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Autore: Flora    13/06/2005    8 recensioni
Ispirato al leggendario "Battaglione degli amanti" di Tebe.
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Mio padre avrebbe voluto che prendessi il suo posto. Amava la terra, il mio povero padre, e il sapore acre della fatica sparsa sui campi di grano e orzo che cuocevano sotto il feroce sole estivo. Non capiva come potessi sognare di grandi imprese ed eroi, e ambissi a essere ricordato anche quando la mia anima mortale avesse lasciato per sempre queste colline così amate. Per lui, il ricordo giaceva sepolto nell'umida terra, rinnovato al rinnovarsi stesso di un seme o di un tralcio d'uva. Per me, poteva esistere solo nei racconti dei poeti e nelle canzoni degli aedi e dei compagni d'arme.
E alla fine venisti a prendermi, Demarato, e tutto ebbe inizio.
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
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Leoni





Sono nato tra le aspre colline di Beozia, su quella distesa di terra nera e bruciata dal sole.
Tutti i miei primi ricordi sono legati alla terra: il tepore di un corpo d'agnello tenuto tra le braccia e l'aroma penetrante dell'uva matura, nella stagione di vendemmia. Ma ancora, e più di tutto, torna a me la ruvidezza del suolo umido e ricco, tra le mie mani di fanciullo.
Mio padre allevava cavalli, ma fin da bambino ho voluto essere un guerriero.
Ricordo che rimanevo rapito a osservare le file ordinate degli opliti che marciavano per le strade della città, di ritorno da una qualche battaglia, le volte in cui mio padre mi portava a Tebe per le celebrazioni riservate a Dioniso.
Per un ragazzo nato e cresciuto in campagna, avvezzo solo alle transumanze delle mandrie e all'alternarsi sempre uguale delle stagioni, il rumore dei calzari che sbattevano sul terreno di pietra, all'unisono – come uno schianto terribile e glorioso al tempo stesso – era quanto di più simile all'ira divina.
Ma non avevo paura.
Rimanevo accecato dai bagliori del sole che si rifletteva sulle corazze di bronzo e sugli elmi decorati a fregi, e mi pareva di potermi issare lassù, appollaiato all’estremità di quelle picche, come fossi Zeus tonante sulla cima del monte sacro.
E ora che il mio momento è giunto, mi chiedo se questa non sia la punizione che ho attirato su di me, su di noi, a causa di quell'orgoglio e quell'arroganza di leone che mi ha contraddistinto come un marchio, fin da quei primi giorni.
Ma non spetta a me chiedermelo, Demarato, ché solo gli Dei possono infine giudicarmi, e invero spero che ci sia stato qualcosa, in questa mia vita segnata dal sangue e dal sacrificio, che possa rendermi dolce il passaggio oltre le rive del grande fiume.
Mio padre avrebbe voluto che prendessi il suo posto. Amava la terra, il mio povero padre, e il sapore acre della fatica sparsa sui campi di grano e orzo che cuocevano sotto il feroce sole estivo. Non capiva come potessi sognare di grandi imprese ed eroi, e ambissi a essere ricordato anche quando la mia anima mortale avesse lasciato per sempre queste colline così amate. Per lui, il ricordo giaceva sepolto nell'umida terra, rinnovato al rinnovarsi stesso di un seme o di un tralcio d'uva. Per me, poteva esistere solo nei racconti dei poeti e nelle canzoni degli aedi e dei compagni d'arme.
E alla fine venisti a prendermi, Demarato, e tutto ebbe inizio.
Ricordo il giorno in cui arrivasti nella casa di mio padre per scegliere dei cavalli, assieme ad altri soldati della milizia. Alcuni nostri parenti ti avevano parlato delle monte allevate da mio padre, e non rimanesti scontento. Ma non fu solo una buona cavalcatura ciò che trovasti in quei cortili nudi, tra le pietre brunite dal sole.
Quella sera, al banchetto organizzato per suggellare la trattativa, rispondesti paziente a ogni domanda che un fanciullo curioso non cessava di porti, avido com’era di conoscere il mondo.
Allora dovevi avere poco più di vent’anni, ma eri già ricoperto di cicatrici, e mi apparivi come un gigante, possente come Aiace, ma con la dolcezza di Patroclo e il coraggio di Achille. Così ti vedevo, e adesso so che erano gli occhi di un adolescente assetato di miti ed eroi a farti apparire così, ma non c’è stato un solo attimo in cui tu abbia cessato di essere il mio modello e il riflesso d’ogni cosa buona e desiderabile. Presto anch’io avrei rivaleggiato con te in altezza e forza, non più il tuo fanciullo ma il tuo compagno, il tuo braccio destro, l’altra metà della tua anima di guerriero.
Ero un fanciullo curioso, e tu un giovane uomo e ti sentii dire a mio padre che sarei stato un ottimo soldato. Mio padre rise, ma vidi che il suo sguardo si faceva duro.
In seguito venisti spesso nella nostra casa, com’era consuetudine, e portasti doni. Ti fermavi spesso con noi e non mancavi mai di lodare i miei progressi a cavallo, o nel salto e nella corsa, in cui mi allenavo giornalmente, spesso all’insaputa di tutti.
Non so come alla fine convincesti mio padre. Presumo che anch’egli sapesse che ero stato destinato a questo, fin dall’inizio.
Ricordo mia madre che piangeva quando mi portasti via con te, io sul mio piccolo baio, tu sulla tua bestia sfregiata, ombrosa e schiva come te.
Mi hai insegnato tutto quello che so, la mia vita io la devo a te.
Ti sei preso il fardello della mia esistenza sulle spalle, ti sei fatto carico della mia educazione e – ancora di più – del mio stesso onore di uomo e di guerriero.
Le regole di Tebe sono molto rigide. Quelle della sacra milizia lo sono ancora di più. Ogni uomo viene ritenuto responsabile del compagno più giovane, e ogni suo atto deprecabile, qualunque gesto di codardia o di scarso onore, sarà il compagno più anziano a pagarlo.
Per questo ho vissuto e sono cresciuto con fierezza e coraggio. Mai avrei permesso che la tua carne amata, o la tua anima, potessero essere segnate dalla mia vergogna.
Tu mi hai dato le armi che ho portato finora: lo scudo, la lancia, la spada, il mio elmo corinzio, i calzari e la corazza di bronzo. Con te ho giurato fedeltà e onore davanti alla statua di Iolao – il più caro a Eracle, l’amato, il compagno – e allora ho saputo che non ci sarebbe più stato ritorno.
Mi hai insegnato a tenere in mano un’arma, a schivare e infliggere colpi con la mia spada. Mi hai insegnato a combattere fino allo stremo delle forze nell’arena polverosa, nel quadrato di sabbia del gymnasion.
Combattevamo fino a sfinirci, e venne il giorno in cui riuscii a rimanere in piedi persino dopo i tuoi attacchi – il giorno in cui ti feci mangiare quella stessa polvere con cui tu mi avevi nutrito in tutti quegli anni.
Quel giorno, avevi un sorriso fiero sulle labbra.
Dopo ci concedevamo il piacere di un bagno, e io ti detergevo via la sabbia con lo strigile, strigliandoti come avrei fatto con il mio cavallo.
Tu mi maledivi, ma ridevi, e io sapevo che avevo guadagnato un altro giorno al tuo fianco, Demarato – che il giorno in cui mi avevi scelto come tuo compagno non era sfocato, affogato e svilito nella vergogna di un fanciullo codardo e inconcludente.
Mi hai insegnato a essere uomo, e a vivere con forza e onore.
E poi vennero le notti. Le notti in cui non rimasi più solo nella mia branda, ad ascoltare il frinire dei grilli, o lo scroscio dei tuoni che rotolavano via durante i temporali estivi, fuori dalle baracche dei soldati, a Tebe.
Ricordo la prima notte che mi prendesti con te, la notte in cui fui davvero uomo per la prima volta.
Non avevo paura, sapevo che sarebbe successo, e lo volevo, l’avevo voluto da sempre.
L’amato. Il tuo diletto e il tuo compagno – fino alla fine.
Nei giorni successivi mi faceva male osservare il flettersi della tua schiena quando sollevavi le pietre per gli esercizi, o il guizzare dei muscoli nella corsa o nel pancrazio. Tutto di te mi appariva nuovo, come un dono rinnovato degli Dei. Mi piaceva il raspare della tua barba contro la mia pelle ancora glabra quando ci salutavamo al mattino, nei baci segreti che ci scambiavamo nelle lunghe notti a Tebe, o negli accampamenti in cui ci trovavamo a bivaccare, se in battaglia.
Perché questa può essere l’ultima ma non è stata la prima. Abbiamo combattuto, contro Atene, i focidi, e ancora i lacedemoni, i nemici di sempre, e ricordo bene il primo scontro, quando tutto scorre come un urlo fragoroso ed è rosso e vivo come una ferita, sebbene in seguito assuma i contorni fumosi del sogno.
Il sangue non l’ho mai temuto, né ho temuto l’alto grido dei nemici, chiunque fossero, quando mi gettavo al tuo fianco nella carica furiosa, nella scia di rame e ferro, nello schianto delle armi, nel rombo polveroso della lotta.
Onore o morte. In questo credevamo e crediamo.
Non dicono forse che un esercito di amanti non possa essere sconfitto? Amanti e amati, comunque compagni, pronti a dare la vita l’uno per l’altro – a preservarne intatto l’onore, il dono più grande. Fino alla fine.
Per questo adesso sono qui, con te che giaci riverso tra le mie braccia, circondato dai nostri compagni caduti.
So chi ti ha colpito. L’ho visto alto e fiero su quella sua bestia nera, nitido e aureo come il fuoco, mentre vibrava il colpo che ti ha strappato a questo mondo.
Quando sapemmo che avremmo dovuto incontrare i lupi di Macedonia tu ridesti, e dicesti che era ben l’ora che quei codardi uscissero dalle loro tane, e si preparassero a incrociare le spade con noi.
Onore o morte – lo sapevamo tutti, e alla fine abbiamo tenuto fede a quel voto.
Nessuno avrebbe abbandonato il proprio compagno sul campo, ma combattuto al suo fianco, anche per un compagno morto – per questo siamo rimasti fino alla fine, anche quando i lupi si sono rivelati leoni, e le loro zanne hanno cominciato a sbranarci, a strappare le nostre carni, e falciarci via – uno a uno, amanti e amati, comunque compagni.
Onore o morte.
E tu, che avevi sentito parlare di quel loro principe e ti chiedevi se davvero fosse così come lo descrivevano – tu, hai avuto in dono dalla sorte di morire per mezzo della sua spada – e di questo io ringrazio il fato, perché ti è stata data la morte che volevi – e che meritavi.
Un leone vuole morire sotto le zanne di un altro leone, non braccato da cacciatori codardi che si accaniscono di fronte ai suoi ruggiti morenti.
Gli ateniesi sono fuggiti, ma i leoni sono rimasti. Ed è giusto che siano stati i loro pari a dar loro la fine.
Il tuo colpo l’ho potuto vedere solo da lontano, ma l’ho sentito riverberare in me, fino all’elsa. È in quel momento che ho capito che era finita.
Ho combattuto, per onorarti e per tenere fede al voto che ha dato senso alla nostra vita, ma sapevo che era finita.
Dopo la battaglia mi sono trascinato fino a te, che giacevi riverso vicino al fiume con gli occhi fissi al cielo, e te li ho chiusi.
Attorno a noi c’è solo silenzio ora, e i suoni della terra. Strano come, negli ultimi istanti, saranno proprio i rumori e gli odori di questa terra che ho abbandonato, ad accompagnare il mio ultimo viaggio.
Ho coperto la devastazione del tuo corpo amato con il mio mantello, e ho pulito il sangue dal tuo viso che è ora sereno e liscio come quello di un ragazzo.
Li sento venire. All'inizio pensavo fossero le anime dei nostri compagni defunti che si avviano a testa alta verso il fiume, per iniziare la lunga traversata. Un guerriero può andare solo cantando incontro alle ombre, ma poi ho capito. Sono i nostri nemici, nell'orgia del vino, che si avvicinano – forse per cercare i feriti o coloro che ancora respirano, forse per schernirci.
Non lo so, e adesso non mi importa. Anch'io voglio cantare, ma non voglio chiudere gli occhi, non ancora. Voglio guardarti un istante solo, uno soltanto, per potermi ricordare di te – e riconoscere, quando saremo dall'altra parte.
Gli uomini cantano e i grilli raccontano le loro storie, forse si chiedono di noi – e i profumi di resine e legno, di fango e sangue, impregnano l'aria di questa notte di tarda estate, l’ultima per noi – a Cheronea.
Sento le voci che si avvicinano, quando arriveranno qui io me ne sarò già andato e, se così non fosse, ho ancora la mia daga appesa alla cintura. Ma la vita fluisce via veloce, rossa e speziata come vino – scorre via, verso il fiume nero.
Vorrei che fosse quel principe di oro e ferro a trovarci su queste rive, sono certo che lui non riderebbe, non ci schernirebbe.
I leoni, Demarato, ricordi? I leoni riconoscono i leoni.
E forse un giorno si ricorderà di noi, quel principe – di noi e dei nostri compagni, fianco a fianco, insieme, fino alla fine dei giorni. Sarà una lunga attesa, ma noi non abbiamo fretta.
Per adesso rimango qui e aspetto.
Io aspetto.
E anche le stelle sembrano bruciare stanotte, e cantano – nel cielo che s’infiamma a oriente.





Fine






Note:

Il battaglione sacro era una falange speciale dell’esercito tebano, formato da centocinquanta coppie di soldati legati tra loro da un legame amoroso.
Platone stesso aveva teorizzato che un esercito formato da amanti sarebbe stato invincibile, perché ciascun soldato avrebbe combattuto fino alla morte, pur di non disonorare o abbandonare il compagno sul campo.
Così fu, infatti. Il battaglione sacro, fin dalla sua creazione – attribuita a Gorgida, e in seguito rafforzato da Pelopida ed Epaminonda – non conobbe mai una sconfitta, e divenne leggendario in tutto il mondo greco, per le qualità che contraddistinguevano i suoi componenti.
La falange tebana fu infine sconfitta a Cheronea – nel 338 a.c. – quando le forze coalizzate di Tebe e Atene incontrarono l’esercito di Filippo di Macedonia – padre di Alessandro il Grande – nella battaglia decisiva per la supremazia su tutta la Grecia.
Il destino volle che proprio in quella battaglia il diciottenne Alessandro avesse il suo primo comando – guidando la cavalleria dal fianco sinistro dell’esercito macedone, e scontrandosi così proprio con il battaglione sacro (che combatteva invece sul fianco destro delle linee avversarie).
Anche quando le sorti della battaglia erano ormai decise, e l’esercito ateniese era già fuggito, il battaglione sacro mantenne le proprie posizioni, combattendo sino alla fine.
Si dice che Alessandro fu molto addolorato per la sconfitta e la fine del battaglione, e quella stessa notte non partecipò alla festa che suo padre e i soldati avevano dato per festeggiare la vittoria.
Lo stesso Filippo – che da giovane era stato mandato come ostaggio nella città di Tebe, e aveva imparato ad apprezzare il valore dei suoi soldati – fece erigere a Cheronea un monumento a forma di leone per commemorare gli amanti del battaglione sacro. Il leone di Cheronea esiste ancora, e sotto di esso sono stati ritrovati i resti di molti scheletri – affiancati due a due, assieme a oggetti di uso comune, come gli strigili con cui le coppie di soldati si detergevano dopo i combattimenti.




  
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