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Autore: francy91    31/10/2009    2 recensioni
Light era morto. Carne umidiccia e flaccida inchiodata precaria-mente a qualche gruccia d’avorio – ossa flosce –, unghie opache, pelle grassa e oleosa, vescica svuotata, cosce bagnate e fetide, bocca asciutta e accartocciata. Come tutti, insomma.
Genere: Generale, Azione, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri personaggi
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Senza nome 1

Per la seconda volta, salve, lettori. Sono lietissima di aver ricevuto commenti intelligenti e analitici, ma, soprattutto, di aver cambiato qualcosa, benché minuscola, nella vostra giornata. Felice di avervi incontrati sul mio cammino virtuale, senza dubbio. Spero, dunque, che la lettura del capitolo precedente non sia stato per voi totalmente inutile; mi piacerebbe se avesse mosso qualcosa, o, almeno, se l’avesse fatta solo vibrare. Mmh, ringrazio i due gentili recensori: a Bael rispondo che tali sbalzi di ritmo – studiati o meno che siano XD – derivano spesso dal mio stesso ritmo respiratorio, che si rilassa o si elettrizza a seconda del coinvolgimento emotivo della sottoscritta. Davvero, non sto scherzando! Tendo a inserire molto di mio nelle mie storie, anche in questo senso. Insicurezza? Mancanza di creatività? Egocentrismo? A te l’ardua sentenza.

Per quanto concerne Fissie: sono onorata di questa tua considerazione del primo capitolo e, soprattutto, mi entusiasma immensamente il fatto che tu abbia compreso ciò che intendevo trasmettere: angoscia, paura, alienazione, ma allo stesso tempo immedesimazione. Come succede con Light, alla fine. Spero di incontrarti ancora su questa pagina, nonostante i pregi e i difetti della storia.

Infine, specifico che il libro L’eleganza del riccio, qui citato, esiste davvero, ma per ora non approfondirò a riguardo: in seguito tornerà nella storia. La canzone che ascolta Martino, inoltre, s’intitola Mr. Crowley, di Ozzy Osbourne, ma io preferisco quella interpretata da Yngwie Malmsteen e qualche altro dato anagrafico impronunciabile che mi sfugge, perdonatemi.

Buona lettura.

 

1.                   Arancione

 

L’eleganza del riccio.

Avevo letto questo titolo su un’anonima copertina di cartone e l’avevo trovato essenzialmente ridicolo. Cercai di ricordare quando fosse successo, Mi pare che sia stato ad aprile, quando ho accompagnato Aldo a Bari per comprare quegli orribili occhiali da sole. Eravamo passati da La Terza per dare un’occhiata alle novità librarie – Aldo, naturalmente, si era fermato a sbavare sulla copertina equivoca e poco discreta di Diario di una ninfomane. Cercavo La storia infinita da qualche settimana, quindi camminavo ingobbito per poter leggere i titoli di ogni copertina da circa mezz’ora.

L’eleganza del riccio.

Ecco, m’imbattei proprio in quel libro. Che titolo idiota. Ormai l’arte del sunto – compendiata nel titolo, appunto – era diventata un’asettica e frenetica prassi del marketing: surroga un dizionario e ottieni un libro, surroga un libro e ottieni una quarta di copertina, surroga una quarta di copertina e ottieni un titolo – che fosse bizzarro, ma nel limite della neutralità, era chiaro. Scopo di coloro che, nel temibile arsenale delle case editrici, guadagnavano più di un minatore che rischiava la vita ogni secondo era sottoporre all’occhio borghese del lettore un titolo serico ma incline all’assurdo, provvisto di termini setosi e riferimenti brutali, ossimori commercializzati in tot virgola novantanove centesimi di euro e codici a barre, accostamenti tendenti al baroccheggiante sfrontato e perverso.

Ebbene, quel titolo poteva essere perfettamente scomposto secondo tali criteri: eleganza - riccio, poesia e bruttezza, nobiltà e volgo, finezza e rusticità. Non che l’accorgimento semantico non fosse apprezzato, ma era del tutto privo di significato, come una campagna pubblicitaria da novecentomila euro per un pacchetto di chewing gum da cinquanta centesimi. Vuoto, uno spreco.

Mentre guardavo Alessandro coprire con sensibile successo la pelle unta e olivastra con il fondotinta, benché fosse già in ritardo di dieci minuti per la seconda campanella scolastica, si risvegliò in me il rimorso provato solo pochi mesi prima.

Che titolo idiota, avevo continuato a ripetermi, come un lamento puerile, come quando era sufficiente schiacciare i miei genitori a colpi di parole reiterate all’infinito, imperniando la mia ribellione sulla loro limitata pazienza, solo per ottenere sberle o vittoria, ma fuga in entrambi i casi.

Che titolo idiota che titolo idiota che titolo idiota che titolo idiota che titolo idiota che titolo idiota che titolo idiota che…

Un autoconvincimento sotto il giogo dell’autosoddisfazione. Un circolo vizioso, preludio dello squilibrio.

Era stato guardando le auto rimbalzare e galoppare sulle buche della statale 98 Bari-Rotunno che l’autosoddisfazione si era tramutata in autoironia: quel titolo era perfettamente sensato. Non logico, ma sensato.

L’eleganza del riccio.

Mi ero vergognato di non aver compreso la sottigliezza di quella metafora, ma le auto avevano continuato a trotterellare riflettendo la luce del sole come flash di una macchina fotografica. Non era la fine del mondo.

Frush… flash!

La bellezza si nasconde dovunque.

La bellezza è dovunque, intendendo è sia come predicato verbale che come copula.

Era questo il semplice significato nascosto – e, per questo, bello – del titolo e io l’avevo compreso troppo tardi.

Frush flash!

Ricordavo un’auto più veloce.

Mentre mi infilavo le scarpe senza allacciarle, ignorando il nodo ormai allentatosi, mi sovvenne un altro stralcio di ciò che avevo pensato allora: In effetti, i ricci appaiono brutti e irregolari, mentre sono gli esseri più completi e criptici del mondo animale.

Frush flash frush flash!

Anche la vecchia che spazza la strada sotto casa rovesciando secchi di acqua e detersivo sull’asfalto potrebbe risultare bella, in qualche modo. Quella speranza era stata un habitué della mia mente per qualche settimana, per poi isterilirsi, come qualsiasi aspettativa non adeguatamente nutrita.

Basta distaccarli dal loro rifugio e i ricci mostrano l’altro lato della loro esistenza, l’interno, la bellezza. La parte commestibile.

Già, schiodarli e aprirli. Attenzione alle spine, mi raccomando! Sembrava una squallida televendita di apri-ricci in plastica di bassa qualità – sempreché esistessero gli apri-ricci.

Bastava separare le persone dal loro ambiente naturale e queste diventavano belle, immaginai.

Bastava aprirle con le parole.

Proprio come i ricci.

Se stacchi i ricci da uno scoglio, dopo un po’ muoiono.

Bastava… ucciderle.

No, quel pensiero non apparteneva alle riflessioni di due mesi prima. Scacciai quel mormorio disobbediente, senza compiacermi, stranamente, delle mie riflessioni scombinate e devianti, e cominciai a giocherellare con gli occhiali, sentendo la nuca come strofinata da cartavetrata. Dei ringhi sommessi, una belva mal ammansita, catene… cigolano.

Scaraventai il diario, una penna, l’ottavo volume di Death Note, la PSP e il lettore MP3 nel mio logoro zaino Seven nero e celeste e, senza salutare mia madre che gridava contro mio fratello già alle otto e dieci di mattina, mi avviai verso l’istituto tecnico commerciale “Cesare Beccaria”, la mia fatiscente scuola arancione.

Attraversai la strada fra il cofano di un’Ape verdognola e la ruota anteriore di un motorino giallo, immobili per il traffico, e continuai a camminare placidamente per due isolati.

Godetti del suono dei clacson, tutti diversi, urlanti come ragazzine straziate… O entusiaste alla vista di occhiali da sole con la montatura rosa e lilla, fiere del proprio buon gusto e consapevoli del proprio fascino. Il mio piacere cessò quasi subito quando mi accorsi che, effettivamente, fra le pernacchie, i fischi e le grida nasali dei clacson, il normale limite dei decibel sopportabili da un comune essere umano era violato da urletti e risolini acutissimi, laceranti.

“Ilariaaa! Zaaao!”, gridò una voce femminile e infantile sul marciapiede opposto al mio. Non ci si poteva sbagliare: tono suadente e carezzevole, z al posto della c e della g dolci – dislessia? Malformazioni gutturali? Danni permanenti alla sezione della corteccia cerebrale adibita al linguaggio? O, semplicemente, desiderio patologico di apparire piccola, indifesa e vulnerabile per suscitare tenerezza, attrarre la propria preda e distruggerla? –, s morbosamente sibilante – idem –, emicrania imminente. Sì, si trattava proprio di Costanza, alias Cosssty. Sbuffai e mi ficcai bene le auricolari nelle orecchie per coprire il suo ciarlare finchè non sentii i timpani vibrare in modo decisamente malsano.

MISTER CROWLEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEY!, ululò il lettore MP3 con mio immenso sollievo; l’intro musicale mi riportò a un’atmosfera da Arancia meccanica: ultraviolenza, molova milk bar, raffinatezza, musica classica, contorsione... Statue di donne inginocchiate che versano latte + dalle tette, rammentai sognante. Per qualche secondo, il tempo di calpestare le strisce pedonali e scostare il cancello grigio scuro della scuola – ruggine o tinta naturale del ferro sporco di escrementi di piccione? Comunque fosse, faceva pendant con la strada macchiata di benzina – mi sentii come Alex DeLarge, alias 655321, che divorava con il suo sguardo bramoso e nevrotico Cosssty e Ilaria, le mie compagne di classe così graziose e insopportabili, mentre si abbracciavano e si baciavano sulle guance in modo da non toccarsi, per non rovinare il fondotinta roseo e stampare un paio di labbra vermiglie sul viso dell’altra. Mi vidi camminare languidamente, attraversare la strada con gli occhi chiari e spalancati di Alex, dissanguarle con un solo sorriso, circondare loro le spalle con le braccia e sussurrare: “Dolcezze, venite con lo zio Marty, vi divertirete!”. Le avrei portate nel sottoscale del mio condominio, nella stanza in fondo, quella in cui tutti gli inquilini conservavano le biciclette, le avrei stuprate allegramente, goduto dei loro strilletti patetici… Sì, le avrei ammirate, tremanti per il dolore, la paura e il freddo, il sangue che faceva bruciare loro gli occhi, il sangue annacquato dal sudore, il sangue assorbito dalla pietra porosa del pavimento… Avrei riso dei loro spasmi, della loro nauseante nudità, del loro cupo pallore. Sarei scoppiato a ridere sfigurandomi il volto, proprio come Light – o, magari, in modo leggermente più discreto, tanto per non essere sentito anche al quarto piano. Avrei inspirato l’odore acre della terra bagnata, della lordura liquida, del metallo, del colpo di grazia: le avrei annegate nella benzina, gliel’avrei fatta bere a sorsate dalle lattine da dieci litri sparse sulla pietra polverosa, gliel’avrei sparsa sulle ferite, come ne Le Iene di Quentin Tarantino, e poi… Poi avrei dato loro fuoco sul viso. Forse così avrebbero smesso di emettere quei risolini penosi.

Burn your face upon the chrome!, avrei urlato sulla loro pelle imbrunita e lucida imitando alla perfezione James Hetfield. Quasi sbavai per l’estasi.

A risvegliarmi fu un evento sinistro, quasi un presagio: un raggio di sole seghettato, filtrato attraverso le sbarre del cancello, m’infiammò a strisce la pelle del viso, bollente come non avrei mai immaginato: nonostante fosse il 10 giugno, il clima era squisitamente primaverile, sembrava marzo. Quasi per confermare le mie percezioni, la luce s’ingrigì sempre di più, impallidì fino a incupirsi in uno sbilenco riflesso lattiginoso. Come fuoco che muta in cenere.

Nel piccolo piazzale asfaltato, che fungeva da vassoio sudicio e pericolante al bignè all’arancia candita marcia che era la mia scuola, fra gli scooter usati degli studenti, il SUV bordeaux del preside e le automobili bisunte dei professori, scorsi circa tre centinaia di ragazzi e ragazze sedute sugli scalini, nelle rientranze del muro esterno, in piedi in cima alla rampa per i disabili, ciondolanti davanti alle porte d’entrata ingombre di avvisi scritti a mano su fogli A4. Almeno la metà fumava e gesticolava con ira, scherno, tenerezza o tutte e tre le cose contemporaneamente; alcuni ragazzoni portavano sulle spalle corpi puerili con vestitini che, piuttosto, parevano T-shirt un po’ troppo lunghe del normale, reggiseni frivoli resi magistralmente visibili dalla scollatura corrompente, con voci che strillavano: “Vaffanculo! Mettimi giù!”, ma con le gambe ben strette attorno alla vita dell’altro, in modo da incollare tutto l’incollabile alla sua schiena; infine, notai, procedendo verso l’entrata, che la maggior parte dei presenti esibiva un nutrito arsenale di bottiglie di plastica vuote. I gavettoni, riuscii a pensare senza vomitare la crostata alle ciliegie quietamente sbocconcellata a colazione.

Chi diceva che i riti non esistevano più? Anzi, erano anche troppi. L’ultimo giorno di scuola si doveva tornare a casa necessariamente fradici. Sbuffai freneticamente appena percepii le voci di Cosssty e Ilaria alle mie spalle.

“Zoè, ma hai visssto Franzesssco e Zovanni con tutte quelle bottiglie?! Zoè, mica ho intenzione di tornare a casssa tutta bagnata…”

“Infatti! Mi sa che mi firmo una giustifica falsa e esco alla seconda…”

Non era difficile immaginarle entrambe nel bagno delle ragazze mentre riempivano febbrilmente dieci damigiane da venti litri durante la ricreazione: era una ricostruzione più che veritiera, considerati i precedenti.

“Zao…”, mi salutò con voce distaccata e nasale Cosssty.

“Ciao.”, mormorò diffidente Ilaria, fingendosi spontanea, con una smorfia da scimmia quasi totalmente nascosta dalla kefiah. Mi passarono accanto descrivendo una curva abbastanza larga da evitare il contatto anche con l’aria che respiravo. Il ticchettio dei tacchi sull’asfalto mi parve quasi assordante e, per un istante, la visione dei loro due scheletri bruciacchiati e incastrati fra i cassettoni di un enorme armadio decrepito nel sottoscale mi tentò in modo quasi perverso.

Cercai di controllarmi, di interrompere definitivamente quella serie sempre più selvaggia e animalesca di… orgasmi… istantanei: mi resi appena conto di quanto fosse difficile arginare quei pensieri, quei colori così limpidi e luminosi, quei suoni esilaranti ed euforici, il sapore amaro e balsamico della cenere, la sua tonalità spenta e brillante, la sua fragranza rivoltante e soporifera… Come smettere di ascoltare una musica infernale, bella.

MISTER CROWLEEEEEEEEEEEEEEEEEEEY! mi proibì di origliare il mio stesso pensiero attraverso le corde e le urla del cantante: Ma che cazzo mi succede oggi?

“Ciao.”, masticai con la bocca impastata, ma Cosssty e Ilaria erano già a diaci metri da me, si separarono con un gesto quasi studiato, armonioso e affascinante, di cui, ovviamente, nessuno, men che meno esse stesse, si accorse; salutarono poche ragazze e una trentina di ragazzi dallo stile completamente opposto, ma accomunati dalla finzione, da un incartamento floreale e setoso e un nastrino liscio che ne assicurava la ferrea stabilità.

Le vidi fumare, sculettare e saltellare, meritarsi pacche sul sedere, lamentarsene e compiacersene nello stesso momento, fingersi stupide e diventarlo, imbronciarsi per essere consolate, incaponirsi per capricci infantili e ricompensare con premi che con il mondo bambinesco non avevano nulla in comune. Le vidi rendermi immensamente triste e imbarazzato al loro posto.

Sospirai: Provare pena per la gente serve solo a inorgoglirsi di sé stessi; che facciano le troie, è una loro scelta.

Raggiunsi la porta marrone di compensato della III D: era socchiusa, quindi la scostai e scaraventai lo zaino sul banco verde scuro; mi sfilai le auricolari e le scagliai con il lettore MP3 nella tasca anteriore della cartella. Infine, mugugnai un debole “Ciao” senza aspettarmi una risposta. Mi sedetti su una sedia dondolante e ipnotica, al primo banco laterale, proprio di fronte alla soglia e a ridosso del muro, ogni giorno più rigato da crepe mal celate dal reimbiancamento annuale. L’odore di varechina era insopportabile, benché mitigato da quello di polvere depositata da settimane sulla superficie di legno sotto il banco.

Davanti alla finestra, sulla parete opposta a quella a cui si poggiava il mio banco, si ergeva un’eterea barriera perforata in mille punti, una nube a tratti livida e cinerea: polvere di gesso emanata dal cassino e fumo proveniente dalle sigarette che alcuni ragazzi consumavano sul davanzale della piccola finestra, accalcati come numerosi criceti che cercano di uscire da un’apertura minuscola della gabbia. Quella nuvola brizzolata faceva apparire il cielo bigio persino più sporco di quanto fosse; mi pulii gli occhiali unti all’orlo della maglietta e mi guardai intorno.

Susanna Faretra (o, meglio, SuSaNnA fArErRa) torreggiava nella nebbiolina color pioggia acida come un obelisco egizio, con la sua stessa snellezza oblunga e dinoccolata; teneva una mano poggiata alla cornice lignea della lavagna, dondolandola lievemente, sovrappensiero: rimirava, con la schiena leggermente inarcata nella zona lombare, il disegno appena ricalcato con un minuscolo gessetto sulla superficie opaca, chiazzata da polverose macchie pallide. Finsi di fissare i faggi fuori dalla finestra e mi concentrai meglio per decifrare quella che, da lontano, sembrava un’indistinta nebulosa sulla lavagna. Pareva… un volto, forse. Mi alzai, dirigendomi verso la finestra semiaperta posta proprio accanto alla lavagna; il fumo mi faceva lacrimare gli occhi, come anche la polvere di gesso, a cui ero lievemente allergico. Mi grattai distrattamente il labbro superiore e sollevai gli occhiali sul dorso del naso con fare noncurante. Se avessi fischiettato con gli occhi per aria, forse, sarei stato anche più convincente. Sbuffai.

Quando fui abbastanza vicino alla lavagna da leggerne le curve ritratte, mi soffermai per un istante poggiando morbidamente il piede a terra e, dopo quell’attimo, procedetti al raggiungimento della finestra stranamente deserta e senza più aloni del solito.

Quasi magicamente, mi ritrovai a pensare, le particelle di gesso, da un caos  atavico, erano state… scosse da un ordinato Big Bang, le nebulose vacue si erano disgregate per ricombinarsi in tratti precisi e perfettamente sensati: un viso, un naso appuntito e ombreggiato al lato, una forma raffinata e fresca, occhi semichiusi, espressione affranta e rassegnata.

Light.

Avrei dovuto immaginarlo – e intuirlo – dalla faccia imbronciata e pallida di Susanna – o, almeno, più del solito.

Voltai le spalle alla finestra e alle tapparelle storte e poggiai i gomiti sul davanzale, fingendo di tenere d’occhio la porta. Roteai lo sguardo verso la lavagna: il volto disegnatovi galleggiò quasi tremolante – ma, forse, era solo l’effetto del gesso – sulla superficie, con qualche imperfezione nella distribuzione dei capelli sulla fronte di Light, appesantita dal poderoso fardello della vittoria incompresa.

Era semplicemente… un dio moribondo ed esausto. Come Prometeo, come Gesù Cristo. Come Bukowski e Giovanna D’Arco.

Susanna si stropicciò gli occhi con le mani ceree, ricordandosi troppo tardi del mascara; sbuffò: una nuvola di gesso si attorcigliò a spirale librandosi dalla lavagna, come foglie secche al vento d’autunno.

La maledissi mentalmente e tossii per via della polvere, ma, per fortuna, non ci fece caso e continuo a perfezionare il disegno con aria smarrita. Boku ga shinsekai no kami da, tratteggiò lentamente sotto il mento sottile di Light.

Strinsi il lobo dell’orecchio fra pollice e indice e riflettei sul probabile significato di quella frase, improvvisamente interessato. Boku ga vuol dire io, se non sbaglio. Ma certo, se Boku ga Kira da stava per Io sono Kira, era logico. Da era il verbo essere, quindi: Io sono. Sebbene mi sforzassi di recuperare altre frasi ascoltate negli stralci di puntate di Death Note visionate in lingua originale, oppure nelle mie brevi e noiose sessioni di gioco di FInal Fantasy, non fui capace di continuare.

Notai ancora alcuni piccoli caratteri accanto alla guancia destra di Light: は正義た. Riconobbi quasi subito i primi due ideogrammi, zpesso riproposti nei volumi del manga: Ki-ra.

Kira.

Distinsi anche l’ultimo carattere: da. Verbo essere.

Kira è, annotai mentalmente.

Gli altri due, escludendo la posposizione ga che determinava il soggetto della frase e, quindi, seguiva direttamente Kira, mi erano del tutto estranei; del resto, la mia conoscenza del giapponese si limitava, oltre a Death Note e a Final Fantasy, solo alle conferenze della Sony su Eyepet e God of War III e altri videogiochi provenienti dal Paese del Sol Levante, in cui i rappresentanti della società illustravano le caratteristiche dei loro prodotti in lingua originale.

Susanna si scosse la folta capigliatura riccia con una mano totalmente ricoperta di gesso e imprecò a bassa voce per essersi sporcata i capelli; in effetti, il risultato fu parecchio divertente: una ciocca che le ricadeva sulla fronte sembrava proveniente dalla barba di Silente. Immaginai l’incrocio genetico e grugnii ridendo.

Il lato posteriore della lavagna era affollato di frasi di polvere, lettere grandi e disordinate che si rimpicciolivano e accavallavano in modo sempre più frenetico verso i bordi e la sezione inferiore della superficie oscura.

 

Kimotsukete kami-sama wa miteru
Kurai yomichi wa te o tsunaide kudasai
Hitori de tooku ni ite mo
Itsumo mitsukedashite kureru
Shitteru koto wa
Zenbu oshiete kureru
Watashi ga oboete nakute mo
Nando de mo oshiete kureru
Demo zenbu wakatte shimattara
Dou sureba ii no?

 

Oh, Cristo. Patetico!

Mi affrettai ad allontanarmi e a ritornare alla mia sedia a pendolo – come la chiamavo, per via del movimento oscillatorio – liquidando quel momento d’interesse con un sospiro. Calma, non è il caso di infuriarsi per questo, mi sforzai di generare quel pensiero vibrante nella mia mente, come costringere i poli uguali di due calamite a toccarsi.

Scorsi Francesco e Giovanni entrare con zaini colmi di bottiglie – evidentemente chiuse alla bell’e meglio, visti gli aloni scuri che rendevano il tessuto rosso bordeaux – e osservai Khadija legarsi i capelli scurissimi – o, almeno, così apparivano controluce – nella fila centrale, attenta a non impigliare l’elastico ricoperto di sottili piume celesti e arancioni fra le mezzelune pendenti dalle orecchie, che sfioravano persino le sue spalle calde e nude. Sì, calde: quel colore ligneo riluceva di un calore genuino sulla sua pelle, simile ad una larga e soffice distesa di campi arati sotto un tiepido sole o al deserto marocchino all’imbrunire, proprio quello da cui proveniva Khadija, a quanto pareva.

SI voltò intercettando il mio sguardo con i suoi occhi della stessa tonalità della pelle, legno nudo della corteccia arrostito dal sole.

Gli occhi più belli che avessi mai visto: quelli di una traditrice, una corruttrice, una sporca provocatrice. Non mi sarei stupito di vederla inginocchiata sotto una cattedra con la testa ondeggiante solo per intascare un voto elevato da esibire ai genitori, o semplicemente per orgoglio personale. Ghignai a quel pensiero maligno e scostai il mio sguardo micidiale dal suo viso, che, in quel momento, mi parve lurido e imperfetto.

Quasi profeticamente, in quel momento giunse Aldo e poggiò le bottiglie poco discretamente cullate fra le braccia nude sul banco accanto al mio.

Ecco, appunto, pensai così violentemente che temetti di averlo borbottato.

“Ciao, Marti’!”, mi salutò con la sua grande mano affusolata.

“Ehi.”, mi limitai a ricambiare, quasi un sospiro, in realtà.

Volse il viso verso Khadija, come ogni mattina, che, intenta a prelevare dall’astuccio e selezionare o scartare i ventisette bracciali che avrebbe abbinato alle braccia color sabbia bagnata quel giorno, lo ignorò, compiaciuta. E, sempre come ogni mattina, Aldo virò verso la propria sedia, più stabile della mia, ma con la base pericolosamente concava verso il basso.

“Allora, quest’anno ci onorerai della tua presenza?”, domandò palesemente infastidito dalla frangia unta che gli pungeva le palpebre. Notai che il suo entusiasmo era precipitato, ma non me ne preoccupai, sorvolando su quel ridicolo pluralis maiestatis.

“Eh?”

“I gavettoni.”, m’informò. “Esci sempre dall’uscita secondaria della palestra ogni anno! Non credere che non me ne accorga.”, aggiunse facendo mostra di una spiccata varietà lessicale. Almeno i congiuntivi sono sopravvissuti al naufragio, pensai. Prepariamoci a commemorare i defunti.

“Direi di no. Se li ho evitati ogni anno, non vedo perché non dovrei farlo ora.”

“Perché è l’ultimo giorno di scuola!”, sgranò gli occhi grigi – lenti a contatto colorate usa e getta, complimenti – sinceramente sconcertato.

Sbuffai: odiavo discutere le mie decisioni.

“Lo era anche l’anno scorso e due anni fa. Senti, non mi piace questo genere di divertimenti, OK?”, chiarii, purtroppo consapevole che non sarebbe servito a niente.

“Tu non capisci.”. Si fermò per ammiccare a Cosssty, che trotterellava con le braccia stese in avanti come una sonnambula – la migliore delle ipotesi era che stesse facendo asciugare lo smalto rosa confetto sulle unghie. La ragazza gli sorrise mostrando un canino sfumato di rosso – la peggiore delle ipotesi per lei, in questo caso, era che si fosse sporcata con il rossetto e che, incredibilmente, il dettaglio le fosse sfuggito.

“Anch’io ero come te: non uscivo mai e mi rifugiavo nella vita virtuale e nei videogiochi, ma ora sono cambiato! Sono diverso e mi sento meglio!”, riprese Aldo con slancio, percorrendo il seno – per giunta esiguo – di Cosssty con gli occhi, producendo un buffo effetto pendolo, mentre le iridi grigie aderivano sempre più strette alla curva nera che le delimitava, come l’eclissi di un sole di fumo.

“Io non mi rifugio proprio da nessuna parte. Non mi piacciono questi giochetti coglioni e basta.”, sbottai esasperato e sfogliando il mio volume di Death Note.

“Che cazzo dici? Vedi che ora ti stai rifugiando in un manga stupido e infantile? E poi dici che…”.

Decisi di non ascoltarlo più. In realtà, mi sembrava più che sorprendente, dato che Aldo – Aldo De Pucci, quell’Aldo De Pucci, l’unico che, solo un anno prima, era riconosciuto come mio migliore amico, benché le classificazioni di quel tipo non mi si confacessero - disprezzasse non solo i manga – che aveva collezionato fin dalle elementari –, bensì persino Death Note, che mi aveva consigliato personalmente quasi con le lacrime agli occhi per l’ammirazione. Ma, ormai, non mi meravigliavo più del dovuto nei suoi riguardi: era la prova deambulante e – si presumeva – pensante che i cambiamenti radicali non erano solo fantasie di pubblicità di pillole dimagranti o serie TV basate su psicologi fasulli. Purtroppo, quanto ad Aldo, il mutamento era scivolato nel vuoto più abietto.

Ricominciai a giocherellare nervosamente con gli occhiali.

 

***

“Se ti ferma qualcuno all’entrata, digli che ti ho accompagnato io.”

Dopo una curva, che, sicuramente, aveva lasciato sulla strada le impronte scure e seghettate degli pneumatici, e qualche scossone, la Fiat Brava azzurra di suo padre si fermò vibrando nel cortile asfaltato della scuola.

“Mah, non credo che l’ultimo giorno di scuola segnino anche solo due minuti di ritardo.”, constatò Mariagrazia osservando i ragazzi che indugiavano a varcare la soglia dell’edificio. A malapena lo fanno durante il resto dell’anno scolastico, pensò con amarezza e gratitudine.

“E poi”, aggiunse aprendo la portella con uno scatto anomalo, “ho fatto ritardi peggiori. I professori mi conoscono.”, sorrise.

“Ciao, Pino!”, lo salutò.

“Ciao, pigna.”. Gli occhi di Giuseppe Cozzaglia si sollevarono verso lo specchietto retrovisore e le sue mani callose e abbronzate si posarono l’una sul volante, l’altra sul cambio dalla testa consunta e umidiccia.

Dopo due tentativi falliti, la portella, finalmente, si richiuse.

Tanto aspetterà che io entri e poi farà retromarcia, rimuginò Mariagrazia mentre si avviava verso il lato aperto delle porte.

Mentre si affrettava meccanicamente sulla rampa per i disabili, quasi scivolando sulla superficie liscia e ascendente che, a ben pensarci, sarebbe risultata più fatale di una serie di scalini senza strisce antiscivolo per qualsiasi individuo sulla sedia a rotelle, notò il professor Recchia proprio appoggiato al lato chiuso della porta, contro i fogli colmi di avvisi scritti a mano dal segretario.

“Buongiorno.”, lo salutò con un sorriso imbarazzato.

Il docente abbassò lo sguardo per individuare la sorgente di quel mormorio e allontanò dalle labbra sottili un bicchierino di carta colmo di caffè, per quanto si potesse notare dall’ombra nerastra sul fianco curvo della stoviglia improvvisata.

“Mariagra’, anche l’ultimo giorno di scuola sei in ritardo? Entra in classe prima che arrivi io, muoviti.”. Tossì con enfasi e ricominciò a bere mordendo rumorosamente il bordo del bicchiere.

“Grazie!”, rispose Mariagrazia sistemando più in basso l’orlo inferiore della maglietta sulla schiena. Emise un ridicolo risolino di gratitudine e sfrecciò via, accorgendosi appena dell’auto azzurra che sostava ancora nel parcheggio e che, proprio in quel momento, si mosse sinuosamente verso l’uscita.

Attraversò il corridoio di corsa, benché sapesse che Recchia sarebbe entrato solo quando fosse stato sicuro che lei fosse già in aula. Adoro quell’uomo! e lo ringrazio ancora una volta mentalmente.

In fondo al corridoio, la porta della III D era ancora aperta e, dallo squarcio rettangolare che offriva sull’aula, individuò la testa di Martino Manonera china su un volume dalla copertina morbida, di cartone sottile; scorse la sua espressione seria e contrariata, per qualche motivo, e sorrise: Come fa ad avere sempre quella faccia? Non si arrabbia mai? Non trova niente di divertente da nessuna parte? Certo che organizzare i propri tratti facciali in modo così litico e preciso dev’essere proprio faticoso…, rifletté come ogni mattina. In tre anni di scuola trascorsi nella stessa classe, l’aveva visto poche volte ridere e sorridere, ma non se n’era mai preoccupata: era un ragazzo silenzioso e riservato, sicuramente troppo timido e insicuro per esprimere tutto il piacere che provava a contatto con gli altri, soprattutto con la sua classe.

Sì, doveva essere così.

E, infatti, lo capiva perfettamente, perché anche lei si riteneva introversa e piuttosto schiva e comprendeva che le forzature e la compassione altrui non facevano  che acuire il suo imbarazzo.

Varcò l’uscio e voltò la testa a destra: era sicura di trovare Susanna davanti alla lavagna e, infatti, la individuò proprio lì.

 

***

Istinto omicida, un’altra volta. Sì, proprio come quella puntata di Death Note. Rabbrividii di rabbia. Più del solito.

Cazzo, pensai.

Già, cazzo! Cosa mi stava accadendo? Avevo sopportato così bene i miei intollerabili compagni di classe per tre anni, non avrei potuto distruggere tutto in un giorno.

Tutta colpa di Aldo.

Continuai a sfogliare il volume del manga con nonchalance e placidità, mentre la testa mi girava per la furia che minacciava di strapparmi via gli organi dall’interno. Mi ritrovai a pensare che avrei dovuto ucciderli tutti con un qualche cazzo di quaderno magico, se fosse esistito.

Deglutii mordendomi la punta della lingua.

Per fortuna, non esisteva nulla del genere.


 

   
 
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