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Autore: Cara_Sconosciuta    10/11/2009    3 recensioni
Spin off di Pantomime. Ci sono lievi accenni slash.
“Non lo so.” Rispose Gabriel, onestamente. “Un giorno ho trovato la Signora addormentata sul pavimento della camera che le pagavo e suo figlio si è messo a urlare contro di me. Io non ho capito perché, finché non ho visto il sangue. È brutto, lo sai, il sangue? Non voglio vederlo mai più. E poi sono arrivati i poliziotti e mi hanno detto che dovevo andare con loro, mentre suo figlio mi urlava che dovevo morire, invece. Me lo ha detto anche il giudice, che devo morire e quindi io aspetto che mi spieghino perché. Per questo sono qui. E tu? Sei venuto per parlare da solo?”
Genere: Triste, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ecco qua una storiellina (che ha impiegato più di tre mesi per essere scritta, ma di cui sono molto, molto fiera) basata su una delle mie canzoni preferite e su Axel Grady, un personaggio nuovo di zecca preso in prestito dalla mia long Pantomime. Non so perché, ma vedevo queste parole particolarmente adatte a lui. Per chi leggesse senza conoscere la long, basti sapere che Axel è un giornalista d’assalto dal passato piuttosto burrascoso.

Il detenuto immenso ricorderà a molti John Coffey, da Il Miglio Verde... diciamo che la sua presenza nella storia vuole essere un tributo all’unico libro di Stephen King che mi abbia davvero rubato il cuore.

Fatemi sapere che ne pensate!!!

Temperance

C’è bisogno di un piccolo aiuto

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Axel si sedette sulla piccola panca nell’angolo della cella più lontano dalle sbarre ed appoggiò la schiena al muro, chiudendo per un attimo gli occhi e fingendo di non aver visto l’energumeno rinchiuso con lui.

Ecco, ci era finito di nuovo.

Un sorriso sghembo si dipinse sulle sue labbra sottili al pensare che il carcere, qualsiasi carcere in qualsiasi città del mondo, stava diventando la sua casa, un posto dove era certo ci sarebbe sempre stato posto per lui.

Quello di Buenos Aires lo aveva già visitato tre volte... oramai era un habituée e, Dio volendo, era anche piuttosto certo di restarci poco.

Non gli piaceva la prigione... andiamo, a chi potrebbe mai piacere starsene rinchiuso tutto il giorno tra quattro muri, sorvegliato ogni istante da una guardia e dagli sguardi un po’meno rassicuranti degli occasionali coinquilini che sempre, sempre hanno commesso un reato che una persona normale mai oserebbe immaginare di compiere?

No, ad Axel Grady non piaceva la prigione.

Non c’era niente da scrivere, lì, nessuna notizia da scovare e nessuna causa per cui lottare. Perché era per le sue cause, quasi sempre perse in partenza, che lui dietro alle sbarre ci finiva puntualmente.

Disordini.

Disturbo della quiete pubblica.

Violenza contro pubblico ufficiale eccetera eccetera eccetera.

Non se la immaginava certo così la sua vita, da ragazzo, ma questo era ciò che la vita stessa gli aveva offerto e lui non aveva potuto fare altro che tuffarcisi con tutto se stesso.

Ci si era abituato, in un certo senso... e piano piano aveva iniziato a tentare di fare conversazione con quei detenuti che lo spaventavano a morte.

Senza successo, per altro.

Nemmeno i secondini sembravano molto propensi alle chiacchiere...e così aveva dovuto trovare un’alternativa.

Quando gli toccava starsene rinchiuso in cella, Axel Grady pregava.

Pregava non perché fosse un fervente praticante, no... pregava perché gli sembrava che in quei momenti un Dio, un Dio tra tutti quelli che aveva conosciuto girando il mondo, fosse l’unico in grado di ascoltarlo e di capirlo davvero.

E poi in prigione nessuno faceva caso ad un giovanotto biondo che parlava da solo... probabilmente tutti pensavano che alcool e reclusione gli avessero dato alla testa.

Lo pensassero pure.

Lui aveva un appuntamento.

 

Padre nostro che sei nei cieli

E magari anche un po’più su

Quando hai un attimo dammi retta

Poi ti giuro non chiamo più

 

“Ciao...” Mormorò, dopo un rapido segno di croce. Dopotutto, era nato cristiano e, se doveva pregare, gli sembrava che farlo con il Dio dei suoi genitori fosse la scelta più giusta. “È un po’che non ci sentiamo... e non so, magari a te faceva anche piacere che io...”

“Con chi diamine stai parlando?”

Axel si voltò di scatto perché, evidentemente, non era la voce di Dio ad averlo interrotto.

L’uomo era alto, alto almeno due metri e grosso.

Immensamente  grosso.

Axel rabbrividì per un istante al pensiero di cosa una di quelle enormi mani avrebbe potuto fare alle sue ossa troppo fragili senza il minimo sforzo, ma poi vide i suoi occhi.

Occhi nerissimi, leggermente incavati in un viso color del cioccolato dai lineamenti gentili che stridevano con la sua corporatura come un gessetto premuto troppo forte sulla lavagna.

Occhi innocenti, Axel ne era certo.

Conosceva troppo bene la cattiveria per non rendersi conto di trovarvisi davanti.

E, in un attimo, la paura passò.

“Ciao.” Salutò con un sorriso. “Come ti chiami?”

“Gabriel.” Rispose il gigante, stringendo la mano che il giornalista gli stava porgendo. “Con chi parlavi?” Tornò poi a chiedere, senza alcuna espressione nella voce, ma con un’immensa curiosità in quegli occhi bambini.

Che ci faceva uno come lui in un posto come quello?

“Te lo dirò, Gabriel, se tu mi racconti come sei finito qui dentro.”

L’omone lo guardò per un attimo, contrariato, poi il suo viso si sciolse in un sorriso a cui Axel rispose, di riflesso, semplicemente sorridendo a sua volta.

Gli piaceva, non c’erano dubbi: era come parlare con un gigantesco bambino finito per sbaglio in un luogo che con lui non c’entrava nulla.

“Non lo so.” Rispose Gabriel, onestamente. “Un giorno ho trovato la Signora addormentata sul pavimento della camera che le pagavo e suo figlio si è messo a urlare contro di me. Io non ho capito perché, finché non ho visto il sangue. È brutto, lo sai, il sangue? Non voglio vederlo mai più. E poi sono arrivati i poliziotti e mi hanno detto che dovevo andare con loro, mentre suo figlio mi urlava che dovevo morire, invece. Me lo ha detto anche il giudice, che devo morire e quindi io aspetto che mi spieghino perché. Per questo sono qui. E tu? Sei venuto per parlare da solo?”

Axel scosse appena il capo, toccato dall’ingenuità di quel racconto.

“No, io sono qui perché ho picchiato un poliziotto.”

“Non avresti dovuto farlo. Si va in prigione per questo, lo sai?” Domandò, arretrando un poco, quasi avesse paura che Axel potesse picchiare anche lui. Non gli diede, però, il tempo di rispondere, tornando immediatamente al suo primo dilemma. “Con chi parlavi, prima?”

“Con Dio. Lo sai chi è Dio, Gabriel?”

“Certo che lo so, non sono stupido.” Replicò l’uomo, piccato. “Dio è un uomo che sta nel cielo. Ha una barba bianca e lunga e vuole bene a tutti. Anche io ci ho provato a parlarci, con Dio... però lui non mi risponde.”

“Già...” Commentò Axel, portandosi le mani dietro alla nuca e tornando ad appoggiarsi alla parete. “Nemmeno a me risponde, sai? Credo sia perché è molto impegnato... Io ogni volta che lo chiamo gli prometto che è l’ultima, così magari decide di parlarmi, ma niente. Mi mette sempre la segreteria. Io però ci provo lo stesso... magari prima o poi, sfinito, deciderà di darmi risposta, non credi?”

Gabriel si strinse nelle spalle, come a dire che non si era mai posto il problema.

“E che cosa gli dici?”

 

Io lo so siamo insopportabili

E tu da un po’non ci parli più

Ma la vita ci ha chiuso fuori

E hai la chiave soltanto tu

C’è bisogno di un piccolo aiuto

C’è bisogno di un piccolo aiuto

C’è bisogno di un piccolo aiuto quaggiù

 

Axel rifletté per un istante: non era per nulla facile spiegare cosa dicesse a Dio nelle sue preghiere.

Si trattava di ricordi, per lo più, ricordi di tutto ciò che aveva visto durante i suoi viaggi e le sue peregrinazioni per difendere chi aveva troppa fame e troppo pochi diritti.

Ricordi di storie che non capiva e di leggi che non approvava e fili di memoria confusi ai quali forse Lui avrebbe potuto dare un perché.

Già... ma come spiegarlo a Gabriel?

“Beh...” Cominciò, non proprio sicuro di come avrebbe proseguito la frase. “Tento di convincerlo ad ascoltarmi, prima di tutto. Vedi, io credo che Dio sia un po’arrabbiato con noi. Non con me e te, sia chiaro.” Specificò, notando l’espressione spaventata del suo interlocutore. “Lui è arrabbiato con le persone, in generale. Credo proprio che non ci sopporti più, per questo ha deciso di non parlarci. Lui pensa... pensa che ci siano troppe cose cattive al mondo e ha deciso che non vuole averci più niente a che fare, solo che non ha calcolato che ormai ci ha creati e noi da questo mondo e da questa vita non possiamo scappare. Per quello io voglio parlargli: per chiedergli aiuto.”

“Aiuto per che cosa? Hai paura?”

Axel annuì appena, ravviandosi i corti capelli chiari.

“Sì, Gabriel, ho paura. Ho paura perché ho visto cose crudeli, fuori di qui, cose che tu forse nemmeno sai che esistono e temo che se andiamo avanti così finiremo per distruggere noi stessi e questo bel pianeta che ci è stato regalato.”

“Raccontamele.”

“Che cosa?” Chiese il giornalista, confuso.

“Quelle cose che hai visto, quelle crudeli che io non so cosa sono. Io voglio che me le racconti perché mi hanno detto che devo morire e non potrò conoscerle mai... Raccontami perché abbiamo bisogno di aiuto...”

 

Padre nostro se hai troppi figli

E a mantenerci non ce la fai

Ti chiediamo soltanto insegnaci

A cavarcela tra di noi

 

Il giornalista annuì piano, cercando di mettere un po’d’ordine nei propri pensieri che, di solito, scorrevano sulla sua lingua a ruota libera, perché Lui non aveva bisogno che le cose fossero dette in un certo modo, per capirle, no.

A Lui bastava che fossero pensate.

Ma Gabriel… Gabriel era una questione diversa.

“Ti faccio qualche esempio, ti va?”

L’omone annuì, già catturato dalla narrazione ancora prima che essa avesse inizio.

“Bene… Allora, Gabriel, vediamo se indovini… da dove vengo io, secondo te?”

“Dall’Inghilterra.” Rispose lui, sicuro. “Lo so. Hai lo stesso accento di quell’investigatore alla televisione e lui viene dall’Inghilterra.”

“Quasi…” Ribatté Axel, con un sorriso. “Quasi.”

 

“Mamma, me le prendi?”

Il bambino dai capelli biondi posò entrambe le mani sulla grossa vetrina del negozio nascosto tra le vie del centro di New York, indicando un paio di piccole scarpe dai colori sgargianti. La donna che gli stava alle spalle vi gettò un’occhiata veloce, mentre accanto a loro passavano una coppia di ragazzine strizzate in abiti firmati troppo piccoli per la loro non indifferente mole e una coppa di gelato a testa ben stretta tra le mani grassocce.

Figlie del consumismo, le avrebbe chiamate suo nonno, e lui l’avrebbe guardato senza capire o, forse, l’avrebbe semplicemente ignorato, continuando a giocare con il Meccano nuovo di zecca che gli aveva regalato lo zio.

“No, Ax, costano troppo.” Dichiarò la donna, afferrando con decisione la mano del figlio e trascinandolo oltre il negozio di calzature.

“Oh, avanti, Chandelle!” Esclamò  l’uomo che le camminava accanto, sorridendo dietro alle lenti da sole, poste a coprire un paio di penetranti occhi azzurri, identici a quelli del figlio. “Che vuoi che sia un paio di scarpe? Possiamo permettercele,no?”

La donna annuì con gesto nervoso, lasciando per un attimo la mano del bambino, che corse poco più avanti, verso qualcosa che aveva attirato la sua sempre vigile attenzione.

“Non è questione di poterselo permettere, ma non lo voglio viziare, perché…”

“Mamma, papà, venite qui!”

Entrambi si voltarono verso il piccolo Axel che, gli occhioni spalancati, osservava attento un cartellone dal quale sorrideva un bambino africano con il ventre più gonfio e l’espressione più allegra che avesse mai visto.

“Un altro ospedale chissà dove…” Constatò il padre con voce amareggiata. “Chissà

perché pensiamo sempre ai poveri lontani, prima che ai nostri.”

“E che t’importa?” Domandò la donna, ironica. “Tanto, vicini o lontani, in questo paese la gente preferisce comprare le scarpe ad un bambino che ne ha già troppe, piuttosto che fare un regalo a chi ne ha bisogno.”

“Dovrebbero trovarsi un lavoro, invece che vivere di elemosina.”

“Bisognerebbe fornirglielo, un lavoro.”

“Mamma, ma lui non le può avere le scarpe come le mie?” Domandò Axel, interrompendo la scaramuccia dei genitori.

“No, tesoro, non può…”

“Allora quando sono grande voglio andare in… in Bu… Bunduri.”

“Burundi, Axel.” Lo corresse il padre.

“Sì, là.”

“E perché ci vuoi andare?” Domandò Chandelle, accarezzandogli i fini capelli chiari.

“Per portare le scarpe a questo bambino.”

 

“E ci sei andato, in quel posto lì?” Domandò Gabriel, incuriosito.

Axel sorrise, ricordando altri posti, altri luoghi ed altri bambini, terribilmente e meravigliosamente simili a quello del cartellone.

“Sai che cosa è buffo, Gabriel? Sono stato in tanti posti in tutto il mondo, ho visto tanti ragazzini ridotti come quello di cui ti ho parlato, ma no, in Burundi non ci sono stato mai.”

“E allora dovresti andarci, perché a quel bambino le scarpe non le hai ancora portate. Però sai che cosa? Non credo che gli andranno bene quelle che avevi scelto... mi sa che è cresciuto, intanto.”

“Sì, sì, lo penso anche io...” Replicò il giornalista, intenerito da tanta ingenuità. “Gli porterò un paio di infradito.”

“O di stivali, per quando fa freddo.”

“No, Gabriel, al suo paese non fa mai freddo.”

“Come in Florida. Anche ai bambini della Florida servono le scarpe?”

Axel si strinse nelle spalle.

“Ad alcuni forse sì, non lo so... Ma di sicuro alcuni ne hanno troppe.”

Gabriel inclinò da una parte la testa dai capelli cortissimi.

“Ma come si fa ad avere troppe scarpe? Insomma, più uno ne ha più è felice, no?”

“No, Gabriel, purtroppo o per fortuna non sempre è così... perché se si ha tanto di tutto si perde di vista quello che conta davvero.”

 

Più nessuno frequenta l’anima

C’è chi l’ha chiusa e ci ha aperto un bar

Dove danno emozioni a credito

Ma sentissi che freddo fa

C’è bisogno di un piccolo aiuto

C’è bisogno di un piccolo aiuto

C’è bisogno di un piccolo aiuto quaggiù

 

“Vedi quello?” Domandò la giovane donna dagli occhi a mandorla, indicando un ragazzo poco più che ventenne, impegnato ad ordinare qualcosa di sicuramente alcolico al bancone del bar.

Axel annuì, stringendo la macchina fotografica e sentendosi fremere d’eccitazione: sarebbe stato uno scoop, se lo sentiva dentro e faceva d troppi anni il suo mestiere per male interpretare ciò che il suo istinto gli diceva.

“È Shi Ni Huan, un rampollo piuttosto noto della nobiltà cinese. Della deviata nobiltà cinese, se posso dire come la penso.”

“Sei dura con il tuo paese.” Commentò l’americano, scattando una foto al giovanotto che allungava al barista una banconota di valore decisamente troppo alto per una semplice bibita.

“Solo con la parte che se lo merita. Sono degli animali, Axel, stanno rovinando una nazione con millenni di storia unica e straordinaria e perché? Perché si atteggiano come occidentali e da voi prendono tutto, le cose negative più di quelle positive.”

Altro scatto.

Una polvere bianca versata nel bicchiere di Huan nemmeno troppo di nascosto.

Flash.

Il sorriso sul volto del giovane nobiluomo.

Axel si sentì un brivido correre su per la schiena.

Da anni era un giornalista d’assalto, ma non era ancora riuscito ad abituarsi a vedere scene come quella. Per tanto e tanto tempo non aveva capito cosa spingesse una persona che aveva tutto a buttarsi a capofitto nel tunnel della droga o della malavita.

E poi era arrivata l’intuizione: chi ha tutto non si accontenta mai, chi vive ogni giorno esattamente ciò che tutti sognano, a lungo andare si stufa e inizia a cercare emozioni forti.

Emozioni che non possono essere che artificiali, perché i veri valori, quelli che danno gioia a lungo termine, quelle persone le perdono quando si rendono conto che basta loro alzare un dito per ottenere ciò che vogliono.

Così si rifugiano nella droga, fedele alleata di chi non ha scrupoli a fare soldi sfruttando la debolezza degli altri.

Prima di nascosto, ora anche lì, alla luce del sole.

Axel Grady con tutte le sue esperienze non avrebbe mai smesso di rabbrividire di fronte alla grettezza degli esseri umani che vendono la loro vita e i loro principi al Dio Denaro.

Emozioni forti in vendita al miglior offerente.

Un guadagno facile, utile per far star bene una persona triste.

O per riempire il proprio portafogli, dipende dai punti di vista.

Buoni samaritani dalle tasche debordanti di denaro.

E dai cuori ricoperti di ghiaccio.

E l’anima?

Quelli nemmeno sapevano cosa fosse un’anima.

“Mi aiuterai a denunciarli?”

Axel rivolse alla giovane donna lo sguardo più rassicurante che gli riuscì di tirare fuori.

“Conta su di me.”

 

“Quindi dici che è meglio non avere niente?” Domandò Gabriel, grattandosi la nuca.

“Io direi che è meglio avere una via di mezzo.”

“Forse allora io sono più fortunato di quel cinese che beveva la polverina bianca.”

“Credimi, Gabriel...” Replicò Axel, posandogli una mano sulla spalla. “Tu sei sicuramente più fortunato e più ricco di quanto quell’uomo potrà mai essere.”

 

Padre nostro attraverso i secoli

Un pezzo d’inferno è caduto giù

E qualche volta se passi a prendermi

Ti ci porto e vedrai anche tu

 

“Sai, da come parli sembra che ci siano proprio tante cose cattive, là fuori. Però a me hanno detto che dovrebbero stare qui dentro, le cose cattive.”

La genuina perplessità sul viso di quel gigante troppo buono lo fece sorridere nel modo più triste che conoscesse.

Dubitava davvero che quel bestione dagli occhi dolci si rendesse conto di quanta verità fosse contenuta nelle sue parole semplici e infantili.

Di quanto male ci fosse nel mondo e di quanto bene fosse rinchiuso, sotto mentite e malvagie spoglie, dietro alle sbarre di quel carcere.

“Axel....” Lo chiamò piano Gabriel, quasi avesse paura di pronunciare quel nome... come se, se lo avesse detto troppo forte, lui avesse potuto scomparire come un miraggio in mezzo al deserto.

Invece no, non scomparve.

Si limitò a voltarsi verso di lui, reclinando leggermente il capo da un lato.

“Sì?”

Gabriel gli rivolse uno sguardo di sottecchi, un po’timoroso e un po’complice, come se fosse sul punto di domandargli qualcosa di proibito ma terribilmente eccitante.

“Axel, io devo morire... ma se non dovessi morire... tu mi ci porteresti?  A vedere il male del mondo, intendo. Perché la mia mamma mi ha detto che le persone buone vanno in paradiso quando muoiono e io sono buono, e allora voglio vedere il male prima, perché altrimenti dopo non lo posso fare più. Hai capito?”

Axel annuì brevemente, trattenendo l’impulso per nulla da lui di scoppiare a piangere lì e in quel momento.

Perché ogni attimo si convinceva che il mondo sarebbe stato un luogo tanto migliore, se ci fossero state anche solo un po’più di persone come Gabriel.

Qualche bambino non cresciuto in più... qualcuno che non avesse perso del tutto la sua voglia di sognare.

Non ebbe cuore di dirgli che gli bastava guardare i suoi aguzzini, per vedere il male, o che lo aveva già visto mille e mille volte negli occhi del figlio di quella donna che, ne era certo, lui non aveva assassinato.

Per una volta in vita sua, Axel Grady decise che avrebbe tranquillamente potuto concedersi un piccolo sogno.

“Te lo farò vedere, Gabriel... ti farò vedere il male, anche se devi morire.”

E quel sorriso largo e dai denti un po’storti fu la miglior conferma che aveva fatto la scelta giusta.

 

Nelle case di stracci e lacrime

Negli aereoplani da scorrerie

 

“Dimmi, Gabriel, tu lo sai dov’è l’Uganda?”

L’omone annuì, piuttosto soddisfatto di sé.

“È in Africa: la mia nonna abitava lì, prima di venire in Argentina.”

“Bravo, Gabriel... vedi, io sono stato da poco in Uganda... da nemmeno un anno, mi sembra, e ho scoperto che lì di male ce n’è tantissimo. Chiudi gli occhi, adesso, e vieni con me.” Concluse, stringendo nella propria la grande mano mora.

 

Non era lì per caso.

Esiste un servizio ed uno solo nella vita di ogni giornalista in grado di portare fama, gloria e denaro più di qualsiasi altro.

E quello era il suo.

La guerra in Uganda, una soffiata da parte di un amico missionario, verità terribili e nascoste agli occhi del mondo.

Tutto c’era per lui in quelle lande desolate del continente africano e lui aveva mollato qualsiasi altra cosa per raggiungerlo, quel tutto.

Persino il Gay Pride in pieno svolgimento... sarebbe stato il primo a non vederlo presente tra la folla sorridente ed urlante.

Persino quella casa in Spagna, che sembrava così perfetta per lui. Poco male, l’anno dopo in ogni caso si sarebbe comunque trasferito in Argentina.

Per quello scoop poteva tranquillamente anticipare un po’i tempi.

No, Axel Grady non era lì per caso e pensava davvero che avrebbe ricavato il massimo da quel breve soggiorno.

Non aveva, però, fatto i conti con la vita, quella cosa che accade, ogni tanto, e spazza via tutti i progetti e tutti gli obbiettivi.

Fu un uomo a distoglierlo dal suo articolo da un milione di dollari.

Un uomo solo, con un braccio presumibilmente rotto, fissato al collo alla bell’e meglio per mezzo di una manica di camicia.

Un uomo in lacrime di fronte ad una piccola casa in fiamme.

Un  uomo che piangeva in mezzo al nulla, urlando in silenzio tre nomi nella sua lingua complessa e melodiosa.

Un uomo che sembrava cantare mentre la sua casa e la sua famiglia svanivano tra le fiamme ed un aeroplano da guerriglia volava lento sopra di lui, continuando nella sua rotta di morte che avrebbe portato via altre case ed altre famiglie e lasciato altri uomini con le braccia rotte a cantare piangendo nel mezzo del niente.

E Axel capì.

Capì che il milione di dollari del suo scoop non valeva assolutamente nulla se guadagnato sulle lacrime di un continente in rovina.

La macchina fotografica finì senza alcun riguardo dimenticata nella polvere secca e rossiccia che ricopriva qualsiasi cosa, in quel posto, mentre il suo proprietario sorpassava l’uomo che piangeva in musica e si tuffava nel fuoco, come in ogni buon film, per cercare di riparare almeno in parte al danno che un uomo come lui, ma col cuore votato al dio sbagliato, aveva fatto.

La donna era morta, un paletto di legno frastagliato conficcato nel petto, uccisa come i vampiri delle leggende di quell’Europa lontana, ma le bambine no, le bambine ancora piangevano accanto a lei.

La loro voce era roca, la loro pelle sporca e ustionata e i loro occhi annebbiati dal fumo, ma la vita era ancora forte dentro di loro, quando, tossendo e tremando un po’, il giovane americano le restituì al padre.

Ed era la cosa giusta.

Quel sorriso un po’sdentato davanti a lui, la gioia di un uomo che credeva di aver perso tutto... quelli valevano ben più dell’articolo di una vita.

E anche quel nome, il nome che gli diede l’uomo dal braccio spezzato, restituendogli la reflex impolverata, anche quello non aveva né avrebbe mai avuto un prezzo.

 

“Come ti ha chiamato?” Domandò Gabriel, spalancando i grandi occhi scuri, lusingato dalla presenza nella sua cella di un tale eroe. Come quelli dei fumetti, gli sarebbe venuto da dire, se non gli fosse sembrato troppo stupido.

Axel sorrise, come di nuovo trasportato in quel villaggio ugandese dove per giorni era stato acclamato come un dio salvatore.

Zawadi ya Mungu.” Rispose dopo pochi secondi.

“Dono di Dio...” Tradusse Gabriel, quasi senza pensare. “Aveva ragione.” Aggiunse poi, stringendo un po’più forte la mano di Axel nella propria.

“Già... forse ne aveva almeno un po’. Però sai, Gabriel, nemmeno i doni di Dio, a volte, riescono a vincere, se il male è troppo forte.”

 

Nei bordelli di tutto a un dollaro

E in chi nasce ed è buttato via

C’è bisogno di un piccolo aiuto

C’è bisogno di un piccolo aiuto

 

Axel ascoltava, indignato, l’uomo che, al di là del vetro oscurato, gli raccontava dei propri bagordi in un bordello di prostitute bambine nel nord della Thailandia, a pochi chilometri dal famigerato Triangolo d’Oro.

A pochi chilometri da dove lui stesso, in quel momento, si trovava.

Ascoltava quell’uomo parlare, fiero e senza vergogna, di giovani vite a cui era stata strappata l’innocenza troppo presto.

Un uomo che, per sua personale sicurezza, aveva accettato di testimoniare solo da dietro quel vetro color della notte.

Se solo pensava a che specie di mostro l’avevano fatto sentire soltanto perché era omosessuale... e a quanta gente ancora metteva i pedofili sullo stesso piano di quelli come lui...

“Siamo solo un po’diversi, esattamente come voi.”

Sì, certo.

Peccato che lui non avesse mai stuprato a morte nessuno dei suoi compagni.

“Non posso dirmi d’accordo con lei, signore.” Rispose, cortesemente, il giornalista.

Un po’diversi...

Malvagi e perversi avrebbero calzato decisamente meglio come definizioni.

“Vada a vederli.” Replicò quello, per tutta risposta. “Vada a vederli e capirà che sono felici e che noi non siamo mostri, ma l’origine della loro felicità.”

E ci andò, Axel.

La casa di piacere non era né troppo lontana dal villaggio né troppo vicina ad esso.

Abbastanza distante perché la polizia potesse fingere di non sapere della sua esistenza.

Abbastanza vicina perché lo sapesse chiunque altro.

บ้านครอบครัว, si leggeva sul cartello appeso in malo modo sopra alla cassetta della posta.

Casa Famiglia.

Come no.

Una bambina che non poteva avere più di dodici anni gli andò incontro con il capo chino, avvolta in un abito tradizionale che ne fasciava le forme immature, quasi del tutto inesistenti.

“Ciao, Mister.” Lo salutò con un sorriso timido ed un inglese approssimativo.

“Nai-Thim.” Mormorò poi, indicando se stessa.

“Axel...” Replicò lui, allungandole una mano, che lei si limitò a guardare, senza stringerla.

“Nai-Thim, un dollaro, signore Axel. Un dollaro.”

“No, no...” Rispose l’uomo, agitando una mano.

“Signore Axel vuole Tamarine? Tamarine maschio. Signore Axel vuole maschio?”

“No, Nai-Thim, no... Signore Axel non vuole nessuno. Nessuno. Sono venuto solo per...” Lo interruppe un suono, il più dolce e straziante che gli fosse mai capitato di udire.

“Che cos’è?” Domandò, voltandosi di scatto, e la bambina impallidì, prendendo ad inseguirlo, quando lui si avviò verso i cassonetti adiacenti alla recinzione che delimitava il bordello.

“Signore Axel, lei no voleva. Kavi è buona ragazza, Kavi no voleva, ma se no faceva, Kavi no lavoro. No più.”

“Kavi è una tua amica?” Chiese lui, spingendo con forza il pesante coperchio del cassonetto e facendolo scivolare indietro fino a lasciare uno spazio sufficientemente ampio per farvi passare una grossa zucca.

“No, signore Axel. Kavi sorella Nai-Thim. Lei no voleva, lei buona. Kavi no voleva. Kavi serve soldi. Hai soldi, signore Axel?”

Senza parlare, Axel estrasse da una tasca un biglietto da dieci dollari e lo porse alla bambina, che corse via, felice.

Poi si chinò, allungando le braccia oltre il bordo del cassonetto e sfiorando uno scampolo di pelle liscia.

Gelido.

Immobile.

Il pianto era cessato.

 

Padre nostro se non esisti

Quello che accade è soltanto follia

Ma se ascolti e non muovi un mignolo

Forse allora la colpa è anche  tua

 

“Hanno buttato via un bambino?” Domandò Gabriel, strabuzzando gli occhi per la sorpresa. “Ma questo è cattivo!”

“Già, lo è... mi hai chiesto tu di mostrarti il male, no?”

“Sì, ma io... io non credevo che fosse così tanto.” Rispose l’uomo, passandosi una delle immense mani sugli occhi che si erano velati di lacrime. “Perché Dio lascia che succeda tutto questo?” Chiese, la voce rotta da singhiozzi bambini che stonavano in tutto e per tutto con la sua mole.

Già, perché?

Se lo era chiesto tante volte, il perché Dio permettesse quelle cose.

Se Dio esisteva, perché lasciava che bambine innocenti vendessero il loro corpo al miglior offerente, quando avrebbero dovuto passare il loro tempo a giocare a nascondino nel cortile di una scuola elementare o scrivere le loro prime lettere d’amore a bambini un po’sciocchi che le avrebbero prese in giro e fatte piangere, come era giusto che fosse?

Se Dio esisteva, perché lasciava che ogni giorno un padre perdesse suo figlio, che pochi avessero tutto e che troppi non avessero nulla.

“Non lo so, Gabriel. Davvero non lo so. Forse Dio nemmeno esiste...”

“Oh no, questo non è vero!” Esclamò il gigante, alzandosi in piedi con enfasi. “Sì che esiste, Axel, sennò nessuno esisterebbe. Se Dio non ci fosse, non ci sarebbero nemmeno le cose buone. No, no.” Aggiunse, scuotendo il capo ed appoggiandosi al muro bianco della cella. “Dio c’è. Io non capisco perché fa così, ma sono sicuro che c’è.”

“Beh, Gabriel, se c’è allora tutto quello che ti ho raccontato è colpa sua, perché è l’unico che potrebbe fare qualcosa e invece se ne sta lì, sopra a tutti e a volte sembra proprio che se ne sbatta nel modo più assoluto e...”

“Axel Grady?”

La voce non troppo gentile di un agente interruppe la sua disquisizione.

“C’è.” Rispose con un sorriso accattivante, come se non avesse appena finito di parlare di tutti i mali presenti al mondo.

“Ti hanno pagato la cauzione, sei fuori. Di nuovo.”

Axel si voltò per un istante verso Gabriel, mentre Fabrizio già faceva capolino da dietro un angolo, con aria piuttosto scocciata.

“Ciao...” Lo salutò piano il gigante, rivolgendogli un sorriso triste.

“Vorrei poter fare di più per te.”

Gabriel scosse il capo, asciugandosi l’ultima lacrima.

“Mi hai già fatto volare.”

“Andiamo?” Domandò Fabrizio che, nel frattempo, si era accostato alla cella senza che il suo uomo se ne accorgesse. “Mi fa rabbrividire questo posto. Sappi che è l’ultima cauzione che ti pago.”

“No, per favore.” Intervenne Gabriel, mentre il secondino richiudeva la pesante porta di metallo davanti a lui. “Solo una ancora. Tanto poi devo morire. Solo una ancora.”

 

Se sapevi giù tutto nei secoli

Tutto questo non ha un perché

Ma se invece c’è qualche ragione

Facci male ma dicci qual è

 

“Che schifo...” Commentò Axel, ripiegando il quotidiano sul quale spiccava, in prima pagina, una foto in bianco e nero di Gabriel.

Erano passati circa tre mesi dalla sua ultima notte in prigione, eppure lo sguardo limpido di quel gigante buono era ancora perfettamente impresso nella sua memoria e non sembrava avere intenzione di andarsene, quasi volesse ricordargli quanto immensamente fortunato era a stare ancora su quella Terra.

“Se hai trovato qualche orrore in bagno è colpa di mia sorella, io non c’entro.” Gli rispose la voce di Fabrizio, mentre il giovane faceva capolino dalla porta salotto.

“Ma no, no. Guarda.” Replicò lui, porgendogli il giornale.

“Non è il tizio che stava con te in cella?”

“Sì, Gabriel. Guarda... leggi...” Esclamò il biondo, indicando il titolo a caratteri cubitali.

 

Era innocente.

Le prove arrivano dopo l’esecuzione capitale.

 

Annuendo piano, Fabrizio posò il quotidiano sul tavolino e si sedette accanto ad Axel.

“Mi dispiace, amore...” Mormorò, accarezzandogli piano i capelli chiari.

Il giornalista scosse il capo, amareggiato, lasciando che l’altro posasse la testa sul suo petto, come sempre faceva, quando voleva sentirsi particolarmente vicino a lui.

“La cosa brutta è che lui si fidava.”

“Non avresti potuto fare niente, Ax.”

“Non di me, Fabry. Lui si fidava di Dio, lui credeva in Dio ed era certo che lo avrebbe aiutato, non preso in giro senza un cazzo di perché. E non me ne frega se era già tutto segnato, se il suo destino era questo. Non può essere morto per nulla, non può... non avrebbe senso. Eppure un motivo... esiste un motivo per tradire chi si fida di te?”

Fabrizio non rispose: si limitò a stringere forte la camicia dell’altro, desiderando di poter capire almeno un po’della rabbia che attanagliava il cuore dell’uomo che amava.

Almeno un po’del dolore racchiuso in quelle parole.

“Lui si fidava

C’è bisogno di un piccolo aiuto

C’è bisogno di un piccolo aiuto

C’è bisogno di un piccolo aiuto quaggiù

 

   
 
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