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Autore: francy91    06/11/2009    0 recensioni
Light era morto. Carne umidiccia e flaccida inchiodata precaria-mente a qualche gruccia d’avorio – ossa flosce –, unghie opache, pelle grassa e oleosa, vescica svuotata, cosce bagnate e fetide, bocca asciutta e accartocciata. Come tutti, insomma.
Genere: Generale, Azione, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri personaggi
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Senza nome 1

Salve a tutti i lettori, taciturni o recensori! E un saluto particolare a Bael, alla cui recensione rispondo subito. Innanzi tutto, l’allitterazione della f non è casuale come potrebbe sembrare. Insomma, non si tratta di una semplice sega retorica, come, secondo me, la chiamerebbe Martino (mi avvalgo della facoltà di citarlo XD): rimanda al futuro (ma neanche tanto) fastidio che porterà il personaggio sull’orlo di una nevrosi, quel brusio non dolce e accomodante, ma violento e brutale, che ti trascina nei suoi sprizzi e spruzzi (???) di isteria. Secondo me, questa sensazione quasi… claustrofobica, ecco, è ben incarnata dalla lettera f (sarà per questo che mi chiamo Francesca?).

Inoltre, immaginavo che avresti gradito quella parte; in effetti, mi sono divertita molto nello scriverla. Inoltre, temevo che i personaggi inseriti fossero eccessivamente fumettistici e archetipici: l’amico sedotto, le frivole, la falsa, l’infame, gli immaturi etc. Spero che non sia insorte anche in te quest’impressione (deduco di no, da ciò che hai scritto). Sono sempre molto soddisfatta delle tue recensioni e ti ringrazio con sincerità.

Buona lettura a tutti i lettori, taciturni e… Be’, lasciamo perdere.

 

                  3. Venti personaggi in cerca di un senso

 

Un missile?! Hanno caricato il quaderno su un missile?!

Chiusi il volume imprigionando fra le pagine il volto sbigottito di Light e il ghigno divertito di Ryuk.

Un piacevole brusio ronzava in classe come una vespa: un sussurro farfugliato e, un attimo dopo, un boato infernale. In quel momento, forse, era l’unico dettaglio piacevole.

Mi carezzai distrattamente la barba corta e appuntita, percependo solo il vago solletico sul palmo e un gradevole bruciore sulla pelle. Mi piaceva molto la confusione ovattata dei luoghi affollati: conferiva alla vita un senso di perfetta inutilità, favorendo il ragionamento.

Bene.

Tentavo di non concentrarmi sulle singole voci per non forzare il bozzolo che mi emarginava, quella placenta invisibile e fredda che mi sfiorava la pelle. O, forse, era solo merito dell’umidità che rendeva i vetri opachi non solo per il gesso e gli aloni, ma anche per le particelle d’acqua condensatevi.

Due voci urlanti e dal timbro femminile vanificarono il mio tentativo di annullare i belati individuali e rifugiarmi in quel ronzio anonimo.

“… E non pensi all’altra gente? A tutte quelle persone che hanno trovato vantaggioso il piano di Light? L’hai ascoltato ieri sera, vero? Hai sentito cos’ha detto a proposito di suo padre e del fatto che gli onesti muoiono proprio per colpa dei…”

“Ma quella era solo una scusa! Light sapeva bene che non era necessaria la morte di suo padre, ma l’ha ucciso lo stesso! Ha ucciso un innocente, capisci? Uno dei miliardi di persone che dichiarava di proteggere. E non ti sembra una contraddizione questa?”

“Al contrario: questo dimostra che Light si è sacrificato fino a provocare la morte di Soichiro per il bene comune. Ma sai cos’è la ragion di Stato? Ne hai mai sentito parlare, eh? Le regole del governo sono diverse da quelle umane. La morale non esiste nello Stato!”

“Stai scherzando?!”

“Nessuno può capirlo quanto lo capisco io. Light ha ragione ed è morto proprio per l’ottusa moralità della polizia e del governo.”

“Tu sei pazza!”, boccheggiò Mariagrazia ridendo nervosamente.

Mi voltai: lo sguardo di Susanna era duro e distaccato, sembrava fissasse i balconi del palazzo di fronte alla finestra.

Nonostante tutta la classe le fissasse, sputando commenti maligni e divertiti, Susanna e Mariagrazia non abbassarono il tono di voce.

“Sono davvero inopportune.”, sentii sussurrare alle mie spalle ormai fradice di risolini.

Frasi di assenso ed espressioni irritate.

“Pensa a come sarebbe la nostra classe se Light eliminasse tutti gli elementi di disturbo che contiene. Pensaci, pensaci!”, aggiunse Susanna, vedendo l’amica pronta a ribattere.

Nessuno si accorse di quell’affermazione evidentemente provocatoria: dimentichi dell’episodio, erano tornati tutti a dissertare sulle novità del gossip scolastico, sui fantomatici gavettoni e, naturalmente, sulle vacanze programmate (di cui solo lo 0,3%, per dirla alla L, si sarebbe effettivamente concretizzato).

“Ne abbiamo già parlato.”, puntualizzò, irritata, Mariagrazia.

“Ma certo, secondo te questa classe è perfetta! Margie, tutto questo… non ha senso e non so come tu faccia a pensarlo! Tu vedi? Senti quello che dicono?”

“Stai esagerando. Non ho mai pensato che la nostra classe fosse perfetta, però, vedi, io noto nella gente cose che tu non immagini e non riesco a capire come tu, che io reputo la persona più intelligente che conosca, faccia a non vedere ciò che vedo io. Tutti devono avere la possibilità di vivere per dare al mondo ciò che di buono ha. Perché non…?”

“Margie, tu sei inge…”

All’improvviso, il sibilo di Susanna venne sovrastato da una canzone, probabilmente proveniente da un cellulare, che si rincorreva da sola, si affrettava sulle poche note alternate che stendeva e sollevava; impiegai un secondo per riconoscerla: era l’ultima hit di cui erano stati pubblicati migliaia di video su YouTube con una dozzina di ragazze che si esibivano nel ballo di gruppo inventato sulla base di quella musica – se così poteva essere indicata –, meritandosi anche un servizio su Studio Aperto. Il fenomeno del momento, la litania di ogni discoteca italiana… Si prevede che sarà il tormentone di questa estate 2009… Si balla dappertutto, dalle scuole agli uffici, dalle strade agli stabilimenti balneari che, nonostante le condizioni atmosferiche inclementi, si sono riempiti sin dai primi di giugno…

Sbuffai.

Sbuffai.

Sbuffai.

Sbuffai. Sbuffai. Sbuffai.

Era incontrollabile, non riuscivo a fermarmi e le orecchie rombavano come un motorino in curva. Mi sfilai definitivamente le auricolari, rassegnato al limite di decibel delle cuffie giapponesi.

Sospirai. E sbuffai. Un’altra volta.

Ronzii dappertutto.

Mi guardai intorno per passare il tempo – erano le otto e mezza e il professore non era ancora entrato in classe, essere naturali era ancora più difficile in quei casi –: Cosssty e Claudia erano sedute in braccio a Fabio e Francesco, che coglievano l’occasione per palparle e ricevere patetici pugnetti sulle spalle e pigolii come reazione; Luigi e Michele, ululando euforicamente, ballavano tecktonik con movimenti scoordinati e maldestri persino per quella danza; Giovanni, Daniele e Savino ripetevano a memoria una poesia di Pietro Aretino barrendo dalle risate ad ogni potta o bischero, sfogliando stancamente il registro quando mancavano riferimenti espliciti nel componimento, immaginai dai loro visi muti e insipidi; Ilaria, ben visibile dalla mia posizione, ascoltava la musica con un paio di cuffie enormi – i capelli tinti di nero melanzana abbandonati dietro le spalle, china sul banco, il piccolo seno che ricadeva sul quaderno che stava scarabocchiando – dimenava la testa come in preda alle convulsioni e muggiva qualcosa in spagnolo. All’improvviso, forse per osservare l’opera terminata sul foglio, sollevò il busto in posizione quasi eretta e notai, sotto la kefiah che le camuffava il viso, una maglietta nera con la scritta Infernum e qualche parola in tedesco, immaginai, stampata in rosso con il carattere Old English Text MT, come tracciata con una bomboletta spray su una parete annerita e ruvida.

Ma la kefiah è il simbolo del comunismo per eccellenza. Fino a questo punto Ilaria…?

Sbarrai gli occhi, perplesso, senza accorgermi che, effettivamente, qualcosa aveva attratto la mia attenzione in quel brusio strascicato, un sussurro in confronto alla musica metallica proveniente da un cellulare anonimo.

Mi alzai facendo strofinare la sedia sul pavimento. Ssstriiidette.

L’incoerenza di Ilaria era risaputa: mutava stile e genere musicale quasi ogni giorno, sfoggiando un trucco da Jeffrey Star per uns sera e atteggiandosi a goth qualche ora dopo; ma queste erano solo due delle migliaia di alternative… forzatamente alternative di cui si copriva, si vestiva, si copriva e si vestiva senza spogliarsi: essere tutti – e nessuno – nello stesso momento, farsi notare da chiunque, essere particolare ma non diversa. C’era chi lo avrebbe trovato curioso. Gente con diecimila lauree studiavano tipi come lei, li hanno impacchettati e ci hanno messo una bella etichetta: SCHIZOFRENIA.

Io lo trovavo semplicemente stupido.

In quel momento, il professor Recchia sbattè rumorosamente il volume di economia aziendale sulla cattedra per segnalare la propria presenza. Non che mi dispiacesse, ma l’uso della parola era sconosciuto a tutti?

Accanto al professore, che intanto urlava per reclamare il silenzio, notai Enrico Bossoli e i suoi sottili baffi da gatto.

“Ma quello non è Enrico della quinta D? Che cazzo di capelli si è fatto?! Stava meglio quando li portava come Riccardo Scamarcio…”

Dopo aver discusso qualche attimo con il professore, Enrico si voltò per uscire dall’aula ed entrare nella sua classe e, in quel momento, notai una stampa familiare.

Ah, già: Mussolini.

Il duce di Alessandro Bruschetti, per la precisione. L’avevo vista sul libro d’italiano del biennio, sì, nella sezione dedicata al maschilismo e al femminismo.

“Quello è un fascista di merda! Mi fa schifo, cazzo! FASCISTA, SEGUACE, DI MUSSOLINI, TANTO, SAI FARE, SOLO POM…”, cominciò a starnazzare Ilaria con ritmo da marcia militare, sventolando la kefiah.

Enrico la fissò per un attimo e si mosse per andarsene, ma io lo chiamai a bassa voce, felice che il professore avesse distratto tutta la classe con una battuta demenziale.

“Ehi, Marti’”, mi si avvicinò Enrico. “Senti, per quanto riguarda i libri del quarto, quest’anno potrei anche farti uno sconto del 50%, ma il libro di diritto non posso vendertelo, visto che servirà a mia sorella che sta al biennio. Però per il resto non c’è problema, potrei darteli anche ora, tanto per gli esami non mi servono a un cazzo. Quindi…”

Lo interruppi, sempre a bassa voce.

“No, va be’, non è questo…”, esitai fissandogli la cintura di pelle bruna, tanto per posare lo sguardo su qualcosa. Di solito compravo i libri di scuola da Enrico a giugno, avrei già dovuto contattarlo prima.

“Senti, gli Infernum che genere di musica fanno?”, chiesi con naturalezza.

Non ci pensò nemmeno. “Nazi metal”, sbottò incrociando le braccia al petto e accarezzandosi i bicipiti villosi.

Ah, ecco.

“Mmh, ho capito. Era solo per conferma.”, spiegai sul punto di congedarlo.

“Quando guardo certe persone mi chiedo perché dovrei lottare anche per loro”. Tirò su col naso raffreddato e si passò una mano sulla nuca.

Percependo che il discorso sarebbe morto lì, mi affrettai a salutarlo, prima che si cristallizzasse il silenzio. “Be’, allora ciao. Ti faccio sapere per i libri, tanto il tuo numero ce l’ho.”

“Sì, sì. Ci vediamo”, mi guardò un’ultima volta, sempre con quegli occhi massacranti e impietositi, come un messia, e se ne andò accostando la porta dalla serratura difettosa.

Light mi fissava contrito, imprigionato in un riquadro caotico del manga.

I neon mi facevano venire il mal di testa e, per di più, mi stavo annoiando. Non che fossero novità, mi succedeva automaticamente nove mesi all’anno.

“Manonera, devi giustificare le assenze dal quattro al nove giugno”, mi informò il professore mordendo il tappo della penna.

“Ah, sì…”, mormorai esitando. “Ho dimenticato il libretto delle assenze”. La bocca impastata e la voce roca davano l’impressione che mi fossi appena svegliato.

Tutti frinivano, i banchi frinivano, frinivano le sedie, frinivano i fogli. Persino i neon frinivano, se mi concentravo meglio. E l’occhio destro mi pulsava.

“E quando me la vuoi portare ‘sta giustifica, Marti’?! A settembre? Ma tu vedi un po’…”, cominciò a borbottare il professore giocherellando con la cravatta.

Mello sgranocchiava cioccolato e ghignava.

Aldo iniziò a mugugnare.

“Mmmmm.”

Forse due, forse cento persone cominciarono ad imitarlo. L’aula sembrava un tempio induista. Ancora quel gioco idiota.

E il mio mal di testa aumentava.

E Khadija provocava Aldo. Lo derideva.

E Ilaria squittiva.

E tutti ronzavano.

E il vento soffiava.

E… e che altro?

Ah, sì: e il mio mal di testa aumentava.

No, non questo. Ah, ecco.

E volevo ucciderli tutti. Tutti quanti.

E mi venivano le lacrime agli occhi per l’emicrania.

E li amm…

“Ragazzi, in quest’ora andiamo nel laboratorio d’informatica!”, tossì Recchia.

Alleluia.

Come tori, come capre si precipitarono tutti verso la porta, mentre io avevo già superato la soglia per arrivare prima in sala computer e occupare la postazione elettronica migliore, la numero quattordici. Sempre meglio di restare in classe a sopportare l’intermittenza dei neon. Come se il problema fossero i neon.

Avrei controllato se l’autore avesse aggiornato The Electric Metempsychosis. Ormai era diventato un pensiero fisso: era la prima fanfiction che mi entusiasmava in quel modo, non avevo mai atteso con tanta impazienza un aggiornamento. Rabbrividii senza un motivo preciso.

“Vuoi?”. Aldo mi porse una bustina di patatine, mentre cercava di sgranocchiarne una manciata consistente senza apparire ridicolo. Invano, forse, ma non ero del tutto oggettivo nei miei giudizi ultimamente.

Mormorai un ringraziamento ed estrassi dal sacchetto una patatina ghiacciata e ondulata.

Silenzio.

Continuammo a camminare nel corridoio; le mie scarpe da ginnastica cigolavano e fischiavano. Dietro di noi il professore ringhiava e schiamazzava paradossalmente contro i ringhi e gli schiamazzi del resto della classe, sempre più somigliante a delle bestie accecate dall’improvvisa libertà.

Silenzio, fra me e Aldo.

“Ah, ehm…”. Lo sfrigolio delle patatine fra le sue mandibole funse da intercalare alla frase. “Eh, sai che forse organizzano una pizza di fine anno? Con tutta la classe e forse qualche professore.”. Rise. “Speriamo di farcela quest’anno… Cioè, sai che gli anni scorsi o se ne sono dimenticati, o ci sono venute solo due o tre persone, oppure si sono messi a litigare per il posto e il giorno.”. Tirò su col naso e spostò una ciocca scura e sporca di capelli dalla fronte. “Ma quest’anno la facciamo sicuramente, cazzo! La nostra è una classe fantastica, non possiamo non festeggiarla!”.

Deputai al retrogusto delle patatine il sapore amaro che mi balenò sulla lingua.

“Mmh.”, annuii.

Silenzio.

Intravidi la porta del laboratorio, spalancata e ingombra dei soliti avvisi, questa volta, almeno per coerenza, scritti a macchina.

“E poi Khadija forse ver…”

“Senti, sai a che ora si esce oggi?”, lo interruppi. Immersi le dita nel pacchetto impiastricciato di olio e ne cavai un’altra patatina gelida, per via del distributore che conteneva anche le barrette di cioccolato; questa volta ne scelsi una più grande, per lenire il retrogusto amaro in bocca.

Era più salata.

“Ah, boh… Mi sa che facciamo cinque ore invece di sei, ma non so se saranno tutte di lezione. Forse dopo la ricreazione andiamo in palestra per il discorso del preside, boh.”

“Ah, OK.”

Varcando la soglia, percepii l’odore distinto e asettico delle ventole dei computer. Sospirai: quella fragranza così surreale mi rendeva sempre soddisfatto, come i neon candidi e potenti della stanza, che non mi causavano mai mal di testa, e le tapparelle che lasciavano filtrare solo un lascivo flutto d’aria.

Finalmente a casa, mi ritrovai a pensare e subito scagliai via quella frase da fumetto.

Ma l’amaro sulle labbra e sulla lingua, posatosi così dolcemente, non accennava a neutralizzarsi.

Accarezzai il case della postazione quattordici, poroso, gelido, metallico. Lo grattai con le mie unghie corte e sfrangiate: la superficie nera frinì. Vi posai il palmo e godetti del passaggio di calore dalla mia mano al piano quasi tiepido. Sorrisi felice.

OK, ora controlliamo su EFP. Se non ha aggiornato la ammazzo quella troia di Headache… Non si può non postare un capitolo dopo una settimana intera, cazzo!

Il mouse era leggermente viscido e più caldo del case. Sbuffai.

D’accordo, se non ha aggiornato me ne torno in classe, non voglio stare qui ad ascoltare questi coglioni che mettono musica house su Youtube e vanno su Facebook a frignare, cazzo santo!

Risi a bassa voce: non comprendevo il compiacimento che mi percuoteva appena pronunciavo una parolaccia pesante o formulavo una riflessione profonda e deviante, ma mi intrigava fino al malessere.

Mi carezzai le palpebre, infilando le dita fra gli occhi e le lenti, sfiorandomi le ciglia e muovendo le pupille come avevo imparato a fare da Gregory House. Diagonale-destra-in basso-diagonale-destra-sinistra.

Il tepore meccanico del computer, come un cagnolino fedele, mi sbavava sulle mani, mi imbeveva le dita e le scaldava fra le sue zampe sporche e tristi. Forse fuori pioveva: sentivo le gocce sibilare sulle tapparelle, sussurrare e sputare. Così vivida e umida, la pioggia. Mi sembrava di affogarci, di piombare nelle profondità ovattate di un oceano, di un prato di neve.

Troppo vivida.

Non mi spaventai nemmeno quando sentii le narici infiammate dall’acqua e i capelli vibrare come alghe, verdi, scure, molli, filiformi, dita di sguattera, dita di pianista, dita di puttana, ghirlande di Natale…

Listen, listen

“Margie, senti che carina ‘sta canzone.”

“Sei lunatica fino alla paranoia! Due secondi fa mi stavi per sbranare viva e adesso mi parli così?! Susa’, fai proprio paura.”

“Ma smettila, ché qui la paranoica sei tu! È bella, vero? È degli Evanescence, si chiama Listen to the rain.”

Listen, listen

Listen, listen

Listen to each drop of rain

“Stupenda… Me la devi passare! Che cazzo di gruppo sono gli Evanescence… Sono proprio bravi, a parte All that I living for.

“Ancora con questo fatto? Basta! Sei tu che non capisci niente!”. Risa.

“Ma dài, la cantante sembra un’assatanata tipo borderline quando canta quel pezzo!”

“Ma tu che ne puoi sapere, povera Margie, che sei figlia di un povero commerciante di articoli per la casa… Che triste triste condizione la tua!”. Altre risa, tante, cristalline.

“Ma smettila! Razzista di merda!”

“Dài, ché scherzo!”

Listen, listen

Finsi comunque che fosse la pioggia a frusciare e ad appannare i vetri e non qualche megabyte su un lettore MP3.

Ecco, ecco la storia! C’è scritto: [Capitoli: 4] Ha aggiornato!

Listen, listen

Desintonizzai i suoni del laboratorio, a parte il ronzio della ventola, il suo odore elettrico. E il fruscio… No, il fruscio non riuscivo ad eliminarlo.

Listen, listen

Pazienza, non era così sgradevole, anzi.

Ultimo capitolo. Bene, cliccai sul link.

Listen, listen

Listen, listen

Listen, listen

Aghi di pino fra le cosce. Fu quella la sensazione. Il cuore si liquefece, gocciolò copiosamente per un istante.

Goccia…

Listen, listen

… a…

Listen, listen

… goccia.

Listen, listen

   
 
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