Ecco qua una
storiellina (che ha impiegato più di tre mesi per essere scritta, ma di cui
sono molto, molto fiera) basata su una delle mie canzoni preferite e su Axel
Grady, un personaggio nuovo di zecca preso in prestito dalla mia long
Pantomime. Non so perché, ma vedevo queste parole particolarmente adatte a lui.
Per chi leggesse senza conoscere la long, basti sapere che Axel è un
giornalista d’assalto dal passato piuttosto burrascoso.
Il detenuto
immenso ricorderà a molti John Coffey, da Il Miglio Verde... diciamo che la sua
presenza nella storia vuole essere un tributo all’unico libro di Stephen King
che mi abbia davvero rubato il cuore.
Fatemi sapere che
ne pensate!!!
Temperance
C’è
bisogno di un piccolo aiuto
Axel
si sedette sulla piccola panca nell’angolo della cella più lontano dalle sbarre
ed appoggiò la schiena al muro, chiudendo per un attimo gli occhi e fingendo di
non aver visto l’energumeno rinchiuso con lui.
Ecco,
ci era finito di nuovo.
Un
sorriso sghembo si dipinse sulle sue labbra sottili al pensare che il carcere,
qualsiasi carcere in qualsiasi città del mondo, stava diventando la sua casa,
un posto dove era certo ci sarebbe sempre stato posto per lui.
Quello
di Buenos Aires lo aveva già visitato tre volte... oramai era un habituée e,
Dio volendo, era anche piuttosto certo di restarci poco.
Non
gli piaceva la prigione... andiamo, a chi potrebbe mai piacere starsene
rinchiuso tutto il giorno tra quattro muri, sorvegliato ogni istante da una
guardia e dagli sguardi un po’meno rassicuranti degli occasionali coinquilini
che sempre, sempre hanno commesso un reato che una persona normale mai oserebbe
immaginare di compiere?
No, ad
Axel Grady non piaceva la prigione.
Non
c’era niente da scrivere, lì, nessuna notizia da scovare e nessuna causa per
cui lottare. Perché era per le sue cause, quasi sempre perse in partenza, che
lui dietro alle sbarre ci finiva puntualmente.
Disordini.
Disturbo
della quiete pubblica.
Violenza
contro pubblico ufficiale eccetera eccetera eccetera.
Non se
la immaginava certo così la sua vita, da ragazzo, ma questo era ciò che la vita
stessa gli aveva offerto e lui non aveva potuto fare altro che tuffarcisi con
tutto se stesso.
Ci si
era abituato, in un certo senso... e piano piano aveva iniziato a tentare di
fare conversazione con quei detenuti che lo spaventavano a morte.
Senza
successo, per altro.
Nemmeno
i secondini sembravano molto propensi alle chiacchiere...e così aveva dovuto
trovare un’alternativa.
Quando
gli toccava starsene rinchiuso in cella, Axel Grady pregava.
Pregava
non perché fosse un fervente praticante, no... pregava perché gli sembrava che
in quei momenti un Dio, un Dio tra tutti quelli che aveva conosciuto girando il
mondo, fosse l’unico in grado di ascoltarlo e di capirlo davvero.
E poi
in prigione nessuno faceva caso ad un giovanotto biondo che parlava da solo...
probabilmente tutti pensavano che alcool e reclusione gli avessero dato alla
testa.
Lo
pensassero pure.
Lui
aveva un appuntamento.
Padre nostro che sei nei cieli
E magari anche un po’più su
Quando hai un attimo dammi retta
Poi ti giuro non chiamo più
“Ciao...”
Mormorò, dopo un rapido segno di croce. Dopotutto, era nato cristiano e, se
doveva pregare, gli sembrava che farlo con il Dio dei suoi genitori fosse la
scelta più giusta. “È un po’che non ci sentiamo... e non so, magari a te faceva
anche piacere che io...”
“Con
chi diamine stai parlando?”
Axel
si voltò di scatto perché, evidentemente, non era la voce di Dio ad averlo
interrotto.
L’uomo
era alto, alto almeno due metri e grosso.
Immensamente grosso.
Axel
rabbrividì per un istante al pensiero di cosa una di quelle enormi mani avrebbe
potuto fare alle sue ossa troppo fragili senza il minimo sforzo, ma poi vide i
suoi occhi.
Occhi
nerissimi, leggermente incavati in un viso color del cioccolato dai lineamenti
gentili che stridevano con la sua corporatura come un gessetto premuto troppo
forte sulla lavagna.
Occhi
innocenti, Axel ne era certo.
Conosceva
troppo bene la cattiveria per non rendersi conto di trovarvisi davanti.
E, in
un attimo, la paura passò.
“Ciao.”
Salutò con un sorriso. “Come ti chiami?”
“Gabriel.”
Rispose il gigante, stringendo la mano che il giornalista gli stava porgendo.
“Con chi parlavi?” Tornò poi a chiedere, senza alcuna espressione nella voce,
ma con un’immensa curiosità in quegli occhi bambini.
Che ci
faceva uno come lui in un posto come quello?
“Te lo
dirò, Gabriel, se tu mi racconti come sei finito qui dentro.”
L’omone
lo guardò per un attimo, contrariato, poi il suo viso si sciolse in un sorriso
a cui Axel rispose, di riflesso, semplicemente sorridendo a sua volta.
Gli
piaceva, non c’erano dubbi: era come parlare con un gigantesco bambino finito
per sbaglio in un luogo che con lui non c’entrava nulla.
“Non
lo so.” Rispose Gabriel, onestamente. “Un giorno ho trovato
Axel
scosse appena il capo, toccato dall’ingenuità di quel racconto.
“No,
io sono qui perché ho picchiato un poliziotto.”
“Non
avresti dovuto farlo. Si va in prigione per questo, lo sai?” Domandò,
arretrando un poco, quasi avesse paura che Axel potesse picchiare anche lui.
Non gli diede, però, il tempo di rispondere, tornando immediatamente al suo
primo dilemma. “Con chi parlavi, prima?”
“Con
Dio. Lo sai chi è Dio, Gabriel?”
“Certo
che lo so, non sono stupido.” Replicò l’uomo, piccato. “Dio è un uomo che sta
nel cielo. Ha una barba bianca e lunga e vuole bene a tutti. Anche io ci ho
provato a parlarci, con Dio... però lui non mi risponde.”
“Già...”
Commentò Axel, portandosi le mani dietro alla nuca e tornando ad appoggiarsi
alla parete. “Nemmeno a me risponde, sai? Credo sia perché è molto impegnato...
Io ogni volta che lo chiamo gli prometto che è l’ultima, così magari decide di
parlarmi, ma niente. Mi mette sempre la segreteria. Io però ci provo lo
stesso... magari prima o poi, sfinito, deciderà di darmi risposta, non credi?”
Gabriel
si strinse nelle spalle, come a dire che non si era mai posto il problema.
“E che
cosa gli dici?”
Io lo so siamo insopportabili
E tu da un po’non ci parli più
Ma la vita ci ha chiuso fuori
E hai la chiave soltanto tu
C’è bisogno di un piccolo aiuto
C’è bisogno di un piccolo aiuto
C’è bisogno di un piccolo aiuto quaggiù
Axel
rifletté per un istante: non era per nulla facile spiegare cosa dicesse a Dio
nelle sue preghiere.
Si
trattava di ricordi, per lo più, ricordi di tutto ciò che aveva visto durante i
suoi viaggi e le sue peregrinazioni per difendere chi aveva troppa fame e
troppo pochi diritti.
Ricordi
di storie che non capiva e di leggi che non approvava e fili di memoria confusi
ai quali forse Lui avrebbe potuto dare un perché.
Già...
ma come spiegarlo a Gabriel?
“Beh...”
Cominciò, non proprio sicuro di come avrebbe proseguito la frase. “Tento di
convincerlo ad ascoltarmi, prima di tutto. Vedi, io credo che Dio sia un
po’arrabbiato con noi. Non con me e te, sia chiaro.” Specificò, notando
l’espressione spaventata del suo interlocutore. “Lui è arrabbiato con le
persone, in generale. Credo proprio che non ci sopporti più, per questo ha
deciso di non parlarci. Lui pensa... pensa che ci siano troppe cose cattive al
mondo e ha deciso che non vuole averci più niente a che fare, solo che non ha
calcolato che ormai ci ha creati e noi da questo mondo e da questa vita non
possiamo scappare. Per quello io voglio parlargli: per chiedergli aiuto.”
“Aiuto
per che cosa? Hai paura?”
Axel
annuì appena, ravviandosi i corti capelli chiari.
“Sì,
Gabriel, ho paura. Ho paura perché ho visto cose crudeli, fuori di qui, cose
che tu forse nemmeno sai che esistono e temo che se andiamo avanti così
finiremo per distruggere noi stessi e questo bel pianeta che ci è stato
regalato.”
“Raccontamele.”
“Che
cosa?” Chiese il giornalista, confuso.
“Quelle
cose che hai visto, quelle crudeli che io non so cosa sono. Io voglio che me le
racconti perché mi hanno detto che devo morire e non potrò conoscerle mai...
Raccontami perché abbiamo bisogno di aiuto...”
Padre nostro se hai troppi figli
E a mantenerci non ce la fai
Ti chiediamo soltanto insegnaci
A cavarcela tra di noi
Il
giornalista annuì piano, cercando di mettere un po’d’ordine nei propri pensieri
che, di solito, scorrevano sulla sua lingua a ruota libera, perché Lui non
aveva bisogno che le cose fossero dette in un certo modo, per capirle, no.
A Lui
bastava che fossero pensate.
Ma
Gabriel… Gabriel era una questione diversa.
“Ti
faccio qualche esempio, ti va?”
L’omone
annuì, già catturato dalla narrazione ancora prima che essa avesse inizio.
“Bene…
Allora, Gabriel, vediamo se indovini… da dove vengo io, secondo te?”
“Dall’Inghilterra.”
Rispose lui, sicuro. “Lo so. Hai lo stesso accento di quell’investigatore alla
televisione e lui viene dall’Inghilterra.”
“Quasi…”
Ribatté Axel, con un sorriso. “Quasi.”
“Mamma, me le
prendi?”
Il bambino dai
capelli biondi posò entrambe le mani sulla grossa vetrina del negozio nascosto
tra le vie del centro di New York, indicando un paio di piccole scarpe dai
colori sgargianti. La donna che gli stava alle spalle vi gettò un’occhiata
veloce, mentre accanto a loro passavano una coppia di ragazzine strizzate in
abiti firmati troppo piccoli per la loro non indifferente mole e una coppa di
gelato a testa ben stretta tra le mani grassocce.
Figlie del
consumismo, le avrebbe chiamate suo nonno, e lui l’avrebbe guardato senza
capire o, forse, l’avrebbe semplicemente ignorato, continuando a giocare con il
Meccano nuovo di zecca che gli aveva regalato lo zio.
“No, Ax, costano
troppo.” Dichiarò la donna, afferrando con decisione la mano del figlio e
trascinandolo oltre il negozio di calzature.
“Oh, avanti,
Chandelle!” Esclamò l’uomo che le
camminava accanto, sorridendo dietro alle lenti da sole, poste a coprire un
paio di penetranti occhi azzurri, identici a quelli del figlio. “Che vuoi che
sia un paio di scarpe? Possiamo permettercele,no?”
La donna annuì
con gesto nervoso, lasciando per un attimo la mano del bambino, che corse poco
più avanti, verso qualcosa che aveva attirato la sua sempre vigile attenzione.
“Non è questione
di poterselo permettere, ma non lo voglio viziare, perché…”
“Mamma, papà,
venite qui!”
Entrambi si
voltarono verso il piccolo Axel che, gli occhioni spalancati, osservava attento
un cartellone dal quale sorrideva un bambino africano con il ventre più gonfio
e l’espressione più allegra che avesse mai visto.
“Un altro
ospedale chissà dove…” Constatò il padre con voce amareggiata. “Chissà
perché pensiamo
sempre ai poveri lontani, prima che ai nostri.”
“E che
t’importa?” Domandò la donna, ironica. “Tanto, vicini o lontani, in questo
paese la gente preferisce comprare le scarpe ad un bambino che ne ha già
troppe, piuttosto che fare un regalo a chi ne ha bisogno.”
“Dovrebbero
trovarsi un lavoro, invece che vivere di elemosina.”
“Bisognerebbe
fornirglielo, un lavoro.”
“Mamma, ma lui
non le può avere le scarpe come le mie?” Domandò Axel, interrompendo la
scaramuccia dei genitori.
“No, tesoro, non
può…”
“Allora quando
sono grande voglio andare in… in Bu… Bunduri.”
“Burundi, Axel.”
Lo corresse il padre.
“Sì, là.”
“E perché ci vuoi
andare?” Domandò Chandelle, accarezzandogli i fini capelli chiari.
“Per portare le
scarpe a questo bambino.”
“E ci
sei andato, in quel posto lì?” Domandò Gabriel, incuriosito.
Axel
sorrise, ricordando altri posti, altri luoghi ed altri bambini, terribilmente e
meravigliosamente simili a quello del cartellone.
“Sai
che cosa è buffo, Gabriel? Sono stato in tanti posti in tutto il mondo, ho
visto tanti ragazzini ridotti come quello di cui ti ho parlato, ma no, in
Burundi non ci sono stato mai.”
“E
allora dovresti andarci, perché a quel bambino le scarpe non le hai ancora
portate. Però sai che cosa? Non credo che gli andranno bene quelle che avevi
scelto... mi sa che è cresciuto, intanto.”
“Sì,
sì, lo penso anche io...” Replicò il giornalista, intenerito da tanta
ingenuità. “Gli porterò un paio di infradito.”
“O di
stivali, per quando fa freddo.”
“No,
Gabriel, al suo paese non fa mai freddo.”
“Come
in Florida. Anche ai bambini della Florida servono le scarpe?”
Axel
si strinse nelle spalle.
“Ad
alcuni forse sì, non lo so... Ma di sicuro alcuni ne hanno troppe.”
Gabriel
inclinò da una parte la testa dai capelli cortissimi.
“Ma
come si fa ad avere troppe scarpe? Insomma, più uno ne ha più è felice, no?”
“No,
Gabriel, purtroppo o per fortuna non sempre è così... perché se si ha tanto di
tutto si perde di vista quello che conta davvero.”
Più nessuno frequenta l’anima
C’è chi l’ha chiusa e ci ha aperto un bar
Dove danno emozioni a credito
Ma sentissi che freddo fa
C’è bisogno di un piccolo aiuto
C’è bisogno di un piccolo aiuto
C’è bisogno di un piccolo aiuto quaggiù
“Vedi quello?”
Domandò la giovane donna dagli occhi a mandorla, indicando un ragazzo poco più
che ventenne, impegnato ad ordinare qualcosa di sicuramente alcolico al bancone
del bar.
Axel annuì,
stringendo la macchina fotografica e sentendosi fremere d’eccitazione: sarebbe
stato uno scoop, se lo sentiva dentro e faceva d troppi anni il suo mestiere
per male interpretare ciò che il suo istinto gli diceva.
“È Shi Ni Huan,
un rampollo piuttosto noto della nobiltà cinese. Della deviata nobiltà cinese,
se posso dire come la penso.”
“Sei dura con il
tuo paese.” Commentò l’americano, scattando una foto al giovanotto che
allungava al barista una banconota di valore decisamente troppo alto per una
semplice bibita.
“Solo con la
parte che se lo merita. Sono degli animali, Axel, stanno rovinando una nazione
con millenni di storia unica e straordinaria e perché? Perché si atteggiano
come occidentali e da voi prendono tutto, le cose negative più di quelle
positive.”
Altro scatto.
Una polvere
bianca versata nel bicchiere di Huan nemmeno troppo di nascosto.
Flash.
Il sorriso sul
volto del giovane nobiluomo.
Axel si sentì un
brivido correre su per la schiena.
Da anni era un
giornalista d’assalto, ma non era ancora riuscito ad abituarsi a vedere scene
come quella. Per tanto e tanto tempo non aveva capito cosa spingesse una
persona che aveva tutto a buttarsi a capofitto nel tunnel della droga o della
malavita.
E poi era
arrivata l’intuizione: chi ha tutto non si accontenta mai, chi vive ogni giorno
esattamente ciò che tutti sognano, a lungo andare si stufa e inizia a cercare
emozioni forti.
Emozioni che non
possono essere che artificiali, perché i veri valori, quelli che danno gioia a
lungo termine, quelle persone le perdono quando si rendono conto che basta loro
alzare un dito per ottenere ciò che vogliono.
Così si rifugiano
nella droga, fedele alleata di chi non ha scrupoli a fare soldi sfruttando la
debolezza degli altri.
Prima di
nascosto, ora anche lì, alla luce del sole.
Axel Grady con
tutte le sue esperienze non avrebbe mai smesso di rabbrividire di fronte alla
grettezza degli esseri umani che vendono la loro vita e i loro principi al Dio
Denaro.
Emozioni forti in
vendita al miglior offerente.
Un guadagno
facile, utile per far star bene una persona triste.
O per riempire il
proprio portafogli, dipende dai punti di vista.
Buoni samaritani
dalle tasche debordanti di denaro.
E dai cuori
ricoperti di ghiaccio.
E l’anima?
Quelli nemmeno
sapevano cosa fosse un’anima.
“Mi aiuterai a
denunciarli?”
Axel rivolse alla
giovane donna lo sguardo più rassicurante che gli riuscì di tirare fuori.
“Conta su di me.”
“Quindi
dici che è meglio non avere niente?” Domandò Gabriel, grattandosi la nuca.
“Io
direi che è meglio avere una via di mezzo.”
“Forse
allora io sono più fortunato di quel cinese che beveva la polverina bianca.”
“Credimi,
Gabriel...” Replicò Axel, posandogli una mano sulla spalla. “Tu sei sicuramente
più fortunato e più ricco di quanto quell’uomo potrà mai essere.”
Padre nostro attraverso i secoli
Un pezzo d’inferno è caduto giù
E qualche volta se passi a prendermi
Ti ci porto e vedrai anche tu
“Sai,
da come parli sembra che ci siano proprio tante cose cattive, là fuori. Però a
me hanno detto che dovrebbero stare qui dentro, le cose cattive.”
La
genuina perplessità sul viso di quel gigante troppo buono lo fece sorridere nel
modo più triste che conoscesse.
Dubitava
davvero che quel bestione dagli occhi dolci si rendesse conto di quanta verità
fosse contenuta nelle sue parole semplici e infantili.
Di
quanto male ci fosse nel mondo e di quanto bene fosse rinchiuso, sotto mentite
e malvagie spoglie, dietro alle sbarre di quel carcere.
“Axel....”
Lo chiamò piano Gabriel, quasi avesse paura di pronunciare quel nome... come
se, se lo avesse detto troppo forte, lui avesse potuto scomparire come un
miraggio in mezzo al deserto.
Invece
no, non scomparve.
Si
limitò a voltarsi verso di lui, reclinando leggermente il capo da un lato.
“Sì?”
Gabriel
gli rivolse uno sguardo di sottecchi, un po’timoroso e un po’complice, come se
fosse sul punto di domandargli qualcosa di proibito ma terribilmente eccitante.
“Axel,
io devo morire... ma se non dovessi morire... tu mi ci porteresti? A vedere il male del mondo, intendo. Perché
la mia mamma mi ha detto che le persone buone vanno in paradiso quando muoiono
e io sono buono, e allora voglio vedere il male prima, perché altrimenti dopo non
lo posso fare più. Hai capito?”
Axel
annuì brevemente, trattenendo l’impulso per nulla da lui di scoppiare a
piangere lì e in quel momento.
Perché
ogni attimo si convinceva che il mondo sarebbe stato un luogo tanto migliore,
se ci fossero state anche solo un po’più di persone come Gabriel.
Qualche
bambino non cresciuto in più... qualcuno che non avesse perso del tutto la sua
voglia di sognare.
Non
ebbe cuore di dirgli che gli bastava guardare i suoi aguzzini, per vedere il
male, o che lo aveva già visto mille e mille volte negli occhi del figlio di
quella donna che, ne era certo, lui non aveva assassinato.
Per
una volta in vita sua, Axel Grady decise che avrebbe tranquillamente potuto
concedersi un piccolo sogno.
“Te lo
farò vedere, Gabriel... ti farò vedere il male, anche se devi morire.”
E quel
sorriso largo e dai denti un po’storti fu la miglior conferma che aveva fatto
la scelta giusta.
Nelle case di stracci e lacrime
Negli aereoplani da scorrerie
“Dimmi,
Gabriel, tu lo sai dov’è l’Uganda?”
L’omone
annuì, piuttosto soddisfatto di sé.
“È in
Africa: la mia nonna abitava lì, prima di venire in Argentina.”
“Bravo,
Gabriel... vedi, io sono stato da poco in Uganda... da nemmeno un anno, mi
sembra, e ho scoperto che lì di male ce n’è tantissimo. Chiudi gli occhi,
adesso, e vieni con me.” Concluse, stringendo nella propria la grande mano
mora.
Non era lì per
caso.
Esiste un
servizio ed uno solo nella vita di ogni giornalista in grado di portare fama,
gloria e denaro più di qualsiasi altro.
E quello era il
suo.
La guerra in
Uganda, una soffiata da parte di un amico missionario, verità terribili e
nascoste agli occhi del mondo.
Tutto c’era per
lui in quelle lande desolate del continente africano e lui aveva mollato
qualsiasi altra cosa per raggiungerlo, quel tutto.
Persino il Gay
Pride in pieno svolgimento... sarebbe stato il primo a non vederlo presente tra
la folla sorridente ed urlante.
Persino quella
casa in Spagna, che sembrava così perfetta per lui. Poco male, l’anno dopo in
ogni caso si sarebbe comunque trasferito in Argentina.
Per quello scoop
poteva tranquillamente anticipare un po’i tempi.
No, Axel Grady
non era lì per caso e pensava davvero che avrebbe ricavato il massimo da quel
breve soggiorno.
Non aveva, però,
fatto i conti con la vita, quella cosa che accade, ogni tanto, e spazza via tutti
i progetti e tutti gli obbiettivi.
Fu un uomo a
distoglierlo dal suo articolo da un milione di dollari.
Un uomo solo, con
un braccio presumibilmente rotto, fissato al collo alla bell’e meglio per mezzo
di una manica di camicia.
Un uomo in
lacrime di fronte ad una piccola casa in fiamme.
Un uomo che piangeva in mezzo al nulla, urlando
in silenzio tre nomi nella sua lingua complessa e melodiosa.
Un uomo che
sembrava cantare mentre la sua casa e la sua famiglia svanivano tra le fiamme
ed un aeroplano da guerriglia volava lento sopra di lui, continuando nella sua
rotta di morte che avrebbe portato via altre case ed altre famiglie e lasciato
altri uomini con le braccia rotte a cantare piangendo nel mezzo del niente.
E Axel capì.
Capì che il
milione di dollari del suo scoop non valeva assolutamente nulla se guadagnato
sulle lacrime di un continente in rovina.
La macchina
fotografica finì senza alcun riguardo dimenticata nella polvere secca e
rossiccia che ricopriva qualsiasi cosa, in quel posto, mentre il suo proprietario
sorpassava l’uomo che piangeva in musica e si tuffava nel fuoco, come in ogni
buon film, per cercare di riparare almeno in parte al danno che un uomo come
lui, ma col cuore votato al dio sbagliato, aveva fatto.
La donna era
morta, un paletto di legno frastagliato conficcato nel petto, uccisa come i
vampiri delle leggende di quell’Europa lontana, ma le bambine no, le bambine
ancora piangevano accanto a lei.
La loro voce era
roca, la loro pelle sporca e ustionata e i loro occhi annebbiati dal fumo, ma
la vita era ancora forte dentro di loro, quando, tossendo e tremando un po’, il
giovane americano le restituì al padre.
Ed era la cosa
giusta.
Quel sorriso un
po’sdentato davanti a lui, la gioia di un uomo che credeva di aver perso
tutto... quelli valevano ben più dell’articolo di una vita.
E anche quel
nome, il nome che gli diede l’uomo dal braccio spezzato, restituendogli la
reflex impolverata, anche quello non aveva né avrebbe mai avuto un prezzo.
“Come
ti ha chiamato?” Domandò Gabriel, spalancando i grandi occhi scuri, lusingato
dalla presenza nella sua cella di un tale eroe. Come quelli dei fumetti, gli
sarebbe venuto da dire, se non gli fosse sembrato troppo stupido.
Axel
sorrise, come di nuovo trasportato in quel villaggio ugandese dove per giorni
era stato acclamato come un dio salvatore.
“Zawadi ya Mungu.”
Rispose dopo pochi secondi.
“Dono
di Dio...” Tradusse Gabriel, quasi senza pensare. “Aveva ragione.” Aggiunse
poi, stringendo un po’più forte la mano di Axel nella propria.
“Già...
forse ne aveva almeno un po’. Però sai, Gabriel, nemmeno i doni di Dio, a
volte, riescono a vincere, se il male è troppo forte.”
Nei bordelli di tutto a un dollaro
E in chi nasce ed è buttato via
C’è bisogno di un piccolo aiuto
C’è bisogno di un piccolo aiuto
Axel ascoltava,
indignato, l’uomo che, al di là del vetro oscurato, gli raccontava dei propri
bagordi in un bordello di prostitute bambine nel nord della Thailandia, a pochi
chilometri dal famigerato Triangolo d’Oro.
A pochi
chilometri da dove lui stesso, in quel momento, si trovava.
Ascoltava
quell’uomo parlare, fiero e senza vergogna, di giovani vite a cui era stata
strappata l’innocenza troppo presto.
Un uomo che, per
sua personale sicurezza, aveva accettato di testimoniare solo da dietro quel
vetro color della notte.
Se solo pensava a
che specie di mostro l’avevano fatto sentire soltanto perché era omosessuale...
e a quanta gente ancora metteva i pedofili sullo stesso piano di quelli come
lui...
“Siamo solo un
po’diversi, esattamente come voi.”
Sì, certo.
Peccato che lui
non avesse mai stuprato a morte nessuno dei suoi compagni.
“Non posso dirmi
d’accordo con lei, signore.” Rispose, cortesemente, il giornalista.
Un po’diversi...
Malvagi e
perversi avrebbero calzato decisamente meglio come definizioni.
“Vada a vederli.”
Replicò quello, per tutta risposta. “Vada a vederli e capirà che sono felici e
che noi non siamo mostri, ma l’origine della loro felicità.”
E ci andò, Axel.
La casa di
piacere non era né troppo lontana dal villaggio né troppo vicina ad esso.
Abbastanza
distante perché la polizia potesse fingere di non sapere della sua esistenza.
Abbastanza vicina
perché lo sapesse chiunque altro.
บ้านครอบครัว,
si leggeva sul cartello appeso in malo modo sopra alla
cassetta della posta.
Casa
Famiglia.
Come
no.
Una
bambina che non poteva avere più di dodici anni gli andò incontro con il capo
chino, avvolta in un abito tradizionale che ne fasciava le forme immature,
quasi del tutto inesistenti.
“Ciao,
Mister.” Lo salutò con un sorriso timido ed un inglese approssimativo.
“Nai-Thim.”
Mormorò poi, indicando se stessa.
“Axel...”
Replicò lui, allungandole una mano, che lei si limitò a guardare, senza
stringerla.
“Nai-Thim,
un dollaro, signore Axel. Un dollaro.”
“No,
no...” Rispose l’uomo, agitando una mano.
“Signore
Axel vuole Tamarine? Tamarine maschio. Signore Axel vuole maschio?”
“No,
Nai-Thim, no... Signore Axel non vuole nessuno. Nessuno. Sono venuto solo
per...” Lo interruppe un suono, il più dolce e straziante che gli fosse mai
capitato di udire.
“Che
cos’è?” Domandò, voltandosi di scatto, e la bambina impallidì, prendendo ad
inseguirlo, quando lui si avviò verso i cassonetti adiacenti alla recinzione
che delimitava il bordello.
“Signore
Axel, lei no voleva. Kavi è buona ragazza, Kavi no voleva, ma se no faceva, Kavi
no lavoro. No più.”
“Kavi
è una tua amica?” Chiese lui, spingendo con forza il pesante coperchio del
cassonetto e facendolo scivolare indietro fino a lasciare uno spazio
sufficientemente ampio per farvi passare una grossa zucca.
“No,
signore Axel. Kavi sorella Nai-Thim. Lei no voleva, lei buona. Kavi no voleva.
Kavi serve soldi. Hai soldi, signore Axel?”
Senza
parlare, Axel estrasse da una tasca un biglietto da dieci dollari e lo porse
alla bambina, che corse via, felice.
Poi
si chinò, allungando le braccia oltre il bordo del cassonetto e sfiorando uno
scampolo di pelle liscia.
Gelido.
Immobile.
Il
pianto era cessato.
Padre nostro se non esisti
Quello che accade è soltanto follia
Ma se ascolti e non muovi un mignolo
Forse allora la colpa è anche
tua
“Hanno
buttato via un bambino?” Domandò Gabriel, strabuzzando gli occhi per la
sorpresa. “Ma questo è cattivo!”
“Già,
lo è... mi hai chiesto tu di mostrarti il male, no?”
“Sì,
ma io... io non credevo che fosse così tanto.” Rispose l’uomo, passandosi una
delle immense mani sugli occhi che si erano velati di lacrime. “Perché Dio
lascia che succeda tutto questo?” Chiese, la voce rotta da singhiozzi bambini
che stonavano in tutto e per tutto con la sua mole.
Già,
perché?
Se lo
era chiesto tante volte, il perché Dio permettesse quelle cose.
Se Dio
esisteva, perché lasciava che bambine innocenti vendessero il loro corpo al
miglior offerente, quando avrebbero dovuto passare il loro tempo a giocare a
nascondino nel cortile di una scuola elementare o scrivere le loro prime
lettere d’amore a bambini un po’sciocchi che le avrebbero prese in giro e fatte
piangere, come era giusto che fosse?
Se Dio
esisteva, perché lasciava che ogni giorno un padre perdesse suo figlio, che
pochi avessero tutto e che troppi non avessero nulla.
“Non
lo so, Gabriel. Davvero non lo so. Forse Dio nemmeno esiste...”
“Oh
no, questo non è vero!” Esclamò il gigante, alzandosi in piedi con enfasi. “Sì
che esiste, Axel, sennò nessuno esisterebbe. Se Dio non ci fosse, non ci
sarebbero nemmeno le cose buone. No, no.” Aggiunse, scuotendo il capo ed
appoggiandosi al muro bianco della cella. “Dio c’è. Io non capisco perché fa
così, ma sono sicuro che c’è.”
“Beh,
Gabriel, se c’è allora tutto quello che ti ho raccontato è colpa sua, perché è
l’unico che potrebbe fare qualcosa e invece se ne sta lì, sopra a tutti e a
volte sembra proprio che se ne sbatta nel modo più assoluto e...”
“Axel
Grady?”
La
voce non troppo gentile di un agente interruppe la sua disquisizione.
“C’è.”
Rispose con un sorriso accattivante, come se non avesse appena finito di
parlare di tutti i mali presenti al mondo.
“Ti
hanno pagato la cauzione, sei fuori. Di nuovo.”
Axel
si voltò per un istante verso Gabriel, mentre Fabrizio già faceva capolino da
dietro un angolo, con aria piuttosto scocciata.
“Ciao...”
Lo salutò piano il gigante, rivolgendogli un sorriso triste.
“Vorrei
poter fare di più per te.”
Gabriel
scosse il capo, asciugandosi l’ultima lacrima.
“Mi
hai già fatto volare.”
“Andiamo?”
Domandò Fabrizio che, nel frattempo, si era accostato alla cella senza che il
suo uomo se ne accorgesse. “Mi fa rabbrividire questo posto. Sappi che è l’ultima
cauzione che ti pago.”
“No,
per favore.” Intervenne Gabriel, mentre il secondino richiudeva la pesante
porta di metallo davanti a lui. “Solo una ancora. Tanto poi devo morire. Solo
una ancora.”
Se sapevi giù tutto nei secoli
Tutto questo non ha un perché
Ma se invece c’è qualche ragione
Facci male ma dicci qual è
“Che
schifo...” Commentò Axel, ripiegando il quotidiano sul quale spiccava, in prima
pagina, una foto in bianco e nero di Gabriel.
Erano passati
circa tre mesi dalla sua ultima notte in prigione, eppure lo sguardo limpido di
quel gigante buono era ancora perfettamente impresso nella sua memoria e non
sembrava avere intenzione di andarsene, quasi volesse ricordargli quanto
immensamente fortunato era a stare ancora su quella Terra.
“Se
hai trovato qualche orrore in bagno è colpa di mia sorella, io non c’entro.”
Gli rispose la voce di Fabrizio, mentre il giovane faceva capolino dalla porta salotto.
“Ma
no, no. Guarda.” Replicò lui, porgendogli il giornale.
“Non è
il tizio che stava con te in cella?”
“Sì,
Gabriel. Guarda... leggi...” Esclamò il biondo, indicando il titolo a caratteri
cubitali.
Era
innocente.
Le
prove arrivano dopo l’esecuzione capitale.
Annuendo
piano, Fabrizio posò il quotidiano sul tavolino e si sedette accanto ad Axel.
“Mi
dispiace, amore...” Mormorò, accarezzandogli piano i capelli chiari.
Il
giornalista scosse il capo, amareggiato, lasciando che l’altro posasse la testa
sul suo petto, come sempre faceva, quando voleva sentirsi particolarmente
vicino a lui.
“La
cosa brutta è che lui si fidava.”
“Non
avresti potuto fare niente, Ax.”
“Non
di me, Fabry. Lui si fidava di Dio, lui credeva in Dio ed era certo che lo avrebbe
aiutato, non preso in giro senza un cazzo di perché. E non me ne frega se era
già tutto segnato, se il suo destino era questo. Non può essere morto per
nulla, non può... non avrebbe senso. Eppure un motivo... esiste un motivo per
tradire chi si fida di te?”
Fabrizio
non rispose: si limitò a stringere forte la camicia dell’altro, desiderando di
poter capire almeno un po’della rabbia che attanagliava il cuore dell’uomo che
amava.
Almeno
un po’del dolore racchiuso in quelle parole.
“Lui
si fidava
C’è bisogno di un piccolo aiuto
C’è bisogno di un piccolo aiuto
C’è bisogno di un piccolo aiuto quaggiù