Salve a tutti i lettori, taciturni o recensori! E un
saluto particolare a Bael, alla cui recensione rispondo subito. Innanzi tutto,
l’allitterazione della f non è casuale
come potrebbe sembrare. Insomma, non si tratta di una semplice
sega retorica, come, secondo me, la chiamerebbe Martino (mi avvalgo
della facoltà di citarlo XD): rimanda al futuro (ma neanche tanto) fastidio che
porterà il personaggio sull’orlo di una nevrosi, quel brusio non dolce e
accomodante, ma violento e brutale, che ti trascina nei suoi sprizzi e spruzzi
(???) di isteria. Secondo me, questa sensazione quasi… claustrofobica, ecco, è
ben incarnata dalla lettera f (sarà
per questo che mi chiamo Francesca?).
Inoltre, immaginavo che avresti gradito quella parte; in
effetti, mi sono divertita molto nello scriverla. Inoltre, temevo che i
personaggi inseriti fossero eccessivamente fumettistici e archetipici: l’amico
sedotto, le frivole, la falsa, l’infame, gli immaturi etc. Spero che non sia
insorte anche in te quest’impressione (deduco di no, da ciò che hai scritto).
Sono sempre molto soddisfatta delle tue recensioni e ti ringrazio con sincerità.
Buona lettura a tutti i lettori, taciturni e… Be’,
lasciamo perdere.
Un missile?! Hanno caricato il quaderno su un missile?!
Chiusi il volume imprigionando fra
le pagine il volto sbigottito di Light e il ghigno divertito di Ryuk.
Un piacevole brusio ronzava in
classe come una vespa: un sussurro farfugliato e, un attimo dopo, un boato
infernale. In quel momento, forse, era l’unico dettaglio piacevole.
Mi carezzai distrattamente la barba
corta e appuntita, percependo solo il vago solletico sul palmo e un gradevole
bruciore sulla pelle. Mi piaceva molto la confusione ovattata dei luoghi
affollati: conferiva alla vita un senso di perfetta inutilità, favorendo il
ragionamento.
Bene.
Tentavo di non concentrarmi sulle
singole voci per non forzare il bozzolo che mi emarginava, quella placenta
invisibile e fredda che mi sfiorava la pelle. O, forse, era solo merito
dell’umidità che rendeva i vetri opachi non solo per il gesso e gli aloni, ma
anche per le particelle d’acqua condensatevi.
Due voci urlanti e dal timbro
femminile vanificarono il mio tentativo di annullare i belati individuali e
rifugiarmi in quel ronzio anonimo.
“… E non pensi all’altra gente? A
tutte quelle persone che hanno trovato vantaggioso il piano di Light? L’hai
ascoltato ieri sera, vero? Hai sentito cos’ha detto a proposito di suo padre e
del fatto che gli onesti muoiono proprio per colpa dei…”
“Ma quella era solo una scusa! Light
sapeva bene che non era necessaria la morte di suo padre, ma l’ha ucciso lo
stesso! Ha ucciso un innocente, capisci? Uno dei miliardi di persone che
dichiarava di proteggere. E non ti sembra una contraddizione questa?”
“Al contrario: questo dimostra che
Light si è sacrificato fino a provocare la morte di Soichiro per il bene comune.
Ma sai cos’è la ragion di Stato? Ne hai mai sentito parlare, eh? Le regole del
governo sono diverse da quelle umane. La morale non esiste nello Stato!”
“Stai scherzando?!”
“Nessuno può capirlo quanto lo
capisco io. Light ha ragione ed è morto proprio per l’ottusa moralità della
polizia e del governo.”
“Tu sei pazza!”, boccheggiò
Mariagrazia ridendo nervosamente.
Mi voltai: lo sguardo di Susanna era
duro e distaccato, sembrava fissasse i balconi del palazzo di fronte alla
finestra.
Nonostante tutta la classe le
fissasse, sputando commenti maligni e divertiti, Susanna e Mariagrazia non
abbassarono il tono di voce.
“Sono davvero inopportune.”, sentii
sussurrare alle mie spalle ormai fradice di risolini.
Frasi di assenso ed espressioni
irritate.
“Pensa a come sarebbe la nostra
classe se Light eliminasse tutti gli elementi di disturbo che contiene. Pensaci,
pensaci!”, aggiunse Susanna, vedendo l’amica pronta a ribattere.
Nessuno si accorse di
quell’affermazione evidentemente provocatoria: dimentichi dell’episodio, erano
tornati tutti a dissertare sulle novità del gossip scolastico, sui fantomatici
gavettoni e, naturalmente, sulle vacanze programmate (di cui solo lo 0,3%, per
dirla alla L, si sarebbe effettivamente concretizzato).
“Ne abbiamo già parlato.”,
puntualizzò, irritata, Mariagrazia.
“Ma certo, secondo te questa classe
è perfetta! Margie, tutto questo… non ha senso e non so come tu faccia a
pensarlo! Tu vedi? Senti quello che dicono?”
“Stai esagerando. Non ho mai pensato
che la nostra classe fosse perfetta, però, vedi, io noto nella gente cose che tu
non immagini e non riesco a capire come tu, che io reputo la persona più
intelligente che conosca, faccia a non vedere ciò che vedo io. Tutti devono
avere la possibilità di vivere per dare al mondo ciò che di buono ha. Perché
non…?”
“Margie, tu sei inge…”
All’improvviso, il sibilo di Susanna
venne sovrastato da una canzone, probabilmente proveniente da un cellulare, che
si rincorreva da sola, si affrettava sulle poche note alternate che stendeva e
sollevava; impiegai un secondo per riconoscerla: era l’ultima hit di cui erano
stati pubblicati migliaia di video su YouTube con una dozzina di ragazze che si
esibivano nel ballo di gruppo inventato sulla base di quella musica – se così
poteva essere indicata –, meritandosi anche un servizio su Studio Aperto.
Il fenomeno del momento, la litania di
ogni discoteca italiana… Si prevede che sarà il tormentone di questa estate
2009… Si balla dappertutto, dalle scuole agli uffici, dalle strade agli
stabilimenti balneari che, nonostante le condizioni atmosferiche inclementi, si
sono riempiti sin dai primi di giugno…
Sbuffai.
Sbuffai.
Sbuffai.
Sbuffai. Sbuffai. Sbuffai.
Era incontrollabile, non riuscivo a
fermarmi e le orecchie rombavano come un motorino in curva. Mi sfilai
definitivamente le auricolari, rassegnato al limite di decibel delle cuffie
giapponesi.
Sospirai. E sbuffai. Un’altra volta.
Ronzii dappertutto.
Mi guardai intorno per passare il
tempo – erano le otto e mezza e il professore non era ancora entrato in classe,
essere naturali era ancora più difficile in quei casi –: Cosssty e Claudia erano
sedute in braccio a Fabio e Francesco, che coglievano l’occasione per palparle e
ricevere patetici pugnetti sulle spalle e pigolii come reazione; Luigi e
Michele, ululando euforicamente, ballavano tecktonik con movimenti scoordinati e
maldestri persino per quella danza; Giovanni, Daniele e Savino ripetevano a
memoria una poesia di Pietro Aretino barrendo dalle risate ad ogni
potta o
bischero, sfogliando stancamente il registro quando mancavano
riferimenti espliciti nel componimento, immaginai dai loro visi muti e insipidi;
Ilaria, ben visibile dalla mia posizione, ascoltava la musica con un paio di
cuffie enormi – i capelli tinti di nero melanzana abbandonati dietro le spalle,
china sul banco, il piccolo seno che ricadeva sul quaderno che stava
scarabocchiando – dimenava la testa come in preda alle convulsioni e muggiva
qualcosa in spagnolo. All’improvviso, forse per osservare l’opera terminata sul
foglio, sollevò il busto in posizione quasi eretta e notai, sotto la kefiah che
le camuffava il viso, una maglietta nera con la scritta
Infernum e qualche parola in tedesco, immaginai, stampata in rosso
con il carattere Old English Text MT,
come tracciata con una bomboletta spray su una parete annerita e ruvida.
Ma la kefiah è il simbolo del comunismo per eccellenza. Fino a questo punto
Ilaria…?
Sbarrai gli occhi, perplesso, senza
accorgermi che, effettivamente, qualcosa aveva attratto la mia attenzione in
quel brusio strascicato, un sussurro in confronto alla musica metallica
proveniente da un cellulare anonimo.
Mi alzai facendo strofinare la sedia
sul pavimento. Ssstriiidette.
L’incoerenza di Ilaria era risaputa:
mutava stile e genere musicale quasi ogni giorno, sfoggiando un trucco da
Jeffrey Star per uns sera e atteggiandosi a goth qualche ora dopo; ma queste
erano solo due delle migliaia di alternative… forzatamente
alternative di cui si copriva, si
vestiva, si copriva e si vestiva senza spogliarsi: essere tutti – e nessuno –
nello stesso momento, farsi notare da chiunque, essere particolare ma non
diversa. C’era chi lo avrebbe trovato curioso.
Gente con diecimila lauree studiavano tipi
come lei, li hanno impacchettati e ci hanno messo una bella etichetta:
SCHIZOFRENIA.
Io lo trovavo semplicemente stupido.
In quel momento, il professor
Recchia sbattè rumorosamente il volume di economia aziendale sulla cattedra per
segnalare la propria presenza. Non che mi dispiacesse, ma l’uso della parola era
sconosciuto a tutti?
Accanto al professore, che intanto
urlava per reclamare il silenzio, notai Enrico Bossoli e i suoi sottili baffi da
gatto.
“Ma quello non è Enrico della quinta
D? Che cazzo di capelli si è fatto?! Stava meglio quando li portava come
Riccardo Scamarcio…”
Dopo aver discusso qualche attimo
con il professore, Enrico si voltò per uscire dall’aula ed entrare nella sua
classe e, in quel momento, notai una stampa familiare.
Ah, già: Mussolini.
Il duce
di Alessandro Bruschetti, per la precisione. L’avevo vista sul libro d’italiano
del biennio, sì, nella sezione dedicata al maschilismo e al femminismo.
“Quello è un fascista di merda! Mi
fa schifo, cazzo! FASCISTA, SEGUACE, DI MUSSOLINI, TANTO, SAI FARE, SOLO POM…”,
cominciò a starnazzare Ilaria con ritmo da marcia militare, sventolando la
kefiah.
Enrico la fissò per un attimo e si
mosse per andarsene, ma io lo chiamai a bassa voce, felice che il professore
avesse distratto tutta la classe con una battuta demenziale.
“Ehi, Marti’”, mi si avvicinò
Enrico. “Senti, per quanto riguarda i libri del quarto, quest’anno potrei anche
farti uno sconto del 50%, ma il libro di diritto non posso vendertelo, visto che
servirà a mia sorella che sta al biennio. Però per il resto non c’è problema,
potrei darteli anche ora, tanto per gli esami non mi servono a un cazzo.
Quindi…”
Lo interruppi, sempre a bassa voce.
“No, va be’, non è questo…”, esitai
fissandogli la cintura di pelle bruna, tanto per posare lo sguardo su qualcosa.
Di solito compravo i libri di scuola da Enrico a giugno, avrei già dovuto
contattarlo prima.
“Senti, gli Infernum che genere di
musica fanno?”, chiesi con naturalezza.
Non ci pensò nemmeno. “Nazi metal”,
sbottò incrociando le braccia al petto e accarezzandosi i bicipiti villosi.
Ah, ecco.
“Mmh, ho capito. Era solo per
conferma.”, spiegai sul punto di congedarlo.
“Quando guardo certe persone mi
chiedo perché dovrei lottare anche per loro”. Tirò su col naso raffreddato e si
passò una mano sulla nuca.
Percependo che il discorso sarebbe
morto lì, mi affrettai a salutarlo, prima che si cristallizzasse il silenzio.
“Be’, allora ciao. Ti faccio sapere per i libri, tanto il tuo numero ce l’ho.”
“Sì, sì. Ci vediamo”, mi guardò
un’ultima volta, sempre con quegli occhi massacranti e impietositi, come un
messia, e se ne andò accostando la porta dalla serratura difettosa.
Light mi fissava contrito,
imprigionato in un riquadro caotico del manga.
I neon mi facevano venire il mal di
testa e, per di più, mi stavo annoiando. Non che fossero novità, mi succedeva
automaticamente nove mesi all’anno.
“Manonera, devi giustificare le
assenze dal quattro al nove giugno”, mi informò il professore mordendo il tappo
della penna.
“Ah, sì…”, mormorai esitando. “Ho
dimenticato il libretto delle assenze”. La bocca impastata e la voce roca davano
l’impressione che mi fossi appena svegliato.
Tutti frinivano, i banchi frinivano,
frinivano le sedie, frinivano i fogli. Persino i neon frinivano, se mi
concentravo meglio. E l’occhio destro mi pulsava.
“E quando me la vuoi portare ‘sta
giustifica, Marti’?! A settembre? Ma tu vedi un po’…”, cominciò a borbottare il
professore giocherellando con la cravatta.
Mello sgranocchiava cioccolato e
ghignava.
Aldo iniziò a mugugnare.
“Mmmmm.”
Forse due, forse cento persone
cominciarono ad imitarlo. L’aula sembrava un tempio induista. Ancora quel gioco
idiota.
E il mio mal di testa aumentava.
E Khadija provocava Aldo. Lo
derideva.
E Ilaria squittiva.
E tutti ronzavano.
E il vento soffiava.
E… e che altro?
Ah, sì: e il mio mal di testa
aumentava.
No, non questo. Ah, ecco.
E volevo ucciderli tutti. Tutti
quanti.
E mi venivano le lacrime agli occhi
per l’emicrania.
E li amm…
“Ragazzi, in quest’ora andiamo nel
laboratorio d’informatica!”, tossì Recchia.
Alleluia.
Come tori, come capre si
precipitarono tutti verso la porta, mentre io avevo già superato la soglia per
arrivare prima in sala computer e occupare la postazione elettronica migliore,
la numero quattordici. Sempre meglio di
restare in classe a sopportare l’intermittenza dei neon. Come se il problema
fossero i neon.
Avrei controllato se l’autore avesse
aggiornato The Electric Metempsychosis.
Ormai era diventato un pensiero fisso: era la prima fanfiction che mi
entusiasmava in quel modo, non avevo mai atteso con tanta impazienza un
aggiornamento. Rabbrividii senza un motivo preciso.
“Vuoi?”. Aldo mi porse una bustina
di patatine, mentre cercava di sgranocchiarne una manciata consistente senza
apparire ridicolo. Invano, forse, ma non ero del tutto oggettivo nei miei
giudizi ultimamente.
Mormorai un ringraziamento ed
estrassi dal sacchetto una patatina ghiacciata e ondulata.
Silenzio.
Continuammo a camminare nel
corridoio; le mie scarpe da ginnastica cigolavano e fischiavano. Dietro di noi
il professore ringhiava e schiamazzava paradossalmente contro i ringhi e gli
schiamazzi del resto della classe, sempre più somigliante a delle bestie
accecate dall’improvvisa libertà.
Silenzio, fra me e Aldo.
“Ah, ehm…”. Lo sfrigolio delle
patatine fra le sue mandibole funse da intercalare alla frase. “Eh, sai che
forse organizzano una pizza di fine anno? Con tutta la classe e forse qualche
professore.”. Rise. “Speriamo di farcela quest’anno… Cioè, sai che gli anni
scorsi o se ne sono dimenticati, o ci sono venute solo due o tre persone, oppure
si sono messi a litigare per il posto e il giorno.”. Tirò su col naso e spostò
una ciocca scura e sporca di capelli dalla fronte. “Ma quest’anno la facciamo
sicuramente, cazzo! La nostra è una classe fantastica, non possiamo non
festeggiarla!”.
Deputai al retrogusto delle patatine
il sapore amaro che mi balenò sulla lingua.
“Mmh.”, annuii.
Silenzio.
Intravidi la porta del laboratorio,
spalancata e ingombra dei soliti avvisi, questa volta, almeno per coerenza,
scritti a macchina.
“E poi Khadija forse ver…”
“Senti, sai a che ora si esce
oggi?”, lo interruppi. Immersi le dita nel pacchetto impiastricciato di olio e
ne cavai un’altra patatina gelida, per via del distributore che conteneva anche
le barrette di cioccolato; questa volta ne scelsi una più grande, per lenire il
retrogusto amaro in bocca.
Era più salata.
“Ah, boh… Mi sa che facciamo cinque
ore invece di sei, ma non so se saranno tutte di lezione. Forse dopo la
ricreazione andiamo in palestra per il discorso del preside, boh.”
“Ah, OK.”
Varcando la soglia, percepii l’odore
distinto e asettico delle ventole dei computer. Sospirai: quella fragranza così
surreale mi rendeva sempre soddisfatto, come i neon candidi e potenti della
stanza, che non mi causavano mai mal di testa, e le tapparelle che lasciavano
filtrare solo un lascivo flutto d’aria.
Finalmente a casa,
mi ritrovai a pensare e subito scagliai via quella frase da fumetto.
Ma l’amaro sulle labbra e sulla
lingua, posatosi così dolcemente, non accennava a neutralizzarsi.
Accarezzai il case della postazione
quattordici, poroso, gelido, metallico. Lo grattai con le mie unghie corte e
sfrangiate: la superficie nera frinì. Vi posai il palmo e godetti del passaggio
di calore dalla mia mano al piano quasi tiepido. Sorrisi felice.
OK, ora controlliamo su EFP. Se non ha aggiornato la ammazzo quella troia di
Headache… Non si può non postare un capitolo dopo una settimana intera, cazzo!
Il mouse era leggermente viscido e
più caldo del case. Sbuffai.
D’accordo, se non ha aggiornato me ne torno in classe, non voglio stare qui ad
ascoltare questi coglioni che mettono musica house su Youtube e vanno su
Facebook a frignare, cazzo santo!
Risi a bassa voce: non comprendevo
il compiacimento che mi percuoteva appena pronunciavo una parolaccia pesante o
formulavo una riflessione profonda e deviante, ma mi intrigava fino al
malessere.
Mi carezzai le palpebre, infilando
le dita fra gli occhi e le lenti, sfiorandomi le ciglia e muovendo le pupille
come avevo imparato a fare da Gregory House. Diagonale-destra-in
basso-diagonale-destra-sinistra.
Il tepore meccanico del computer,
come un cagnolino fedele, mi sbavava sulle mani, mi imbeveva le dita e le
scaldava fra le sue zampe sporche e tristi. Forse fuori pioveva: sentivo le
gocce sibilare sulle tapparelle, sussurrare e sputare. Così vivida e umida, la
pioggia. Mi sembrava di affogarci, di piombare nelle profondità ovattate di un
oceano, di un prato di neve.
Troppo vivida.
Non mi spaventai nemmeno quando
sentii le narici infiammate dall’acqua e i capelli vibrare come alghe, verdi,
scure, molli, filiformi, dita di sguattera, dita di pianista, dita di puttana,
ghirlande di Natale…
Listen, listen
“Margie, senti che carina ‘sta
canzone.”
“Sei lunatica fino alla paranoia!
Due secondi fa mi stavi per sbranare viva e adesso mi parli così?! Susa’, fai
proprio paura.”
“Ma smettila, ché qui la paranoica
sei tu! È bella, vero? È degli Evanescence, si chiama
Listen to the rain.”
Listen, listen
Listen, listen
Listen to each drop of rain
“Stupenda… Me la devi passare! Che
cazzo di gruppo sono gli Evanescence… Sono proprio bravi, a parte
All that I living for.”
“Ancora con questo fatto? Basta! Sei
tu che non capisci niente!”. Risa.
“Ma dài, la cantante sembra
un’assatanata tipo borderline quando canta quel pezzo!”
“Ma tu che ne puoi sapere, povera
Margie, che sei figlia di un povero commerciante di articoli per la casa… Che
triste triste condizione la tua!”. Altre risa, tante, cristalline.
“Ma smettila! Razzista di merda!”
“Dài, ché scherzo!”
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Finsi comunque che fosse la pioggia
a frusciare e ad appannare i vetri e non qualche megabyte su un lettore MP3.
Ecco, ecco la storia!
C’è scritto: [Capitoli: 4] Ha
aggiornato!
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Desintonizzai i suoni del
laboratorio, a parte il ronzio della ventola, il suo odore elettrico. E il
fruscio… No, il fruscio non riuscivo ad eliminarlo.
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Pazienza, non era così sgradevole,
anzi.
Ultimo capitolo.
Bene, cliccai sul link.
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Aghi di pino fra le cosce. Fu quella
la sensazione. Il cuore si liquefece, gocciolò copiosamente per un istante.
Goccia…
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… a…
Listen, listen
… goccia.
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