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Autore: ka_chan87    14/11/2009    0 recensioni
Salve a tutti. Questa sarà una piccola e modesta raccolta di alcuni racconti Noir (sul genere dei racconti brevi di Roald Dahl), in tutto quattro, scritti ormai un anno fa e che mi sono decisa solo ora a pubblicare.
In ogni racconto c'è un riferimento a una canzone sempre diversa, la quale si intreccia con il contenuto dell'episodio.
Spero siano di vostro gradimento, buona lettura!
Tratto dal quarto racconto: "[...] Un'innocente creaturina di appena qualche mese. Le guance di solito di quel rosso così vivido ha già l'impressione che stiano impallidendo, sotto i suoi occhi dall'espressione indefinibile."
Genere: Mistero, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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"Uno sguardo in più”

 

Eccolo, di nuovo. Con lo sguardo vitreo entra nella stanza, finge di guardarsi intorno alla ricerca di chissà che cosa, si siede e inevitabilmente finisce col puntare i suoi occhi terribili su di lui.

Di cose strane, in un manicomio, ce ne sono tante, si sa. Mark deve sopportarne a valanghe tutti i santi giorni pur di avere ciò che gli serve per tirare avanti.

Ma a tutto c'è anche un limite e lui l'ha raggiunto con Bob, pazzo come gli altri, se non di più.

Tutti i giorni arriva, entra nella sala comune dove Mark passa la maggior parte del suo tempo, tenendo compagnia ai ricoverati, si guarda intorno, va a sedersi in un angolo isolato e si mette a fissarlo, dal mattino quando arriva fino alla sera quando se ne va, canticchiando alcune strofe di One, degli U2 “ Have you come here for forgiveness? Have you come to raise the dead? Have you come here to play Jesus? To the lepers in your head...”.

All'inizio Mark non ci fa più di tanto caso, 'Sono pur sempre in una gabbia di matti...', pensa, ma dopo un po' e soprattutto da quando ha saputo che Bob ha fatto fuori tutta la famiglia a suon di coltellate, la situazione è diventata insopportabile.

Qualche volta è anche capitato che l'omicida gli avesse rivolto la parola, chiedendogli cose personali e raccontandogli per filo e per segno quello che gli aveva visto fare o che aveva pensato avesse fatto, o cantandogli quella maledetta canzone – Mark odia gli U2.

Tutto è diventato estremamente inquietante. Mark si è convinto che Bob voglia fare di lui una delle sue vittime e non può fare a meno di essere terrorizzato dal mettere piede dentro quella stanza, ora. Ogni giorno può essere quello buono.

Oggi Mark è estremamente teso. Ancora una volta è stato tormentato dagli incubi e ormai gli sembra di camminare con la morte al fianco ogni giorno. Ma, inevitabilmente, eccolo varcare la soglia della sala comune, cercare di distrarre e conversare con i malati e distribuire sorrisi a destra e manca. Finché Bob, avvolto dal camice bianco – che lo fa apparire, agli occhi di Mark, proprio come uno spirito della morte, per via della sua carnagione cadaverica, gli zigomi sporgenti, gl'occhi a palla infossati e una barba grigio-bianca enorme – fa il suo ingresso, quel giorno puntando gli occhi direttamente su di lui, in un'espressione indecifrabile e terribile.

Mark è immobilizzato da quello sguardo e fatica ad accorgersi della campanella che si mette a suonare, avvisando dell'ora del pranzo.

Intorno a lui tutti i pazienti si alzano, diregendosi alla mensa con uno strano passo trascinato e cadenzato da farli sembrare quasi un fiumiciattolo. Nella sala comune restano solo i due, gli sguardi ancora incollati tra loro.

Oggi, è troppo. Conscio di non poter più andare avanti con l'idea di Bob pronto a saltargli alla gola ogni giorno, senza quasi pensare Mark afferra un candelabro posto su una mensola lì vicino e si lancia come una furia su Bob, ancora intento a fissarlo con quei suoi occhi liquidi, terribili e immobili.

È un attimo. Il candelabro scende a colpire il viso di Bob con un facilità che a Mark sembra impossibile, come se in realtà lo stesse solo carezzando. Senza avvertire il minimo sforzo, Mark continua a colpirlo più e più volte, la testa riempita solo dalle note odiate,di One che Bob canticchiava sempre mentre lo fissava.

Si ferma. Davanti a lui del suo nemico non rimane un granché; il viso completamente squarciato è ormai irriconoscibile.

Sulle labbra di Mark comincia a delinearsi un sorriso. Ebbro di felicità, corre verso la mensa esultando come non mai, finalmente è libero dal suo demone!

“L'ho ucciso! L'ho ucciso! Non ci potrà fare più del male!” grida a squarciagola, girando su se stesso.

“Chi, chi hai ucciso Mark?” gli domanda preoccupato uno degli inservienti, prendendolo per le braccia.

“L'ho ucciso! L'ho ucciso!” continua a dire l'altro, senza badare nessuno “Vieni, vieni a vedere, ormai non può più farci del male!” e trascina con sé l'infermiere, portandolo nella sala comune.

“Ecco, lo vedi? Ormai non potrà più fissarci con quel suo sguardo demoniaco e progettare chissà quali morti per tutti noi! L'ho ucciso!” esulta di nuovo Mark, venendo afferrato dall'inserviente.

“Ok, ok, ho capito... però Mark lo sai che non si deve 'uccidere' con tanta leggerezza, vero?”

“Oh, sì, sì, è sbagliato, ma lui voleva farci del male! Voleva uccidermi, lo so!”

“Va bene, va bene... ehi, voi – l'infermiere ne chiama altri due prima occupati nella mensa – prendetevi cura di Mark... io penso a questo poveretto” dice l'uomo, guardando lo spettacolo che ha davanti. Sbuffa, scocciato. Sarebbe toccato a lui di certo spiegare dell'accaduto al direttore... e non sarebbe stato felice.

Come poteva dirgli che il suo quadro tanto prezioso raffigurante Sigmund Freud era andato completamente distrutto?

  
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