Per la seconda volta,
salve, lettori. Sono lietissima di aver ricevuto commenti intelligenti e
analitici, ma, soprattutto, di aver cambiato qualcosa, benché minuscola, nella
vostra giornata. Felice di avervi incontrati sul mio cammino virtuale, senza
dubbio. Spero, dunque, che la lettura del capitolo precedente non sia stato per
voi totalmente inutile; mi piacerebbe se avesse mosso qualcosa, o, almeno, se
l’avesse fatta solo vibrare. Mmh, ringrazio i due gentili recensori: a Bael
rispondo che tali sbalzi di ritmo – studiati o meno che siano XD – derivano
spesso dal mio stesso ritmo respiratorio, che si rilassa o si elettrizza a
seconda del coinvolgimento emotivo della sottoscritta. Davvero, non sto
scherzando! Tendo a inserire molto di mio nelle mie storie, anche in questo
senso. Insicurezza? Mancanza di creatività? Egocentrismo? A te l’ardua sentenza.
Per quanto concerne
Fissie: sono onorata di questa tua considerazione del primo capitolo e,
soprattutto, mi entusiasma immensamente il fatto che tu abbia compreso ciò che
intendevo trasmettere: angoscia, paura, alienazione, ma allo stesso tempo
immedesimazione. Come succede con Light, alla fine. Spero di incontrarti ancora
su questa pagina, nonostante i pregi e i difetti della storia.
Infine, specifico che il
libro L’eleganza del riccio, qui
citato, esiste davvero, ma per ora non approfondirò a riguardo: in seguito
tornerà nella storia. La canzone che ascolta Martino, inoltre, s’intitola
Mr. Crowley, di Ozzy Osbourne, ma io
preferisco quella interpretata da Yngwie Malmsteen e qualche altro dato
anagrafico impronunciabile che mi sfugge, perdonatemi.
Buona lettura.
1.
Arancione
L’eleganza del riccio.
Avevo
letto questo titolo su un’anonima copertina di cartone e l’avevo trovato
essenzialmente ridicolo. Cercai di ricordare quando fosse successo,
Mi pare che sia stato ad aprile, quando ho
accompagnato Aldo a Bari per comprare quegli orribili occhiali da sole.
Eravamo passati da La Terza per dare un’occhiata alle novità librarie – Aldo,
naturalmente, si era fermato a sbavare sulla copertina equivoca e poco discreta
di Diario di una ninfomane. Cercavo
La storia infinita da qualche
settimana, quindi camminavo ingobbito per poter leggere i titoli di ogni
copertina da circa mezz’ora.
L’eleganza del riccio.
Ecco,
m’imbattei proprio in quel libro. Che
titolo idiota. Ormai l’arte del sunto – compendiata nel titolo, appunto –
era diventata un’asettica e frenetica prassi del marketing: surroga un
dizionario e ottieni un libro, surroga un libro e ottieni una quarta di
copertina, surroga una quarta di copertina e ottieni un titolo – che fosse
bizzarro, ma nel limite della neutralità, era chiaro. Scopo di coloro che, nel
temibile arsenale delle case editrici, guadagnavano più di un minatore che
rischiava la vita ogni secondo era sottoporre all’occhio borghese del lettore un
titolo serico ma incline all’assurdo, provvisto di termini setosi e riferimenti
brutali, ossimori commercializzati in tot virgola novantanove centesimi di euro
e codici a barre, accostamenti tendenti al baroccheggiante sfrontato e perverso.
Ebbene,
quel titolo poteva essere perfettamente scomposto secondo tali criteri:
eleganza - riccio, poesia e bruttezza, nobiltà e volgo, finezza e
rusticità. Non che l’accorgimento semantico non fosse apprezzato, ma era del
tutto privo di significato, come una campagna pubblicitaria da novecentomila
euro per un pacchetto di chewing gum da cinquanta centesimi. Vuoto, uno spreco.
Mentre
guardavo Alessandro coprire con sensibile successo la pelle unta e olivastra con
il fondotinta, benché fosse già in ritardo di dieci minuti per la seconda
campanella scolastica, si risvegliò in me il rimorso provato solo pochi mesi
prima.
Che titolo idiota,
avevo continuato a ripetermi, come un lamento puerile, come quando era
sufficiente schiacciare i miei genitori a colpi di parole reiterate
all’infinito, imperniando la mia ribellione sulla loro limitata pazienza, solo
per ottenere sberle o vittoria, ma fuga in entrambi i casi.
Che titolo idiota che titolo idiota che titolo idiota che titolo idiota che
titolo idiota che titolo idiota che titolo idiota che…
Un
autoconvincimento sotto il giogo dell’autosoddisfazione. Un circolo vizioso, preludio dello squilibrio.
Era stato
guardando le auto rimbalzare e galoppare sulle buche della statale 98
Bari-Rotunno che l’autosoddisfazione
si era tramutata in autoironia: quel
titolo era perfettamente sensato. Non logico, ma sensato.
L’eleganza del riccio.
Mi ero
vergognato di non aver compreso la sottigliezza di quella metafora, ma le auto
avevano continuato a trotterellare riflettendo la luce del sole come flash di
una macchina fotografica. Non era la fine del mondo.
Frush…
flash!
La bellezza si nasconde dovunque.
La bellezza è dovunque, intendendo
è sia come predicato verbale che come copula.
Era questo
il semplice significato nascosto – e, per questo, bello – del titolo e io
l’avevo compreso troppo tardi.
Frush
flash!
Ricordavo
un’auto più veloce.
Mentre mi
infilavo le scarpe senza allacciarle, ignorando il nodo ormai allentatosi, mi
sovvenne un altro stralcio di ciò che avevo pensato allora:
In effetti, i ricci appaiono brutti e
irregolari, mentre sono gli esseri più completi e criptici del mondo animale.
Frush
flash frush flash!
Anche la vecchia che spazza la strada sotto casa rovesciando secchi di acqua e
detersivo sull’asfalto potrebbe risultare bella, in qualche modo.
Quella speranza era stata un habitué della mia mente per qualche settimana, per
poi isterilirsi, come qualsiasi aspettativa non adeguatamente nutrita.
Basta distaccarli dal loro rifugio e i ricci mostrano l’altro lato della loro
esistenza, l’interno, la bellezza. La parte commestibile.
Già,
schiodarli e aprirli. Attenzione alle
spine, mi raccomando! Sembrava una squallida televendita di apri-ricci in
plastica di bassa qualità – sempreché esistessero gli apri-ricci.
Bastava
separare le persone dal loro ambiente naturale e queste diventavano belle,
immaginai.
Bastava
aprirle con le parole.
Proprio
come i ricci.
Se stacchi i ricci da uno scoglio, dopo un po’ muoiono.
Bastava…
ucciderle.
No, quel
pensiero non apparteneva alle riflessioni di due mesi prima. Scacciai quel
mormorio disobbediente, senza compiacermi, stranamente, delle mie riflessioni
scombinate e devianti, e cominciai a giocherellare con gli occhiali, sentendo la
nuca come strofinata da cartavetrata. Dei ringhi sommessi, una belva mal
ammansita, catene… cigolano.
Scaraventai il diario, una penna, l’ottavo volume di
Death Note, la PSP e il lettore MP3
nel mio logoro zaino Seven nero e celeste e, senza salutare mia madre che
gridava contro mio fratello già alle otto e dieci di mattina, mi avviai verso
l’istituto tecnico commerciale “Cesare Beccaria”, la mia fatiscente scuola
arancione.
Attraversai la strada fra il cofano di un’Ape verdognola e la ruota anteriore di
un motorino giallo, immobili per il traffico, e continuai a camminare
placidamente per due isolati.
Godetti
del suono dei clacson, tutti diversi, urlanti come ragazzine straziate… O
entusiaste alla vista di occhiali da sole con la montatura rosa e lilla, fiere
del proprio buon gusto e consapevoli del proprio fascino. Il mio piacere cessò
quasi subito quando mi accorsi che, effettivamente, fra le pernacchie, i fischi
e le grida nasali dei clacson, il normale limite dei decibel sopportabili da un
comune essere umano era violato da urletti e risolini acutissimi, laceranti.
“Ilariaaa!
Zaaao!”, gridò una voce femminile e infantile sul marciapiede opposto al mio.
Non ci si poteva sbagliare: tono suadente e carezzevole,
z al posto della
c e della
g dolci – dislessia? Malformazioni
gutturali? Danni permanenti alla sezione della corteccia cerebrale adibita al
linguaggio? O, semplicemente, desiderio patologico di apparire piccola, indifesa
e vulnerabile per suscitare tenerezza, attrarre la propria preda e distruggerla?
–, s morbosamente sibilante – idem –,
emicrania imminente. Sì, si trattava proprio di Costanza, alias Cosssty. Sbuffai
e mi ficcai bene le auricolari nelle orecchie per coprire il suo ciarlare finchè
non sentii i timpani vibrare in modo decisamente malsano.
MISTER CROWLEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEY!, ululò il
lettore MP3 con mio immenso sollievo; l’intro musicale mi riportò a un’atmosfera
da Arancia meccanica: ultraviolenza,
molova milk bar, raffinatezza, musica classica, contorsione...
Statue di donne inginocchiate che versano latte + dalle tette,
rammentai sognante. Per qualche secondo, il tempo di calpestare le strisce
pedonali e scostare il cancello grigio scuro della scuola – ruggine o tinta
naturale del ferro sporco di escrementi di piccione? Comunque fosse, faceva
pendant con la strada macchiata di benzina – mi sentii come Alex DeLarge, alias
655321, che divorava con il suo sguardo bramoso e nevrotico Cosssty e Ilaria, le
mie compagne di classe così graziose e
insopportabili, mentre si abbracciavano e si baciavano sulle guance in modo da
non toccarsi, per non rovinare il fondotinta roseo e stampare un paio di labbra
vermiglie sul viso dell’altra. Mi vidi camminare languidamente, attraversare la
strada con gli occhi chiari e spalancati di Alex, dissanguarle con un solo
sorriso, circondare loro le spalle con le braccia e sussurrare: “Dolcezze,
venite con lo zio Marty, vi divertirete!”. Le avrei portate nel sottoscale del
mio condominio, nella stanza in fondo, quella in cui tutti gli inquilini
conservavano le biciclette, le avrei stuprate allegramente, goduto dei loro
strilletti patetici… Sì, le avrei ammirate, tremanti per il dolore, la paura e
il freddo, il sangue che faceva bruciare loro gli occhi, il sangue annacquato
dal sudore, il sangue assorbito dalla pietra porosa del pavimento… Avrei riso
dei loro spasmi, della loro nauseante nudità, del loro cupo pallore. Sarei
scoppiato a ridere sfigurandomi il volto, proprio come Light – o, magari, in
modo leggermente più discreto, tanto per non essere sentito anche al quarto
piano. Avrei inspirato l’odore acre della terra bagnata, della lordura liquida,
del metallo, del colpo di grazia: le avrei annegate nella benzina, gliel’avrei
fatta bere a sorsate dalle lattine da dieci litri sparse sulla pietra polverosa,
gliel’avrei sparsa sulle ferite, come ne Le Iene di Quentin Tarantino, e poi… Poi avrei dato loro fuoco sul
viso. Forse così avrebbero smesso di emettere quei risolini penosi.
Burn your face upon the chrome!, avrei urlato sulla
loro pelle imbrunita e lucida imitando alla perfezione James Hetfield. Quasi
sbavai per l’estasi.
A
risvegliarmi fu un evento sinistro, quasi un presagio: un raggio di sole
seghettato, filtrato attraverso le sbarre del cancello, m’infiammò a strisce la
pelle del viso, bollente come non avrei mai immaginato: nonostante fosse il 10
giugno, il clima era squisitamente primaverile, sembrava marzo. Quasi per
confermare le mie percezioni, la luce s’ingrigì sempre di più, impallidì fino a
incupirsi in uno sbilenco riflesso lattiginoso.
Come fuoco che muta in cenere.
Nel
piccolo piazzale asfaltato, che fungeva da vassoio sudicio e pericolante al
bignè all’arancia candita marcia che era la mia scuola, fra gli scooter usati
degli studenti, il SUV bordeaux del preside e le automobili bisunte dei
professori, scorsi circa tre centinaia di ragazzi e ragazze sedute sugli
scalini, nelle rientranze del muro esterno, in piedi in cima alla rampa per i
disabili, ciondolanti davanti alle porte d’entrata ingombre di avvisi scritti a
mano su fogli A4. Almeno la metà fumava e gesticolava con ira, scherno,
tenerezza o tutte e tre le cose contemporaneamente; alcuni ragazzoni portavano
sulle spalle corpi puerili con vestitini che, piuttosto, parevano T-shirt un po’
troppo lunghe del normale, reggiseni frivoli resi magistralmente visibili dalla
scollatura corrompente, con voci che strillavano: “Vaffanculo! Mettimi giù!”, ma
con le gambe ben strette attorno alla vita dell’altro, in modo da incollare
tutto l’incollabile alla sua schiena; infine, notai, procedendo verso l’entrata,
che la maggior parte dei presenti esibiva un nutrito arsenale di bottiglie di
plastica vuote. I gavettoni, riuscii a
pensare senza vomitare la crostata alle ciliegie quietamente sbocconcellata a
colazione.
Chi diceva
che i riti non esistevano più? Anzi, erano anche troppi. L’ultimo giorno di
scuola si doveva tornare a casa necessariamente fradici. Sbuffai freneticamente
appena percepii le voci di Cosssty e Ilaria alle mie spalle.
“Zoè, ma
hai visssto Franzesssco e Zovanni con tutte quelle bottiglie?! Zoè, mica ho
intenzione di tornare a casssa tutta bagnata…”
“Infatti!
Mi sa che mi firmo una giustifica falsa e esco alla seconda…”
Non era
difficile immaginarle entrambe nel bagno delle ragazze mentre riempivano
febbrilmente dieci damigiane da venti litri durante la ricreazione: era una
ricostruzione più che veritiera, considerati i precedenti.
“Zao…”, mi
salutò con voce distaccata e nasale Cosssty.
“Ciao.”,
mormorò diffidente Ilaria, fingendosi spontanea, con una smorfia da scimmia
quasi totalmente nascosta dalla kefiah. Mi passarono accanto descrivendo una
curva abbastanza larga da evitare il contatto anche con l’aria che respiravo. Il
ticchettio dei tacchi sull’asfalto mi parve quasi assordante e, per un istante,
la visione dei loro due scheletri bruciacchiati e incastrati fra i cassettoni di
un enorme armadio decrepito nel sottoscale mi tentò in modo quasi perverso.
Cercai di
controllarmi, di interrompere definitivamente quella serie sempre più selvaggia
e animalesca di… orgasmi… istantanei: mi resi appena conto di quanto fosse
difficile arginare quei pensieri, quei colori così limpidi e luminosi, quei
suoni esilaranti ed euforici, il sapore amaro e balsamico della cenere, la sua
tonalità spenta e brillante, la sua fragranza rivoltante e soporifera…
Come smettere di ascoltare una musica infernale, bella.
MISTER CROWLEEEEEEEEEEEEEEEEEEEY! mi proibì di
origliare il mio stesso pensiero attraverso le corde e le urla del cantante:
Ma che cazzo mi succede oggi?
“Ciao.”,
masticai con la bocca impastata, ma Cosssty e Ilaria erano già a diaci metri da
me, si separarono con un gesto quasi studiato, armonioso e affascinante, di cui,
ovviamente, nessuno, men che meno esse stesse, si accorse; salutarono poche
ragazze e una trentina di ragazzi dallo stile completamente opposto, ma
accomunati dalla finzione, da un incartamento floreale e setoso e un nastrino
liscio che ne assicurava la ferrea stabilità.
Le vidi
fumare, sculettare e saltellare, meritarsi pacche sul sedere, lamentarsene e
compiacersene nello stesso momento, fingersi stupide e diventarlo, imbronciarsi
per essere consolate, incaponirsi per capricci infantili e ricompensare con
premi che con il mondo bambinesco non avevano nulla in comune. Le vidi rendermi
immensamente triste e imbarazzato al loro posto.
Sospirai:
Provare pena per la gente serve solo a
inorgoglirsi di sé stessi; che facciano le troie, è una loro scelta.
Raggiunsi
la porta marrone di compensato della III D: era socchiusa, quindi la scostai e
scaraventai lo zaino sul banco verde scuro; mi sfilai le auricolari e le
scagliai con il lettore MP3 nella tasca anteriore della cartella. Infine,
mugugnai un debole “Ciao” senza aspettarmi una risposta. Mi sedetti su una sedia
dondolante e ipnotica, al primo banco laterale, proprio di fronte alla soglia e
a ridosso del muro, ogni giorno più rigato da crepe mal celate dal
reimbiancamento annuale. L’odore di varechina era insopportabile, benché
mitigato da quello di polvere depositata da settimane sulla superficie di legno
sotto il banco.
Davanti
alla finestra, sulla parete opposta a quella a cui si poggiava il mio banco, si
ergeva un’eterea barriera perforata in mille punti, una nube a tratti livida e
cinerea: polvere di gesso emanata dal cassino e fumo proveniente dalle sigarette
che alcuni ragazzi consumavano sul davanzale della piccola finestra, accalcati
come numerosi criceti che cercano di uscire da un’apertura minuscola della
gabbia. Quella nuvola brizzolata faceva apparire il cielo bigio persino più
sporco di quanto fosse; mi pulii gli occhiali unti all’orlo della maglietta e mi
guardai intorno.
Susanna
Faretra (o, meglio, SuSaNnA fArErRa) torreggiava nella nebbiolina color pioggia
acida come un obelisco egizio, con la sua stessa snellezza oblunga e
dinoccolata; teneva una mano poggiata alla cornice lignea della lavagna,
dondolandola lievemente, sovrappensiero: rimirava, con la schiena leggermente
inarcata nella zona lombare, il disegno appena ricalcato con un minuscolo
gessetto sulla superficie opaca, chiazzata da polverose macchie pallide. Finsi
di fissare i faggi fuori dalla finestra e mi concentrai meglio per decifrare
quella che, da lontano, sembrava un’indistinta nebulosa sulla lavagna. Pareva…
un volto, forse. Mi alzai, dirigendomi verso la finestra semiaperta posta
proprio accanto alla lavagna; il fumo mi faceva lacrimare gli occhi, come anche
la polvere di gesso, a cui ero lievemente allergico. Mi grattai distrattamente
il labbro superiore e sollevai gli occhiali sul dorso del naso con fare
noncurante. Se avessi fischiettato con gli occhi per aria, forse, sarei stato
anche più convincente. Sbuffai.
Quando fui
abbastanza vicino alla lavagna da leggerne le curve ritratte, mi soffermai per
un istante poggiando morbidamente il piede a terra e, dopo quell’attimo,
procedetti al raggiungimento della finestra stranamente deserta e senza più
aloni del solito.
Quasi
magicamente, mi ritrovai a pensare, le particelle di gesso, da un caos
atavico, erano state… scosse da un ordinato Big Bang, le nebulose vacue
si erano disgregate per ricombinarsi in tratti precisi e perfettamente sensati:
un viso, un naso appuntito e ombreggiato al lato, una forma raffinata e fresca,
occhi semichiusi, espressione affranta e rassegnata.
Light.
Avrei
dovuto immaginarlo – e intuirlo – dalla faccia imbronciata e pallida di Susanna
– o, almeno, più del solito.
Voltai le
spalle alla finestra e alle tapparelle storte e poggiai i gomiti sul davanzale,
fingendo di tenere d’occhio la porta. Roteai lo sguardo verso la lavagna: il
volto disegnatovi galleggiò quasi tremolante – ma, forse, era solo l’effetto del
gesso – sulla superficie, con qualche imperfezione nella distribuzione dei
capelli sulla fronte di Light, appesantita dal poderoso fardello della vittoria
incompresa.
Era
semplicemente… un dio moribondo ed esausto. Come Prometeo, come Gesù Cristo.
Come Bukowski e Giovanna D’Arco.
Susanna si
stropicciò gli occhi con le mani ceree, ricordandosi troppo tardi del mascara;
sbuffò: una nuvola di gesso si attorcigliò a spirale librandosi dalla lavagna,
come foglie secche al vento d’autunno.
La
maledissi mentalmente e tossii per via della polvere, ma, per fortuna, non ci
fece caso e continuo a perfezionare il disegno con aria smarrita.
Boku ga shinsekai no kami da,
tratteggiò lentamente sotto il mento sottile di Light.
Strinsi il
lobo dell’orecchio fra pollice e indice e riflettei sul probabile significato di
quella frase, improvvisamente interessato. Boku ga
vuol dire io, se non sbaglio. Ma
certo, se Boku ga Kira da stava per
Io sono Kira, era logico.
Da era il verbo
essere, quindi: Io sono.
Sebbene mi sforzassi di recuperare altre frasi ascoltate negli stralci di
puntate di Death Note visionate in
lingua originale, oppure nelle mie brevi e noiose sessioni di gioco di
FInal Fantasy, non fui capace di
continuare.
Notai
ancora alcuni piccoli caratteri accanto alla guancia destra di Light:
キラは正義た.
Riconobbi quasi subito i primi due ideogrammi, zpesso riproposti nei volumi del
manga: Ki-ra.
Kira.
Distinsi anche l’ultimo carattere:
da. Verbo
essere.
Kira è,
annotai mentalmente.
Gli altri due, escludendo la
posposizione ga che determinava il
soggetto della frase e, quindi, seguiva direttamente
Kira, mi erano del tutto estranei; del
resto, la mia conoscenza del giapponese si limitava, oltre a
Death Note e a
Final Fantasy, solo alle conferenze
della Sony su Eyepet e
God of War III e altri videogiochi
provenienti dal Paese del Sol Levante, in cui i rappresentanti della società
illustravano le caratteristiche dei loro prodotti in lingua originale.
Susanna si scosse la folta
capigliatura riccia con una mano totalmente ricoperta di gesso e imprecò a bassa
voce per essersi sporcata i capelli; in effetti, il risultato fu parecchio
divertente: una ciocca che le ricadeva sulla fronte sembrava proveniente dalla
barba di Silente. Immaginai l’incrocio genetico e grugnii ridendo.
Il lato posteriore della lavagna era
affollato di frasi di polvere, lettere grandi e disordinate che si
rimpicciolivano e accavallavano in modo sempre più frenetico verso i bordi e la
sezione inferiore della superficie oscura.
Kimotsukete kami-sama
wa miteru
Kurai yomichi wa te o tsunaide kudasai
Hitori de tooku ni ite mo
Itsumo mitsukedashite kureru
Shitteru koto wa
Zenbu oshiete kureru
Watashi ga oboete nakute mo
Nando de mo oshiete kureru
Demo zenbu wakatte shimattara
Dou sureba ii no?
Oh, Cristo. Patetico!
Mi affrettai ad allontanarmi e a
ritornare alla mia sedia a pendolo – come la chiamavo, per via del movimento
oscillatorio – liquidando quel momento d’interesse con un sospiro.
Calma, non è il caso di infuriarsi per questo, mi sforzai di
generare quel pensiero vibrante nella mia mente, come costringere i poli uguali
di due calamite a toccarsi.
Scorsi Francesco e Giovanni entrare
con zaini colmi di bottiglie – evidentemente chiuse alla bell’e meglio, visti
gli aloni scuri che rendevano il tessuto rosso bordeaux – e osservai Khadija
legarsi i capelli scurissimi – o, almeno, così apparivano controluce – nella
fila centrale, attenta a non impigliare l’elastico ricoperto di sottili piume
celesti e arancioni fra le mezzelune pendenti dalle orecchie, che sfioravano
persino le sue spalle calde e nude. Sì, calde: quel colore ligneo riluceva di un
calore genuino sulla sua pelle, simile ad una larga e soffice distesa di campi
arati sotto un tiepido sole o al deserto marocchino all’imbrunire, proprio
quello da cui proveniva Khadija, a quanto pareva.
SI voltò intercettando il mio
sguardo con i suoi occhi della stessa tonalità della pelle, legno nudo della
corteccia arrostito dal sole.
Gli occhi più belli che avessi mai
visto: quelli di una traditrice, una corruttrice, una sporca provocatrice. Non
mi sarei stupito di vederla inginocchiata sotto una cattedra con la testa
ondeggiante solo per intascare un voto elevato da esibire ai genitori, o
semplicemente per orgoglio personale. Ghignai a quel pensiero maligno e scostai
il mio sguardo micidiale dal suo viso, che, in quel momento, mi parve lurido e
imperfetto.
Quasi profeticamente, in quel
momento giunse Aldo e poggiò le bottiglie poco discretamente cullate fra le
braccia nude sul banco accanto al mio.
Ecco, appunto,
pensai così violentemente che temetti di averlo borbottato.
“Ciao, Marti’!”, mi salutò con la
sua grande mano affusolata.
“Ehi.”, mi limitai a ricambiare,
quasi un sospiro, in realtà.
Volse il viso verso Khadija, come
ogni mattina, che, intenta a prelevare dall’astuccio e selezionare o scartare i
ventisette bracciali che avrebbe abbinato alle braccia color sabbia bagnata quel
giorno, lo ignorò, compiaciuta. E, sempre come ogni mattina, Aldo virò verso la
propria sedia, più stabile della mia, ma con la base pericolosamente concava
verso il basso.
“Allora, quest’anno ci onorerai
della tua presenza?”, domandò palesemente infastidito dalla frangia unta che gli
pungeva le palpebre. Notai che il suo entusiasmo era precipitato, ma non me ne
preoccupai, sorvolando su quel ridicolo
pluralis maiestatis.
“Eh?”
“I gavettoni.”, m’informò. “Esci
sempre dall’uscita secondaria della palestra ogni anno! Non credere che non me
ne accorga.”, aggiunse facendo mostra di una spiccata varietà lessicale.
Almeno i congiuntivi sono sopravvissuti al
naufragio, pensai. Prepariamoci a
commemorare i defunti.
“Direi di no. Se li ho evitati ogni
anno, non vedo perché non dovrei farlo ora.”
“Perché è l’ultimo giorno di
scuola!”, sgranò gli occhi grigi – lenti a contatto colorate usa e getta,
complimenti – sinceramente sconcertato.
Sbuffai: odiavo discutere le mie
decisioni.
“Lo era anche l’anno scorso e due
anni fa. Senti, non mi piace questo genere di divertimenti, OK?”, chiarii,
purtroppo consapevole che non sarebbe servito a niente.
“Tu non capisci.”. Si fermò per
ammiccare a Cosssty, che trotterellava con le braccia stese in avanti come una
sonnambula – la migliore delle ipotesi era che stesse facendo asciugare lo
smalto rosa confetto sulle unghie. La ragazza gli sorrise mostrando un canino
sfumato di rosso – la peggiore delle ipotesi per lei, in questo caso, era che si
fosse sporcata con il rossetto e che, incredibilmente, il dettaglio le fosse
sfuggito.
“Anch’io ero come te: non uscivo mai
e mi rifugiavo nella vita virtuale e nei videogiochi, ma ora sono cambiato! Sono
diverso e mi sento meglio!”, riprese Aldo con slancio, percorrendo il seno – per
giunta esiguo – di Cosssty con gli occhi, producendo un buffo effetto pendolo,
mentre le iridi grigie aderivano sempre più strette alla curva nera che le
delimitava, come l’eclissi di un sole di fumo.
“Io non mi rifugio proprio da
nessuna parte. Non mi piacciono questi giochetti coglioni e basta.”, sbottai
esasperato e sfogliando il mio volume di
Death Note.
“Che cazzo dici? Vedi che ora ti
stai rifugiando in un manga stupido e infantile? E poi dici che…”.
Decisi di non ascoltarlo più. In
realtà, mi sembrava più che sorprendente, dato che Aldo – Aldo De Pucci,
quell’Aldo De Pucci, l’unico che, solo
un anno prima, era riconosciuto come mio migliore amico, benché le
classificazioni di quel tipo non mi si confacessero - disprezzasse non solo i
manga – che aveva collezionato fin dalle elementari –, bensì persino
Death Note, che mi aveva consigliato
personalmente quasi con le lacrime agli occhi per l’ammirazione. Ma, ormai, non
mi meravigliavo più del dovuto nei suoi riguardi: era la prova deambulante e –
si presumeva – pensante che i cambiamenti radicali non erano solo fantasie di
pubblicità di pillole dimagranti o serie TV basate su psicologi fasulli.
Purtroppo, quanto ad Aldo, il mutamento era scivolato nel vuoto più abietto.
Ricominciai a giocherellare
nervosamente con gli occhiali.
***
“Se ti ferma qualcuno all’entrata,
digli che ti ho accompagnato io.”
Dopo una curva, che, sicuramente,
aveva lasciato sulla strada le impronte scure e seghettate degli pneumatici, e
qualche scossone, la Fiat Brava azzurra di suo padre si fermò vibrando nel
cortile asfaltato della scuola.
“Mah, non credo che l’ultimo giorno
di scuola segnino anche solo due minuti di ritardo.”, constatò Mariagrazia
osservando i ragazzi che indugiavano a varcare la soglia dell’edificio.
A malapena lo fanno durante il resto dell’anno scolastico, pensò con
amarezza e gratitudine.
“E poi”, aggiunse aprendo la
portella con uno scatto anomalo, “ho fatto ritardi peggiori. I professori mi
conoscono.”, sorrise.
“Ciao, Pino!”, lo salutò.
“Ciao, pigna.”. Gli occhi di
Giuseppe Cozzaglia si sollevarono verso lo specchietto retrovisore e le sue mani
callose e abbronzate si posarono l’una sul volante, l’altra sul cambio dalla
testa consunta e umidiccia.
Dopo due tentativi falliti, la
portella, finalmente, si richiuse.
Tanto aspetterà che io entri e poi farà retromarcia, rimuginò
Mariagrazia mentre si avviava verso il lato aperto delle porte.
Mentre si affrettava meccanicamente
sulla rampa per i disabili, quasi scivolando sulla superficie liscia e
ascendente che, a ben pensarci, sarebbe risultata più fatale di una serie di
scalini senza strisce antiscivolo per qualsiasi individuo sulla sedia a rotelle,
notò il professor Recchia proprio appoggiato al lato chiuso della porta, contro
i fogli colmi di avvisi scritti a mano dal segretario.
“Buongiorno.”, lo salutò con un
sorriso imbarazzato.
Il docente abbassò lo sguardo per
individuare la sorgente di quel mormorio e allontanò dalle labbra sottili un
bicchierino di carta colmo di caffè, per quanto si potesse notare dall’ombra
nerastra sul fianco curvo della stoviglia improvvisata.
“Mariagra’, anche l’ultimo giorno di
scuola sei in ritardo? Entra in classe prima che arrivi io, muoviti.”. Tossì con
enfasi e ricominciò a bere mordendo rumorosamente il bordo del bicchiere.
“Grazie!”, rispose Mariagrazia
sistemando più in basso l’orlo inferiore della maglietta sulla schiena. Emise un
ridicolo risolino di gratitudine e sfrecciò via, accorgendosi appena dell’auto
azzurra che sostava ancora nel parcheggio e che, proprio in quel momento, si
mosse sinuosamente verso l’uscita.
Attraversò il corridoio di corsa,
benché sapesse che Recchia sarebbe entrato solo quando fosse stato sicuro che
lei fosse già in aula. Adoro quell’uomo!
e lo ringrazio ancora una volta mentalmente.
In fondo al corridoio, la porta
della III D era ancora aperta e, dallo squarcio rettangolare che offriva
sull’aula, individuò la testa di Martino Manonera china su un volume dalla
copertina morbida, di cartone sottile; scorse la sua espressione seria e
contrariata, per qualche motivo, e sorrise:
Come fa ad avere sempre quella faccia? Non
si arrabbia mai? Non trova niente di divertente da nessuna parte? Certo che
organizzare i propri tratti facciali in modo così litico e preciso dev’essere
proprio faticoso…, rifletté come ogni mattina. In tre anni di scuola
trascorsi nella stessa classe, l’aveva visto poche volte ridere e sorridere, ma
non se n’era mai preoccupata: era un ragazzo silenzioso e riservato, sicuramente
troppo timido e insicuro per esprimere tutto il piacere che provava a contatto
con gli altri, soprattutto con la sua classe.
Sì, doveva essere così.
E, infatti, lo capiva perfettamente,
perché anche lei si riteneva introversa e piuttosto schiva e comprendeva che le
forzature e la compassione altrui non facevano
che acuire il suo imbarazzo.
Varcò l’uscio e voltò la testa a
destra: era sicura di trovare Susanna davanti alla lavagna e, infatti, la
individuò proprio lì.
***
Istinto omicida, un’altra volta. Sì,
proprio come quella puntata di Death Note.
Rabbrividii di rabbia. Più del solito.
Cazzo,
pensai.
Già, cazzo! Cosa mi stava accadendo?
Avevo sopportato così bene i miei intollerabili compagni di classe per tre anni,
non avrei potuto distruggere tutto in un giorno.
Tutta colpa di Aldo.
Continuai a sfogliare il volume del
manga con nonchalance e placidità, mentre la testa mi girava per la furia che
minacciava di strapparmi via gli organi dall’interno. Mi ritrovai a pensare che
avrei dovuto ucciderli tutti con un qualche cazzo di quaderno magico, se fosse
esistito.
Deglutii mordendomi la punta della
lingua.
Per fortuna, non esisteva nulla del
genere.