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Autore: Kokato    14/11/2009    6 recensioni
TERZA CLASSIFICATA AL “CONTEST OF VAMPIRES” DI MY PRIDE E VALERYA90!
Non sapeva cosa lo avesse spinto a decretarlo, ma sperava fosse per il fatto che la loro soluzione era giunta in città.
Profumata, ubriacante, affascinante, perfetta soluzione al suo rifiuto.
“Non voglio”
“Forse hai solo bisogno di
qualcosa che ti stuzzichi l’appetito” sorrise. Il cielo notturno tornava sereno.
Osservò la linea della costa con improvviso interesse, passando la lingua arrossata di succo d’arancia sulle labbra turgide.
-Di
qualcuno che ti stuzzichi l’appetito-.
1900. Il giovane ed eccentrico reporter Roy Mustang indaga su misteriose morti e sparizioni in un piccolo villaggio scozzese, con una copia del ‘Dracula’ di Bram Stoker in mano. Ci sono due giovani Conti, uno scoop da fare, tre notti da trascorrere.
Roy X Edward, Edward X Alphonse
Genere: Dark, Drammatico, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Alphonse Elric, Altro personaggio, Edward Elric, Roy Mustang, Scar
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Orange Saga'
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CAPITOLO 2: Tieni d’occhio il nemico

CAPITOLO 2: Tieni d’occhio il nemico.

 

Prima notte.

 

<< La donna era immersa in suo sonno di vampiro, così piena di vita e bellezza voluttuosa che io ho tremato, come se stavo per commettere un assassinio.

Ah, non ho dubbio che, in tempi antichi, quando queste cose accadevano,  più di un uomo con mio stesso compito poteva scoprire in ultimo che coraggio aveva abbandonato lui e che i suoi nervi avevano ceduto.  Così esitava, esitava e ancora esitava,  finché la bellezza e il fascino della lasciva non- morta ipnotizzava lui.

E restava là fermo fino a tramonto,  quando Vampiro si risvegliava.  Allora, i begli occhi della donna si aprivano con uno sguardo pieno d’amore, e la sua bocca voluttuosa si apriva al bacio – e uomo è debole. E un'altra vittima restava tra grinfie di vampiro; uno in più per ingrossare le tetre e spaventose truppe di non morti!>>*

 

Lascia perdere quel libro, aveva detto, col tono con cui s’intima ad un bambino testardo di metter giù le mani da un giocattolo sporco.

Ma lo svolgimento dei fatti era stato fino ad allora divertente e semplicistico: lui era il bene e quei ragazzini nobili il male, il male che non poteva sfuggire al potere della sua penna dispensatrice di verità.

Non poteva sperare, di trovarsi in una situazione di quel genere? Ridicolaggine per ridicolaggine.

Quel castello poteva benissimo esser saltato fuori dalle pagine del libro che aveva in mano –‘Dracula’ di Bram Stoker-, il mondo poteva esser divenuto tutt’ad un tratto o tutto bianco o tutto nero… e dubitava di entrambe queste considerazioni.

Certamente, davanti alle tre avvenenti mogli del Conte Dracula, avrebbe avuto un atteggiamento diverso da quello dell’assennato avvocato Jonathan Harker o da quello del virtuoso Dottor Van Helsing. Non le avrebbe uccise, né ignorate, né tanto meno temute: sarebbe stato uno dei tanti poveri uomini descritti in modo sgrammaticato dall’esimio professore olandese.

Non gl’importava di quell’alcova di pazzi in cui viveva, né del motivo di quella pazzia. Amava le cose semplicistiche e divertenti.

 Bussò alla maestosa porta, con un sorriso a divaricargli la testa in modo artificioso. Tutta la costruzione si stagliava nella notte buia con i bastioni protesi, come un’ombra acquattata o come uno spettro evanescente i cui contorni erano stati erosi dalla morte e dal tempo. Più attendeva che le porte gli venissero aperte, più ogni cosa perdeva di verosimiglianza ed una risata gli montava alla gola.

Le porte si aprirono lasciando uno spiraglio da cui uscì solo una voce maschile. “Chi siete?”

“Roy Mustang, inviato del Central Journal di Londra” Senza poter vedere chi gli stava parlando la conversazione era impossibile, ed il trattamento era quanto meno irrispettoso -era quanto ci si poteva aspettare in una casa mandata avanti da due mocciosi-. Il fatto che non gliene importasse nulla indicava che era adatto a quel mestiere più di quanto pensava, ma questo lo sapeva già.

L’uomo che vide attraverso la porta aveva il volto illuminato dal basso dalla luce della candela che aveva in mano, non riusciva a distinguerne nulla a parte le sbarre degli zigomi perfettamente paralleli che delimitavano gli occhi che, per il resto, parevano sospesi nel vuoto.

“Cosa volete?”

“Conferire con i Signorini Elric, se m’è concesso”

“Per quale ragione?”

“Non potrò venirne a parte io stesso, finché lo scambio non sarà avvenuto” Ciò che vedeva del suo interlocutore bastava a dargli un’impressione d’incorruttibilità. Le sue parole non l’avevano confuso. “Dovreste averne un’idea seppur minima”

“Vi basti sapere che nulla nella mia persona può arrecarvi danno. La notte è nera ed affamata, ed io non so dove andare”

La fiammella tremolò per un istante prima che la porta si aprisse su una tonalità di nero altrettanto notturna. L’uomo che si offrì di fargli strada aveva la pelle olivastra e gli zigomi squadrati -come quelli che aveva intravisto poco prima-. Gli occhi di un singolare color scarlatto erano infossati, vitrei ed indifferenti al tal punto da dare l’impressione che fossero stati a malapena adagiati nelle orbite. A giudicare dal frac doveva essere il maggiordomo.

“Dovreste essere qualcosa evidentemente non siete, per arrecare danno al mio padrone” Disse, accendendo una grossa torcia sulla parete, rendendo visibile il pavimento di pietra levigata.

“Grazie della considerazione” rise.

Senza più rivolgergli la parola l’uomo accese cinque torce su ciascun lato della sala, illuminandola a giorno. Un imponente scalinata conduceva ai piani superiori, con i pomi di legno smaltati che riflettevano la luce in profondità. Estrasse una delle torce, facendogli cenno di seguirlo sopra le ampie scale bianche, almeno due metri più in alto da dove si trovavano. La distanza gli parve raddoppiata a causa dell’insistente, compassionevole sguardo di una Madonna: dalla cima delle scale i suoi piatti occhi sembravano volerlo squadrare dall’alto in basso, rifiutandogli una benedizione.

Il maggiordomo la oltrepassò come si aspettasse da lei lo stesso trattamento, senza guardarla e senza pretendere null’altro, dirigendosi verso altre scale. Ne superarono due prima di giungere in un salotto con due sedie di velluto rosso e un caminetto acceso, -ogni altra cosa era invisibile, nel qual caso ci fosse stato qualcos’altro-.

“Attendete qui”

“Perché mi avete fatto entrare?” tutto quel buio gli stava facendo perdere la pazienza.

La prima espressione che vide sul suo volto fu d’irritazione e biasimo, tirata e corrucciata sui lineamenti già marcati.

“Sono in grado di dire cosa non siete, ma non so dire chi siete. Ciò vale anche per il mio padrone, ed è quel che non conosce che lui al momento sta cercando”

“Credo sia reciproco” Sorrise, per l’accordo delle loro opinioni. Ma l’uomo non rispose, scomparendo con un inchino nervoso.

Si sedette,  guardando i particolari della stanza attraverso la poca luce che ne lasciava nascosti gli angoli.

Dovendo  immaginarsi in che modo il vampiro si sarebbe presentato, lo vide uscire da uno di quelle nicchie di tenebre, con la carnagione di un bianco lucente, un ghigno di superiorità sul volto e la presunzione di spaventarlo. Stranamente il fuoco nel camino, invece di farsi meno lucente, estese sempre di più la propria aura sulla stanza. Un orologio a cucù, un mobile d’antiquariato di legno verniciato, una armadietto per gli alcolici , una spazzola col manico d’avorio, una statuetta di marmo in stile classico raffigurante una donna –immersa in un utopia di felicità e sensualità, come qualunque altro soggetto di quel tipo-,  una tetra atmosfera medievale. Era quanto ci si poteva aspettare in un stanza fatta arredare da due mocciosi: non c’era epoca, non c’era stile, non c’era attenzione.

Si alzò dal divano e prese la spazzola, analizzandola. Tra le setole c’erano lunghi capelli castani, intrecciati in un viluppo. Erano troppo lunghi per essere di uno dei due conti, e la spazzola era troppo bella per poter essere usata da una qualunque serva del maniero. Pensieroso continuò a girarsela tra le mani, come se fosse stato fondamentale ai suoi scopi conoscere la proprietaria di quell’oggetto…  non poteva esserne sicuro.

Per un attimo gli occhi della Madonna del quadro lo fulminarono, costringendolo a schiarirsi la vista.

“È una copia della ‘Madonna dell’umiltà’, di Masolino da Panicale”

Voltandosi lo vide, seduto sulla poltrona di velluto rosso. Un ragazzo dai lunghi capelli biondi legati con un nastro nero, il viso da fanciulla, un’anomala espressione di disinteresse. L’osservava con le gambe accavallate e le mani unite in grembo. La luce aranciata del fuoco contribuiva poco a diminuire il contrasto dei vestiti neri e merlettati con l’incarnato, rendendolo una figura evanescente. Non verosimile, come qualunque altra cosa avesse visto fino a quel momento. Non rispose, sedendosi davanti a lui.

“Devo aver parlato ad alta voce”

“Evidentemente”

“Era veramente squisita” Odiava parlare in quel modo. Odiava rivolgersi ad un nobile ed usare il linguaggio richiesto per farlo, ma non era  il caso d’inimicarsi il suo padrone di casa. Sottolineò la frase con un sorriso, ritenendolo troppo giovane per non trovarlo irritante.

“Il suo stesso creatore la bollò come un abominio. Non dovreste neanche averla vista”

 “Non merita di essere celata agli uomini degli esseri umani, tutt’altro”

“Cosa volete?” Tagliò corto, come se il discorso lo stesse innervosendo.

“Brusco il servo, brusco il padrone”

“Scar fa solo quello che io voglio, anche se non glielo ordino…” disse, assestando il capo sul palmo della mano. Il gomito poggiava sul bracciolo del divano, e la sua posizione si era fatta più sconveniente di quanto avesse notato all’inizio. “… ma sono costretto a rinnovarvi la domanda”

“Provate ad indovinare”

“Omicidi e sparizioni?”

“Perspicace” Il giovane Conte sorrise, stirando i suoi lineamenti prima contratti e dilatando e le iridi simili a pozze d’acqua. Ma non era un’espressione benevola, tutt’altro: sembrava aver capito il meccanismo di qualcosa che, fino a quel momento, non era riuscito a capire. Era una sfida che, proprio come Roy, non voleva perdere.

“Presumo sia stata Lady Rockbell ad indirizzarvi qui da me”

“Sua nipote, la signorina Winry, è scomparsa qualche mese fa. La conoscevate?”

“Eravamo amici d’infanzia”

“L’avete incontrata recentemente?” Il Conte inclinò la testa e sollevò il mento, in modo da mettere in mostra il suo collo da cigno, elegante ed inadatto per un uomo di qualsivoglia ceto sociale. Tutti quei particolari catalizzavano la sua attenzione senza motivo, distogliendolo dal monito di condurre accuratamente la conversazione. Ma l’altro non rispose per qualche lungo secondo.

“Non la vedo da diciannove anni, se non erro” Inaspettatamente sapeva che non si sarebbe contraddetto, perché sembrava avere degli ottimi motivi per non farlo. La rigidità delle spalle suggeriva testardaggine, come volesse sconfiggerlo e fargli capire che, contro di lui, non avrebbe vinto mai. L’osservazione di lui era un operazione ingrata, che lo stava confondendo nonostante non avesse saputo cosa dire fin dall’inizio.

Non poteva accusarlo apertamente d’omicidio, d’altronde. “È venuta a suonare alla vostra porta qualche settimana prima della scomparsa, n’est pas?”

Davanti al tono francese e all’espressione ammiccante, il Conte irrigidì il profilo delle labbra, sprezzante.

“Dove volete arrivare?”

“Dove, secondo voi?” Il Conte sospirò, smise di guardarlo negli occhi per educazione, scoppiando poi a ridere. Senza considerare il volto che Roy stentava a mantenere serafico si alzò, dirigendosi verso l’armadietto dal quale estrasse una bottiglia di brandy. Gliela porse senza nemmeno versare la bevanda  in un bicchiere,  posandola sul tavolino con un tonfo, mentre la strana allegria che l’aveva invaso gl’ illuminava la faccia da schiaffi.

“Io lo so” Disse, risedendosi e accavallando la gamba destra sulla sinistra.

“Cosa sapete?”

“Dove volete arrivare” Era un bambino, e non sapeva come trattarci. Grattandosi la testa non dette segno d’aver capito.

“Pensate sia stato io, o la mia famiglia” Nella stessa posizione di prima, poco signorile, mosse una delle gambe magre per indicarlo. O non lo riteneva degno di alcuna cortesia, o voleva proporgli qualche affare o malaffare che sapeva non avrebbe rifiutato. Confidò nella seconda possibilità, e ricambiò il suo sorriso. “Non sono il solo a pensarlo”

“Lady Pinako mi conosce. Mi provoca dolore pensare che abbia così poca fiducia in me, nonostante questo”

“Questo è ciò che i fatti le hanno suggerito”

“E ciò che hanno suggerito a voi”

“Esattamente”

Il Conte fissò la bottiglia che aveva offerto, come soprapensiero. Irritato dal silenzio -e dalla vista dei fianchi affusolati da cui le gambe s’irradiavano, piccole e nervose-, la prese, la stappò, e ne bevve un lungo sorso. Qualche goccia gl’inumidì il collo, e trovò il gesto  più piacevole del bere in un bicchiere. L’altro lo stava aspettando, con la bocca infantile aperta. Poi parlò.

“Vi voglio aiutare a risolvere la questione, perché non sopporto questi sospetti. Vogliate rimanere qui questa notte, e collaboreremo”

Annuì, con in testa il ricordo di giovani avvocati in manieri bui e solitari, ospiti di ricchi ed eccentrici uomini anziani con i denti troppo aguzzi ed un irritante accento dell’est*. Quel ragazzo era giovane, ben poco nobile pur abitando in un castello ed indossando bei vestiti, impudente e detestabile per la presunzione che il suo piccolo corpo infantile emanava. E lui non era un avvocato.

Annuì senza pensarci.

Gli porse la mano. “Edward Elric”

“Roy Mustang” La strinse, ricambiando adeguatamente la forza della stretta. Se fosse stato solo un ragazzo presuntuoso avrebbe potuto smettere di analizzarlo,  perché non sarebbe stato più un nemico di cui prevedere le mosse.

Sperò di avere presto una prova certa della sua innocenza: non riusciva a negare attenzione a nulla di quel presunto, giovane, arrogante assassino.

 

***

 

Alphonse detestava risvegliarsi da solo, gli pareva di resuscitare dopo un periodo di morte apparente.

Viveva nell’oscurità, ma le tenebre che lo avvolgevano quando apriva gli occhi sul mondo dopo tanto tempo erano le peggiori, e non sapeva mai come affrontarle se non c’era Edward a stringergli una mano e a rassicurarlo del fatto che, alla fine, sarebbe riuscito a vedere oltre. Qualunque fosse la cosa, la questione, o la persona che l’avevano portato via da lui, già l’odiava. Nell’aria Edward aveva lasciato una rassicurazione, con un sussurro, ma non bastava.

Stava giocando con una scorza d’arancia, che fantasticava essere il responsabile dell’assenza di suo fratello, quando quest’ultimo entrò correndo e saltellando con una smorfia gioiosa e perversa sul volto. Raddrizzò il capo per guardarlo, ma non si dimostrò felice.

“È arrivato, Alphonse, è arrivato! Qualcuno del mondo di fuori è venuto ad aiutarci!”

“Dove sei stato, Nii san?”

“È venuto, come immaginavo! Lo sapevo fin dall’inizio che sarebbe venuto qui! Non poteva andare altro che così!” Si sciolse i capelli, afferrò la spazzola in un cassetto di cui non ricordava mai l’esistenza –era strano che riuscisse a ricordarlo proprio allora-, li strigliò con una mano mentre si toglieva la giacca con l’altra, rimanendo in camicia bianca. Il grande specchio, al quale stava chiedendo un silenzioso parere, restituiva la sua figura esile mentre finiva l’operazione, cingendo di nuovo i capelli con il nastro di seta nera. Venne verso di lui, con l’intento di cambiargli i vestiti e pettinarlo, ma Alphonse si ritrasse.

“Cosa c’è che non va, otouto*?” Non era nelle sue intenzioni fare i capricci, né pretendere qualcosa che Edward non avrebbe potuto dargli spontaneamente, ma l’aveva fatto prima di poterci pensare. Lo voleva sempre con lui, ma comprendeva di non avere motivo per stare sempre lì, al buio, senza desiderare di vedere null’altro che il cielo stellato ed il viso di suo fratello. Era inevitabile che, di tanto in tanto, Edward avesse bisogno di uscire da lì, vedere il sole, altri luoghi e altre persone. Pur desiderando di essere con lui, Alphonse sapeva di non poter andare oltre la soglia della porta senza perdere la capacità di camminare o fare alcunché, ed in ogni caso le loro notti danzanti gli placavano l’anima per qualche tempo.

Eppure, questo, il suo corpo non l’aveva capito.

“Perché credi che quell’uomo ci possa essere utile?”

“Viene dall’Inghilterra! È un giornalista! Conosce il mondo, conosce la storia, conosce l’animo umano! Abbiamo imparato così poco, negli ultimi dieci anni… lui potrebbe farti uscire di qui, potrebbe farti amare di nuovo il mondo come una persona viva!” Era euforico, e desiderava abbracciarlo, accostare le loro labbra e ballare. Scosse la testa, rifiutandogli ognuna di queste cose.

“Ti piace così tanto questa persona?” chiese quindi Alphonse.

“Oh, affatto… decisamente lo detesto! È così spocchioso e arrogante! Avrei voluto uccidere lui e la sua maledetta faccia di schiaffi per almeno tre quarti del tempo” Gesticolò molto, per enfatizzare l’idea del suo astio, ma ciò non gli fece tirare alcun sospiro di sollievo. Riuscì a parlare male di quell’uomo per poco più di venti secondi appena, poi, insistendo per fargli cambiare la giacca, sostituì l’animosità  con un altro sorriso.

“Voglio che parli con lui, al resto penserò io! Quel bastardo lo diceva sempre, no? Quando perdi i contatti con il mondo devi sempre ricucirli, prima che sia impossibile farlo… ricordi?” Scosse la testa, ma Edward amava tanto parlare di quel famoso ‘bastardo’ da non preoccuparsi più se Alphonse rispondeva, o se le sue ennesime ciance facevano parte d’un monologo pietoso.

“Domani notte” Promise quindi, sapendo che avrebbe detto la stessa cosa tutte le notti.

“D’accordo, sapevo che ti ci sarebbe voluto del tempo. Gli ho chiesto molto gentilmente di aspettare mentre Scar prepara la cena, ma avevo già intenzione di chiedergli di fermarsi qui per la notte… anche se non so quanto lo farò dormire! Ho così tante cose che vorrei sapere da lui!”

Si fece cambiare il resto del vestiario senza protestare, anche se non c’era nessuno per cui avrebbe voluto essere elegante. Edward sarebbe andato via da quel vuoto che non sapevano riempire, se non con una musica fatta di silenzio. Alphonse approfittò del tocco gelido delle sue mani mentre gli lisciavano la schiena ossuta, della dolcezza delle sue cure e della transitoria possibilità di sfiorare il suo corpo.

C’era qualcosa di sbagliato in quello che provava facendolo: si aspettava un conforto che non arrivava e veniva un dolore senza spiegazione.

Come ci fosse stato qualcosa che non sapeva, qualcosa che gli mancava.

“Ti amo, Otouto”

Avrebbe voluto crederci.

 

***

 

Edward Elric era la curiosità fatta persona, una curiosità che non veniva soddisfatta da molto tempo.

Il maggiordomo servì la cena poco prima che il padrone di casa avanzasse all’interno dell’immensa sala da pranzo illuminata da candele, con una camicia di seta bianca slacciata sul collo -di cui non era riuscito a mettere a posto i polsini con i gemelli di rubino-, una giacca a code sotto la quale, secondo la moda, avrebbe dovuto porre un gilet. Ignorando la lunghezza spropositata del tavolo in stile medioevale si diresse all’altro capo, sedendosi accanto a lui con una mano sotto il mento.

“Come sta la ‘La libertà che illumina il mondo’*?” Chiese, senza né salutare né trattenersi dal catapultarsi sulla sedia.

“Scusate?” strabuzzò gli occhi.

“Quella strana statua che i francesi regalarono agli americani per non so per quale motivo! L’ultima volta che l’ho vista mi pareva che il viaggio l’avesse un po’ consumata, quindi mi chiedevo se adesso fosse ancora integra” Aveva citato la Statua della libertà come fosse stata una sua vecchia conoscenza, ed aspettava che gliene parlasse ciondolando il piede in maniera discreta ma infantile. Spiegò che era stata posta su un isoletta a New York, e che era divenuta un monumento caratteristico degli Stati Uniti, ma non soddisfatto Edward chiese cosa ne pensasse in senso artistico. In seguito chiese del progresso di vari movimenti pittorici, delle recenti pubblicazioni in fatto di romanzi, delle ultime scoperte scientifiche, dei conflitti in corso e dei cambiamenti politici dell’ultimo decennio. Chiese persino se, alla fine, fosse stato catturato o meno Jack lo squartatore.

S’informò sull’Esposizione universale del 1889, rammaricandosi per non aver potuto assistere all’inaugurazione di quella che, seppe, era diventata la torre principale, il simbolo, e l’orgoglio di Parigi. Parlarono dello stile di vita, delle credenze e delle abitudini dei sudditi della Regina Vittoria, mentre Roy beveva un tè dal colore scarlatto in una tazzina di porcellana. Sembrava fosse vissuto fuori dal mondo per dieci anni, e che Roy rappresentasse il primo appiglio che questo gli tendeva per riemergere da un isolamento che gli aveva chiuso occhi e orecchie.

Quando la sua cena finì si trovò talmente intontito dalla soddisfazione e dalla serenità che aleggiavano sul suo viso che Roy non avrebbe mai detto che fosse o che fosse stato un assassino, né allora né in seguito.

“Da quanto vivete in questa villa?” il Conte si coprì il viso con un sorriso di circostanza.

“Un anno, più o meno. Vivevo in Francia e ho deciso di tornare qui per nostalgia… amo Orange manor

“Come l’avete chiamata?” Improvvisamente si chiuse la bocca con una mano, come ritenesse di aver parlato troppo. Aveva delle belle guance –anche se non aveva motivo per averle notate…  preferiva avere tutto sotto controllo-, ed abbassando il capo la sfumatura che la luce vi formava fece del suo viso una maschera di tristezza. Da un lato lo impietosì, dall’altro s’era aspettato di trovare in lui una zona d’ombra.

“Mia madre chiamava così questa villa”

“Come mai?”

“Aveva fatto portare qui delle piante di arancia rossa, dalla Sicilia, ed era riuscita a farne crescere qualcuna nel nostro giardino nonostante il clima inadatto. Fu un miracolo, in verità. Si sono seccate da tempo, ma in ogni caso questa casa porta ancora quel nome”

Avrebbe evitato di parlare di sua madre, lo promise a sé stesso. Annuì.

Non aveva interesse nell’addentrarsi in un'altra anima frantumata, i frammenti ti ferivano i piedi nella maggior parte dei casi.

Soprattutto non aveva importanza che l’avesse riconosciuto per quel che era, perché era un indizio che avrebbe lasciato cadere.

Volse il capo dall’altra parte. Andò dritto al punto. “In che modo intendete aiutarmi a trovare l’assassino di quelle persone?”

A quella domanda la sua espressione cambiò, irrigidendosi. Da bambino avido di sapere il Conte parve trasformarsi in un perfetto gentiluomo, che soppesò quelle parole con apatia prima di rispondere. “Ditemi voi, signore. Metterò a disposizione tutte le mie risorse”

“Quanti uomini ci sono nella vostra servitù?”

“Soltanto Scar, non abbiamo mai avuto bisogno d’altri”

Odiando il tono indispettito di quelle parole, Roy si passò una mano sui capelli per prendere tempo. Edward non sopportava quei capelli, né la sua faccia che sembrava fatta apposta per sfidarlo. Era stato così con tutti i suoi maestri, con tutti coloro che, si presumeva, avrebbero dovuto sapere più di quanto sapeva lui. Era stato così con lui.

Aveva giurato che non avrebbe mai messo in atto nessuno dei suoi insegnamenti, né cercato aiuto.

Non sopportava le sue insinuazioni, il suo modo d’indagare ogni suo atteggiamento con un dito sotto la grossa mascella -l’indice a sfiorargli il collo lasciato visibile-, gli occhi nerissimi ed inclinati verso il basso. Era bello, inglese e ciò che più gli premeva al mondo era conoscere e far conoscere agli altri. Era l’uomo per lui, ma allo stesso tempo odiava dover ammettere di aver bisogno di chicchessia.

“E quali sarebbero allora le risorse che dicevate di voler mettere a mia disposizione, se m’è concesso saperlo?”

Edward ridacchiò, districando le gambe. “Dipende da quante ve ne servono, ma io non sono certo il Re”

“Volete appostarvi voi stesso?”

“Non abbiamo bisogno di una grande quantità di uomini. Il nostro uomo è intelligente ma abitudinario, sapendo che il campo non è libero sicuramente attenderà fin quando non crederemo che abbia gettato la spugna o che se ne sia andato altrove. È inutile riempire i dintorni di guardie con lance e forconi, non faremmo altro che perdere tempo… noi e lui”

“E cosa intendete fare, allora?”

“Lady Pinako non vi ha detto tutto, lo immaginavo” Tacque, sorridendogli in modo diverso. Quel bambino saccente lo stava facendo impazzire, lui e i suoi misteri. “Cos’altro avrebbe dovuto dirmi?” Chiese, volendo far credere che non gl’interessava.

“Nulla d’importante, non vi preoccupate. È molto tardi, andate a dormire e domani in giornata ne parleremo più dettagliatamente. Scar vi farà strada verso la vostra camera” Il modo in cui aveva tagliato la loro conversazione aveva il sapore di scherno, e di una certa sottovalutazione di lui. Annuì, senza perdere la certezza che, se ce ne fosse stato bisogno, avrebbe saputo come cavarsela. La sua sicurezza irritava il Conte in una maniera che non gli dispiaceva, perciò ammiccò verso di lui mentre il maggiordomo lo conduceva verso la porta. Edward arrossì, in piedi in mezzo alla sala come un minuscolo elfo in una landa solitaria. Volevano parlarsi fino a non aver più voce… volevano farsi tacere l’un l’altro.

Pensando a lui Roy si chiese com’è che il Conte sapesse così tanto dell’assassino che cercavano.

 

 

***

 

La sua stanza era così ampia, barocca e presuntuosa che, se avesse potuto, Roy si sarebbe rifiutato di dormirci.

Ogni angolo della villa sembrava esser stato strappato da un'altra abitazione e trapiantato lì con malgarbo. Il maggiordomo ne aveva aperto la porta con una chiave arrugginita, ma il lussuosissimo letto a baldacchino con le pesanti tendine di velluto rosso era stato appena sistemato per lui e reso impeccabile. Non ringraziò per l’ospitalità né sì godé quello sfarzo, perché non era lì per questo. Dormì su di un fianco tutta la notte, risvegliandosi dolorante proprio mentre una bella donna dai lunghi capelli biondi, in corpetto e reggicalze e stesa sotto di lui, si sollevava per avvicinare le labbra alle sue.

La luce aveva camminato verso di lui, strisciando sotto la stoffa che copriva la finestra, fino a posarsi sulla sua fronte. Era sembrato che quella donna, accarezzandogli la fronte con una mano calda, l’avesse fatto destare dal loro sogno. Sì era buttato giù dal letto, rimettendosi giacca e pantaloni che aveva adagiato su una poltrona, decidendo di andare a cercare il Conte.

Ogni singola finestra della villa era coperta da una tenda, di modo che ogni stanza e corridoio sembrassero  inondati come di una luce lieve e soffocata che ne rendeva impalpabile l’atmosfera. Camminò in su ed in giù perdendo la cognizione del tempo, salendo e scendendo scale, con la testa rivolta alle alte pareti di pietra sopra di lui, innervosito. La vide proprio mentre il suo pensiero la sfiorava come un tocco di dita.

La Madonna dell’Umiltà.

Teneva gli occhi abbassati verso un bambino che non c’era. Non l’aveva notato.

Maria stringeva il vuoto con lo sguardo vacuo, malinconica.

Come aveva potuto avere l’impressione che l’avesse guardato con rimprovero, la prima volta che l’aveva vista?

“Come ci sono finito qui?” Sarebbe uscito di senno prima di rendersene conto, se non se ne andava da lì il più presto possibile.

Eppure non riusciva a negare attenzione alla tristezza di quella donna dal viso grande e pallido. Volse il capo dall’altra parte con fatica.

La casa sembrava vuota, eccezion fatta per lui… e per lei. Non aveva controllato la sala da pranzo o il salottino dov’era stato la sera prima, ma in qualche modo sapeva che li avrebbe trovati altrettanto vuoti. Velocizzò il passo, finendo a correre sulle scale.

Era come essere in trappola. Ricordò l’espressione saccente sul bel viso del Conte, e digrignò i denti.

Lui lo sapeva, lo aveva sempre saputo. Sia che fosse stato innocente sia che fosse stato un sadico assassino, non avevano mai smesso di essere nemici, ed aveva deciso d’imprigionarlo. Smise di agitarsi, strisciando con la schiena fino al pavimento.

“Si fa giorno e tutti scompaiono! Se questo è uno scherzo devo ammettere che è davvero ben riuscito…” Ghignò tra sé.

Camminò, poi, toccando le maniglie bronzee e scolpite di ogni porta. “’’Domani in giornata ne parleremo più dettagliatamente’ un corno! Cosa diavolo stavo guardando per farmi beffare da un fottuto moccioso?” Il suo bel collo, le sue belle labbra, i suo gesti vaghi e scostanti che un normale ragionamento non sapeva seguire. “Sei tu, non è così? Sarebbe così assurdamente semplice…”

Cominciava a parlare con lui, anche senza averlo di fronte. Lo sguardo poteva captare fasci di luce bianca a perdita d’occhio, rendendo ogni cosa sfocata e fluttuante. “… così semplice e così normale! Può essere solo il capriccio di un bambino?”

Si coprì la bocca con una mano, perché nessuno avrebbe risposto alle sue domande. Nemmeno quella Madonna malinconica che i suoi pensieri non smettevano di sfiorare. “Cosa diavolo sto facendo?” Rise tra le spalle tremanti, con la mano sul collo di un leone di bronzo.

La maniglia cedette e lasciò che la porta si aprisse. Fino ad allora tutte le stanze erano state chiuse, impossibili da esplorare.

“Mi prendi in giro, piccolo idiota?” La voce del Conte non giunse a rispondergli per le rime.

Probabilmente avrebbe riso e detto che sì, quello era stato il suo obbiettivo fin dall’inizio. Giocare con lui come fosse stato un giocattolo.

La camera che si trovò davanti era più piccola della sua. Gli dette l’impressione che le pareti, vedendolo entrare, avessero cercato d’abbracciarlo. Nemmeno ad un raggio di sole era stato permesso d’entrare, ma ciò che più che colpiva l’attenzione era il drappo di velluto rosso che, dal soffitto, scendeva a dividere a metà lo spazio disponibile.

“Bingo”

Se vuoi sconfiggere un nemico cerca il suo punto debole, era la regola più ovvia di questo mondo. Davanti al tallone d’Achille del piccolo idiota, il suo volto era divenuto sicuramente diabolico. Il piccolo fratello minore indifeso… era una trama così lineare da essere perfino noiosa.

Solo metà del suo corpo - abbandonato come un cadavere su una poltrona- era visibile. Gli stessi bellissimi lineamenti del fratello, capelli un poco più scuri, la linea delicata delle palpebre chiuse in un sonno profondissimo ed avvelenato. 

Aprì gli occhi mentre lo guardava.

“Ti ho chiamato io qui?” Chiese.

“Può darsi” Rispose.

Si strofinò gli occhi gonfi, assonnato, senza ricomporsi. “Ho dormito qui ed ho lasciato la porta aperta per voi”

“Volevate parlarmi?” Il ragazzo tentennò la testa mordendosi le labbra. “Il termine esatto sarebbe pregarvi… credo”

“Pregarmi di cosa?”

“Di andarvene. Voglio rimanere qui ancora un po’, non voglio vedere il mondo che Edward vuole che mi mostriate” Annuì, comprendendo. Quel ragazzino aveva le idee molto più chiare riguardo a ciò che voleva, ed in qualche modo rendeva le cose più facili. Non lo odiava, ma non lo voleva lì.

“Non sono qui per questo” Lo rassicurò.

Sorrise, reclinando il collo all’indietro, come fosse stato appena liberato d’un peso. “Non sono ancora pronto”

“Per fare cosa?”

“Per vedere il sole” Dire quella parola l’aveva fatto ridere, rabbrividire, e rannicchiarsi con le ginocchia nude al petto.

Roy stette a guardare come dormicchiava per qualche secondo, incapace di mantenersi sveglio, con un espressione di biasimo –per sé stesso- sul volto. Non sentì di dover stare in guardia, davanti a lui. Stette al centro della stanza, accontentandosi di quello che vedeva e di quello che riusciva a comprendere dagli gesti indolenti, dalle parole vaghe. “Da quanto non lo vedete?”

“Dieci anni”

“Perché?”

“Nostro padre… non volle più. Disse che ci avrebbe uccisi”

“Come mai?” Scosse la testa, per dire che non lo sapeva.

“La mamma era con noi… è con noi. Questo mi basta, anche se siamo a Reesembool” Parlava per parole chiave, come lasciando delle briciole di pane sulla strada per la verità. ‘Sole’, ‘Padre’, ‘Mamma’, ‘Reesembool’. La sua ingenuità rivelava ogni cosa il fratello aveva cercato di nascondergli, e ciò faceva di lui un folletto buono di cui ascoltare gli indizi e gli indovinelli. “Perché non dovreste essere a Reesembool?”

Il suo viso cambiò, mentre si rendeva conto di quella domanda. Toccandosi il mento con un dito mugugnò, pensandoci.

La bocca morbida si modellò in un ghigno. “È per la nostra maledizione”

“Maledizione?”

“La mamma la chiamava così” Un lampo rosso brillò negli occhi improvvisamente sottili. “Una maledizione che gli Elric lanciarono su Reesembool”

Roy rise. Il ragazzo, sghignazzando, non fece nulla per fargli credere che scherzava. “Esattamente la storia che qualunque sciocca nobildonna londinese amerebbe alla follia” Giudicò, fra sé.

“Non saremmo mai dovuti tornare qui… mai. La gente muore quando lo facciamo”

Tremò. Se era il modo di cominciare una confessione, doveva ammettere che era davvero originale. Non c’era nessun errore nella pista che stava seguendo, e l’improvvisa perversione che aveva intravisto nel sorriso sghembo del giovane Conte glielo confermava. Non commentò quell’affermazione. “Ma io voglio rimanere qui… non voglio essere portato via. Non lo voglio io… non lo vuole Edward… non lo vuole la mamma…”

Il suo collo fu stretto nelle sue mani bianche prima dello scorrere di un secondo.

Allibito, rimase immobile.

“… non voglio ricordare…” Sussurrò, cingendogli i fianchi con le braccia. “… sarei disposto ad uccidervi, per non ricordare…”

Poggiò il capo sulla sua schiena. “… per non ricordare e rimanere qui con la mamma e con Edward… per sempre…”

Le mani sul grembo della Madonna gli tornarono alla mente nel momento meno opportuno. Deglutì per mantenere la calma, senza troppi risultati. Ma quell’immagine non la smetteva di fluttuare nei suoi pensieri come un velo che non riusciva a togliersi dal capo.

“Dov’è vostra madre?” A quella domanda la morsa in cui era imprigionato si sciolse, ed il Conte camminò verso il drappo rosso.

“Ora che ci penso, non mi sono presentato, Signor Mustang. Perdoni la mia scortesia…” Mosse il corpo sottile, afferrò la stoffa, sollevandola.

“Il mio nome è Alphonse…”

Il cadavere della Madonna del dipinto giaceva su una poltrona nera. “… e questa è Trisha. Mia madre”

Imboccò la porta, persuaso dell’idea di avere un altro nemico.

 

*Passo tratto dal “Dracula” di Bram Stoker, romanzo pubblicato esattamente tre anni prima dell’anno in cui si svolge questa storia. Il punto di vista è del professor Van Helsing, il quale, essendo olandese e non conoscendo bene l’inglese, si esprime in maniera un po’ sgrammaticata.

*Si riferisce al modo di parlare di Dracula che, com’è noto, era rumeno.

*La “Libertà che illumina il mondo” è il vero nome della Statua della libertà.

 

 

Note dell’autrice!

Salve a tutti, come vi va la vita? xD questo è il secondo capitolo che, sono sicura, avrete aspettato con profonda ansia (ahah).

Tanto che mi piace riempire ‘sti spazi con informazioni del tutto inutili vi svelo qualche retroscena della fic: originariamente questa storia doveva essere di Naruto e, detto alla buona, Roy era Naruto, Edward era Neji e Alphonse era Hinata, Scar era Gai (con l’ausilio di un altro cameriere che era Rock Lee), i cadaveri imbalsamati erano due ed erano Shino e Kiba xD Al posto di Pinako avevamo Itachi con il piccolo Sasuke. Ripensandoci adesso mi fa quasi strano vedere com’è venuta fuori alla fine.  Va buo, ci vediamo la prossima settimana… a meno che non mi arrivino secchiate di commenti imploranti del tipo “muoio se non aggiorni immediatamente!”, ma dubito che sarà così.

A sabato prossimo!

 

Covianna: Tu mi dici che dovevo avvertire su facebook? xD ma se quando l’ho fatto hai commentato là e non su efp! Se quello è l’effetto preferisco evitarmi quel tipo di pubblicità, che perlopiù è sempre stata inutile.  So che non c’era molto da giudicare nel primo capitolo, ma diciamo che era d’introduzione e verso la fine di questo entriamo nel clou della storia, l’azione vera e propria ci sarà poi negli ultimi due capitoli.

Setsuka: Che dirti, non so come facevi ad essere già così entusiasta solo leggendo l’introduzione xD i tuoi commenti mi rimettono sempre al mondo, sono già delle piccole opere d’arte di per sé. Mi dispiace che non ci sia molta azione nemmeno in questo capitolo, ma spero di potermi rifare con gli ultimi due.

Icaro smile:  Grazie per il commento, spero che tu abbia apprezzato anche il secondo capitolo *O* baci.

My pride & Valerya90: A voi non serve che risponda nel dettaglio, ma grazie ancora xD

 

 

 

   
 
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