle mie ciglia, ma io potevo solo
vedere il
bianco dei suoi denti.
“Non posso”. Oh che gioia sentire che parlava e con una
voce così profonda e così
bella!
“Perché no?”
Sospirò e ritirò le mani da sotto la mia veste,
mi prese per le spalle
insistendo con la presa delle mani.
“Non dovrai, mai, mai vedermi o sapere chi io sia. Accadranno
cose spaventose
se disobbedirai, ed io non potrò mai più tornare
da te...” lo disse esitando e
capii che per lui sarebbe stato terribile.
Sentii anche che costui non era solo violentemente incapricciato di me, ma che era
veramente uno degli dei colpito dall'incantesimo virulento delle frecce
di
Eros.
Perciò non protestai più e, ricambiandolo, mi
lasciai stendere sulle
lenzuola. Per tutta la notte, mentre sfogava il suo amore su di me, mi
avvinghiai forte a lui come se avessi voluto spezzargli il collo.
Il mattino dopo se ne era già andato senza una parola.
Le ancelle aeree avevano imparato parole nuove apposta per il mattino
dopo -sicuramente
perché era stato il mio visitatore a insegnargliele- e per
tutta la mattina non
fecero altro che restare vigili e, se mancavo di ordinare loro qualcosa
per
troppo tempo o se capivano che ero trasognata, non risparmiavano la voce
per
confortarmi.
“Tornerà ogni notte, così non ti
mancherà mai” e il misterioso sposo
tornò
ancora, ogni notte, come aveva promesso. Io lo aspettavo con gioia
raggiante
d’amore. Questa consuetudine ripetuta assiduamente rinnovava
sempre un gran
piacere e felicità. Traevo un gran conforto, se non dalla
vista del suo volto, dalla sua
voce.
Perché, sebbene invisibile, lui esisteva davvero e potevo
sentirlo, toccarlo e
parlare con lui. Non come le vane voci che risuonavano e obbedivano per
la
casa...
Continua...
Siccome
da un po’ di tempo mi sta venendo una stramba ossessione per
gli dei Greci (anche
grazie alla bella storia di flyvy) ho deciso di riprendere uno dei miei
miti
preferiti, raccontato già da Apuleio, Amore e
Psiche, e di riscriverlo secondo
me…
Penso si protrarrà per tre capitoli con un eventuale
postfazione che
nella mia testa propende per non essere inserita.
Non mi faccio scoraggiare, perciò
siate crudeli, cinici, spietati, siate proprio stronzi quanto volete,
sbudellate e
distruggete e triturate e fate flambé l’ego di
autrice che c’è in me.