Storie originali > Generale
Ricorda la storia  |      
Autore: habanera    18/11/2009    2 recensioni
Dioniso non è mai stato un ragazzo come tanti altri. Viaggia, senza mai trovare una dimora fissa.
Zaino in spalla, erra per il mondo viaggiando su treni merci, per poi scendere ad ogni stazione dove questi fanno sosta, vivendo nella cittadina per un breve periodo – al massimo una settimana. È un giovane proveniente da una famiglia agiata, ma non condivide lo stile di vita dei parenti. A dire il vero è sempre stato bizzarro, particolare, curioso. Dioniso è un tipo fuori dalle righe, desideroso di fuggire da una vita sedentaria e al contempo agognando un proprio posto nel mondo. Il classico adolescente in fuga, certo. Una voce fuori dal coro.

Nata da quella che in origine era la rimodernizazzione del mito di Dioniso, la storia parla del giovane dio che riveste il ruolo di giovane errante apposta per questa storia. Dedicata alla cara professoressa B d'italiano, visto che le è piaciuta così tanto.
[Lievi accenni di shonen-ai.]
Genere: Sovrannaturale, Mistero, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

~Dionisos

 

 

Dioniso non è mai stato un ragazzo come tanti altri. Viaggia, senza mai trovare una dimora fissa.

Zaino in spalla, erra per il mondo viaggiando su treni merci, per poi scendere ad ogni stazione dove questi fanno sosta, vivendo nella cittadina per un breve periodo – al massimo una settimana. È un giovane proveniente da una famiglia agiata, ma non condivide lo stile di vita dei parenti. A dire il vero è sempre stato bizzarro, particolare, curioso. Dioniso è un tipo fuori dalle righe, desideroso di fuggire da una vita sedentaria e al contempo agognando un proprio posto nel mondo. Il classico adolescente in fuga, certo. Una voce fuori dal coro.

Non c’è piacere che non abbia sperimentato, da quello dell’alcool a perdizioni molto meno legali. Le ultime notizie a suo riguardo che arrivarono a casa, erano a proposito di un certo giro di spaccio in cui era finito. Ovviamente nessuno andò a recuperare il giovane, sbrigando la faccenda a distanza.

Non è un ragazzo benvoluto dalla propria matrigna, no. Nato da una relazione extra coniugale del padre, colei che lo mise al mondo morì in un incendio a fine gravidanza; i medici riuscirono solamente a salvare il bimbo. Nessuno mai seppe come le fiamme erano divampate, ma Dioniso da sempre sospetta di Era, moglie di Zeus, suo padre naturale.

Al momento si trova sul treno merci che lo porterà a Tebe, cittadina natale della madre Semele. La testa appoggiata contro una cassa, gli occhi sono chiusi, apparentemente come in un sonno conciliatorio. I lunghi capelli corvini scendono lungo le spalle, incorniciando il viso dai tratti sottili, femminei, le labbra carnose semi schiuse. È il ritratto della pace. Tra poco più di un’ora, arriverà alla stazione tebana e dovrà essere pronto a immergersi nel quotidiano traffico cittadino.

Nello scomparto non è solo. Dal suo ultimo viaggio in Asia, si accompagna con delle graziose fanciulle orientali dalle generose curve, la pelle diafana e una gran passione per la bella vita. Sono tutte addormentate l’una vicina all’altra per scaldarsi nella frescura dell’albeggiare novembrino. Una di loro ha il capo poggiato contro la spalla di Dioniso, un’altra sulle gambe del moro. Sembrano tante sorelle che si stringono in un abbraccio familiare attorno al fratellino.

Ora, volgiamo lo sguardo alla meta del giovane bastardo e della sua compagnia femminile: Tebe è una cittadina media, né troppo caotica e sovrasviluppata, né paesino di campagna. È una località abbastanza nota – certo, non come le megapoli di Atene e Sparta, ma comunque ha la sua scorta di notorietà, raggiunta grazie al duro lavoro della famiglia che fin dalla sua fondazione detiene il ruolo di prima cittadinanza.

Il traffico non è eccessivo, sebbene all’ora di punta vi sia qualche ingorgo che si risolve nel giro di mezz’oretta. C’è anche una China Town, appena verso la periferia, oltre al centro storico pieno di monumenti antichi. A Tebe è particolarmente sviluppato il settore terziario, dal momento che vi è una grande affluenza di turisti. La città ha conservato il suo fascino antico, senza divenire troppo modernizzata come le due metropoli già citate; andare a visitarla è come fare un tuffo nel passato.

Nel frattempo il treno rallenta la sua corsa, fino a fermarsi del tutto. Un paio di occhi dorati si aprono lentamente nell’oscurità, per poi richiudersi con pigrizia. Dioniso sbadiglia, congedandosi dalle braccia di Morfeo, per poi riaprire gli occhi ambrati. Pian piano, prende coscienza del luogo in cui si trova, grugnendo mentre sveglia le compagne di viaggio. Il vagone si riempie di mugolii e sbadigli, mentre tutte le ragazze si svegliano. Qualcuna apre la porta del vagone, facendo entrare la luce mattutina e qualche refolo di vento gelido che scaccia via ogni residuo di sonno dagli occhi del moro. È il primo a balzare fuori dal treno merci, zaino in spalla e berretto in testa, seguito dalle sorelle; fa qualche passo sull’erbetta che cresce tra i binari, inspirando l’aria tebana per poi fermarsi e guardarsi intorno.

La stazione dei treni merci risale agli anni ’70, i muri sono scrostati in alcuni punti, in altri vi sono delle grandi chiazze d’umido. Oltre al mezzo di trasporto appena lasciato, sull’altro binario c’è un treno cisterna molto vecchio, in alcuni punti un po’ rugginoso e dalla vernice un tempo candida, ora scrostata e giallina.

Con un sospiro, Dioniso guida il gruppo verso la città, pronto a raggiungere l’obiettivo prefissato.

Nella stanza del Sindaco, Penteo da Tebe, seduto sulla poltrona del Primo Cittadino, firma alcune carte, mentre alcuni ciuffi corvini sfuggono dalla stretta coda bassa in cui li ha raccolti, per finirgli sul viso. La giornata si prospetta estenuante, considerando che deve ancora emanare le ordinanze sulle bande giovanili che si riuniscono sotto i monumenti ingaggiando talvolta risse, per poi nottetempo sporcare i muri della città coi loro graffiti. E c’è anche il meeting con la trasmissione televisiva che farà un documentario sulla cittadina.

Considerando che quella è solo l’agenda delle sue prime ore mattutine, probabilmente tornerà a casa tardi come ogni giorno, la moglie si lamenterà del suo lavoro che gli porta via troppo tempo, i figli vorranno essere messi a letto da lui; sua madre invece insisterà per fargli fare più ore lavorative, austera nella sua figura matriarcale. Deve sinceramente dare una scossa alla sua vita, se continua così impazzirà.

Magari potrebbe farsi un’amante, riflette, impilando autorizzazioni su autorizzazioni, per poi metterle da una parte insieme a quelle già firmate. No, tradirebbe i principi grazie ai quali hanno eletto lui e non un suo diretto cugino. In ogni caso, prima viene Tebe. È il Primo Cittadino, no? E allora spetta a lui aumentare lo splendore e la fama della sua beneamata città natale.

Bussano alla porta. Con un sospiro, si sistema il colletto della camicia e liscia la cravatta, per poi gracchiare un «Avanti», schiarirsi la voce e ripetere la parola con più solennità. L’uscio si apre di schianto, mentre un giovane uomo entra di volata. È Callisto, il Consigliere Comunale. Non troppo alto, raggiunge appena il metro e settanta. I suoi lineamenti ricordano quelli di un bambino troppo cresciuto, sulle guance un’ombra di barba biondiccia come i suoi capelli, segno di una mancata rasatura mattutina. Generalmente sempre elegante o comunque dall’aspetto curato, quel giorno è in disordine, come se fosse uscito in fretta e furia dal letto, vestendosi con gli abiti del giorno prima (l’uomo ha l’abitudine di cambiare vestiario ogni giorno), infilato le prime scarpe trovate –per giunta spaiate- e corso al Comune.

«Cosa succede, Callisto?» domanda l’uomo, aggrottando le sopracciglia e invitandolo a sedersi su una delle poltroncine di fronte alla sua scrivania. Dev’esserci qualcosa di grosso, perché sennò se la sarebbe presa con più calma.

L’uomo si sistema dove indicato, un po’ ansimante. «Signore, è il caos. Una banda di giov-» non fa in tempo a finire la frase, che il Sindaco lo zittisce con un gesto svogliato della mano.

«Se si tratta delle solite bande giovanili, potevi prendertela con più calma. O telefonare.» sbuffa, infastidito. «Non ho tempo da perdere con queste cose. Ci penserò più tardi» riferisce, tornando alle sue scartoffie.

«Signore, se mi permette, questi non sono i soliti scapestrati. Sono delle ragazze, femmine. Non si sa quando siano arrivate – ieri sera, probabilmente- ma da allora si sono stabilite nelle strade e nelle piazze bevendo, cantando, fumando e…»

«Le forze dell’ordine non hanno fatto niente?» lo interrompe nuovamente Penteo, guardando il volto stravolto dell’uomo e aspettandosi una risposta soddisfacente, che puntualmente non arriva.

Callisto abbassa il volto, mortificato. «Ci hanno provato.» mormora, prima di iniziare a raccontare della reazione violenta delle donne all’arrivo della polizia, di come erano riuscite a scacciare coloro che erano stati inviati a riportare all’ordine la situazione sotto lo sguardo penetrante e soddisfatto dell’unico personaggio di genere maschile della compagnia, seduto sui gradini della loro più importante chiesa a fumare erba. Non sembrava un tipo violento, anzi. Aveva l’aria pacifica, seppur coperta da un  velo di malizia.

«Scacciatele con la forza. E se non bastasse la polizia locale, voglio l’intervento delle truppe armate di Sparta» proferisce l’uomo, serrando le pallide labbra, indignato dal comportamento di quei nuovi stranieri. «Buttate fuori quelle sgualdrine da Tebe. Ora!» tuona, deciso a difendere l’onore della propria città. Il buon nome di Tebe non può essere sporcato da simili episodi, quella marmaglia di donnicciole non rovinerà la fama di casa sua.

«Ma signore…» prova ad obiettare il biondo, stringendosi nelle spalle, abbassando ancor più gli occhi cerulei, per ricevere un pugno sul tavolo come risposta. Ciò nonostante, non si scoraggia. «Nel gruppo non ci sono solo ragazze straniere. Le donne tebane –ecco, non vorrei comunicarvelo così, ma sono come impazzite. Sono uscite dalle loro case per unirsi al piccolo circo del ragazzo seduto sulle scale, perfino sua madre e sua moglie vi si sono unite».

Probabilmente, in quel momento Callisto agogna a una bella botola per seppellirsi, appena l’uomo manifesta ancor più la propria frustrazione. «E mentre correvo qua, mi hanno detto che le donne di Tebe stanno migrando tutte verso le colline qua vicino assieme alle ragazze asiatiche» aggiunge, con un filo di voce. Brutta, brutta situazione.

Pacificamente seduto sugli scalini dell’edificio sacro, il ragazzo dagli occhi d’ambra, rimasto solo fissa soddisfatto la folla che segue le sue Sorelle e le donne della città. Farle ‘impazzire’ è stato fin troppo facile.

Influire sulle personalità della gente è una delle cose che gli riesce meglio. Gli piace giocare, specialmente con le vite delle persone. Ma al momento, è troppo impegnato a fissare l’uomo che gli si avvicina, i capelli stretti in una coda e qualche ciuffo ribelle che ricade sul volto contratto in un’espressione irata. Assottiglia lo sguardo, cercando di stabilirne l’età. Venticinque-trent’anni. È giovane, cavolo. E quell’aria austera non gli si addice.

Reprime la svogliatezza del proprio sguardo, increspando le labbra in un sorriso lezioso, quando l’uomo gli si para davanti. Come risposta, l’altro si abbassa alla sua altezza, afferrandogli i capelli corvini e tirandogli il capo all’indietro. «Salve» scandisce con calma, con un ghigno soddisfatto quando l’espressione di Dioniso si contrae in una smorfia di dolore. «Sei tu il capo di quel branco di straniere?» lo interpella, sebbene sia una domanda retorica, alla quale il giovane risponde con un sorrisetto sforzato. «Sì».

A tale affermazione, Penteo gli lascia andare la testa, il ragazzo si massaggia il capo dove prima c’era la mano dell’uomo. «Io sono Penteo, il sindaco di questa città. Per tua informazione, le tue sgualdrine le ho fatte rinchiudere al fresco» asserisce, mentre cerca un pacchetto di sigarette per accendersene una. Quindi  aspira nervosamente una boccata di fumo. Dioniso recupera la propria espressione mite, tornando a sorridere all’uomo. «Ah sì? Cioè, le hai fatte richiudere in una cella?»  s’informa incuriosito, mentre il moro lo osserva inarcando un sopracciglio e alzandosi in piedi, venendo imitato poco dopo dal più giovane. Soffia via il fumo, scrutando quel bizzarro ragazzo. «Sì. Come mai questa domanda?»

Un attimo dopo, la sua attenzione viene attirata da alcune risa femminili. Si volta di scatto, vedendo le amichette di Dioniso arrivare nella piazza principale della città come se nulla fosse accaduto. E il moro di fronte a sé che sorride, con un velo d’ironia. Prima di potersene rendere conto, l’ha afferrato per il polso, condotto in questura e fatto arrestare, per poi ordinare una spedizione per far tornare le donne tebane in città, volenti o nolenti.

Mezz’ora dopo, bello che sistemato nel suo ufficio e sicuro di essersi liberato del ragazzino dagli occhi dorati e della follia delle sue concittadine, Penteo è tornato alle sue normali mansioni. Firma questo, autorizza quest’altro, ‘…allora la organizziamo la fiera quest’anno?’, ancora scartoffie, moduli da compilare e eventi da organizzare. Ad un tratto qualcuno bussa alla porta. Con uno sbuffo, l’uomo lascia che il visitatore entri senza nemmeno sollevare il capo dal proprio lavoro. Probabilmente è Callisto, pensa. Eppure, non sente i suoi passi sulla moquette. Allarmato, solleva il volto, cercando per la stanza il misterioso ospite, senza però riuscire a scorgere nessuno.

Dei capelli gli solleticano il collo e la guancia sente all’improvviso un contatto estraneo. «Dunque è questo il lavoro di un sindaco?». Penteo trattiene un grido strozzato di terrore, quando si discosta dalla figura sconosciuta, per poi riconoscervi il giovane Dioniso. «Tu eri… dietro le sbarre!» gracchia, il tono di voce improvvisamente stridulo. Il ragazzo lo ignora, sedendosi sulla scrivania davanti a lui, ritrovandosi quasi sulle sue ginocchia. «È ben noioso, Penteo» continua, riferendosi sia al mestiere del più anziano tra i due, calcando sul nome del moro, sia allo stare in galera. L’altro boccheggia, senza capirci più nulla. «Come…»

«Come ho fatto ad uscire?» completa il ragazzo, sorridendo idilliaco. Il Sindaco annuisce, deglutendo. «So che avevi dato disposizione ai tuoi uomini di non farmi uscire neanche se fossero stati minacciati di morte, ma purtroppo quando un edificio va a fuoco, non ci si può far nulla… » si stringe nelle spalle, scuotendo i corvini capelli che, ora che l’uomo ci fa caso, hanno lievemente la piega all’infuori. «Piromane» lo accusa, fremendo d’ira.

Dioniso sgrana gli occhi, con fare innocente. «Ma signore, io non ho fatto nulla, sono cose che capit-» non finisce la frase, che nella stanza fanno irruzione il Consigliere Comunale e il capo della Polizia, sorprendendoli in quella che effettivamente è una posizione molto equivoca. Per trarsi d’impaccio, Penteo scatta in piedi, avvicinandosi ai nuovi arrivati, sotto lo sguardo stupefatto dei due e dispiaciuto del ragazzo seduto sulla scrivania.

«Cosa succede?» domanda, gli occhi color oro nero che vagano dal biondo all’uomo in divisa. Per tutta risposta, Callisto scuote il capo, soffocando un rantolo. «La spedizione per recuperare le tebane è fallita» proferisce l’altro. «Quando le abbiamo avvistate, sembravano uscite dalla Grecia classica dell’età dell’oro. Ricorda? L’era in cui esseri umani e dèi convivevano e il cibo spuntava spontaneamente» il Sindaco annuisce, facendogli segno di continuare. «Appena siamo entrati nel loro campo visivo però sono improvvisamente mutate. Ci si sono scagliate contro con una violenza inaudita, uccidendo tutti all’infuori di me. Mi sono salvato per miracolo» afferma, la voce ridotta a un mormorio. Penteo rimane senza parole, distogliendo lo sguardo dal volto del poliziotto.

«Capisco» mormora, amaramente. E dopo aver congedato i due, si volge nuovamente verso Dioniso, il quale ricambia lo sguardo con un sorriso enigmatico. Torna a sedere sulla poltrona abbandonandosi sullo schienale, sfoggiando per la prima volta in vita sua un’espressione totalmente distrutta.

«Qual è il tuo nome, ragazzino?» lo interpella, accendendosi svogliatamente una sigaretta. «Non ha importanza», sorride Dioniso, mentre incrocia le gambe sul tavolo.«Piuttosto, non hai curiosità di sapere cosa fanno le donne della tua città –tra cui tua moglie e tua madre?» aggiunge, piegando il capo di lato, lo sguardo ambrato puntato in quello bruno di Penteo. «Oh, dai, prova a immaginarle. Cosa staranno mai facendo ora? Allattano cuccioli di orso? Staranno facendo un’incredibile orgia? Oppure stanno banchettano con nettare e ambrosia, cibo degli dèi?» domanda, senza interrompere il contatto visivo. Notando il l’espressione indignata dell’uomo, sorride col ghigno di un piccolo diavolo tentatore, avvicinando il proprio volto a quello del sindaco con fare di sfida. «Non vorresti vedere coi tuoi stessi occhi cosa combinano?» propone, inarcando un sopracciglio. «Certo, corri i tuoi rischi andando da loro, ma ricorda una cosa: i tuoi uomini sono stati uccisi perché si sono presentati come ostili. Per garantire la tua incolumità, basterà vestirti come me. In fondo, noi due non siamo tanto dissimili» ride, mentre si sporge a sciogliere la coda di Penteo, i capelli corvini che ricadono sulle spalle, le mani che scivolano a sfilargli la giacca, sciogliendo il nodo della cravatta e sbottonando un po’ la camicia.

«Avanti, vieni con me» esclama, balzando giù dalla scrivania e afferrandolo per il polso, trascinandolo fuori. «Le mie Sorelle sapranno cambiare il tuo aspetto perfettamente, vedrai»

Un’ora dopo, Penteo scruta le donne di Tebe dalla chioma di un albero. A dire il vero, il suo aspetto è talmente mutato che neanche si direbbe sia proprio il Sindaco della cittadina greca, lo stesso che quella mattina premeditava di farsi un’amante, per poi scacciare l’idea. E, mentre le osserva, si accorge che la loro non è una vera e propria pazzia, ma anzi la follia è dilagata nel gentil sesso come una malattia epidemica.

Osserva la figura di sua moglie, la stessa di cui anni prima si era innamorato per poi sposarla, ne segue con lo sguardo la linea delle curve, le labbra carnose che addentano un frutto, mentre sua madre Agave intreccia corone di fiori. Una sagoma femminile canta, qualcun’altra danza, altre donne siedono in mezzo a volpi e lupi senza che sia fatto loro del male. Incantato, Penteo si sporge cercando di cogliere altri sprazzi di quell’idillio.

La situazione si ribalta nel giro di pochi secondi. Le donne, appena si accorgono della sua presenza, scattano in piedi, le danze e i canti s’interrompono e tutte si riuniscono intorno al pino sul quale egli si è rifugiato per cercare di abbatterlo e ucciderlo. Invano il Sindaco cerca di farle ragionare, invano invoca il nome della moglie e della madre. Nessuno gli dà retta, la loro rabbia le spinge a straziare il suo corpo, sventrandolo. Agave prende la sua testa, vittoriosa, conficcandola sulla cima del ramo spezzato che ha usato come bastone da passeggio da quando si è trasferita nei boschi.

E pian piano, vengono raggiunte da due prudenti Cadmo e Tiresia, l’uno padre di Semele –nonché nonno di Penteo- e l’altro filosofo letterato. Iniziano a danzare con loro, ma nel bel mezzo delle danze riconosce la figlia Agave, che sfoggia vittoriosa la testa del nipote, credendo che sia quella di una bestia feroce. Inorridito, cerca di farla ragionare, riuscendo alla fine a rinsavirla. Quando questa si rende conto delle sue azioni, getta via il bastone urlando, premendosi i palmi sulle tempie e fugge via, lontano da Tebe, lontano dall’orrore, lontano dal cadavere del figlio. Anche Cadmio se ne va, affranto, piangendo la sorte della figlia e del nipote.

La notte è scesa, gelida e senza stelle; la stazione di Tebe è sempre la stessa, vecchia, arrugginita e vuota.

L’erbetta che cresce tra i binari dei treni è lievemente ricoperta da una patina di umidità, che risulta compatta, almeno finché il piede del giovane che sta attraversando di corsa le rotaie non la calpesta. Allora diventa solo una piccola massa d’acqua e d’erba appiattita sul terreno, mentre il ragazzo corre verso il vagone del treno merci dal quale le mani delle sue Sorelle si tendono verso di lui, inicitandolo a sbrigarsi, poiché il treno comincia a muoversi.

Con un colpo di reni, Dioniso salta su, accolto dalle braccia del suo seguito, dalle risate e da quel piccolo calore per lui non tanto dissimile da quello di una famiglia che si è creato da solo. Si accoccola accanto a una Sorellina più piccola, i corti capelli castani tagliati a caschetto e la pelle color porcellana e le carezza una guancia, prima di darle un bacio sulla fronte. «Buonanotte» sussurra, notando che la ragazzina è dormiente, poggiando il proprio capo contro il suo e addormentandosi a sua volta.

Il giorno dopo arriverà in un'altra cittadina, cambierà irreversibilmente le vite di altre persone. E così sarà anche il giorno dopo ancora, e ancora, e ancora. Questa è la sua vita, il vagare fine a sé stesso, il giocare con le vite altrui, i divertimenti, i piaceri. Perché questo è Dioniso, incarnazione di tutto ciò che è sensuale, caotico - quasi psichedelico-  e irrazionale della vita.

Angolo dell'autrice

Ed eccomi qua con la mia prima fanfiction. Anzi, col mio primo tema, come avrete di sicuro letto dall'introduzione. Beh, si da il caso che io ne vada partcolarmente fiera, Dioniso è il mio piccolo amorino - solo che non ha né aluccie né grasso in eccesso - e perciò ci tenevo a pubblicare per prima la sua storia... Che altro dire, mi rimetto al vostro giudizio!

Bye!

   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: habanera