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Autore: Frances    19/11/2009    3 recensioni
~ The tale of a man who lost his name and got bitter lies and silent suffering instead
[Tseng x Aerith]
Prima Classificata allo Tserith Contest indetto da Valychan
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aeris Gainsborough, Tseng
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Four; The pink-dressed and her letters • [ ν ] - εуλ 2002/2003 (xxx)

The day he made a promise of loyalty to his opponent

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In un nuvoloso pomeriggio di ottobre, Aerith attraversò il Settore 6 fino a raggiungere il piccolo parco giochi spingendo un carrellino cigolante in cui erano ordinatamente sistemati dieci piccoli mazzi di fiori appena colti. Era il suo primo timido tentativo: aveva chiesto aiuto per scegliere i fiori più belli e li aveva raccolti uno ad uno, avvolgendoli nella carta velina colorata con la stessa perizia con cui avrebbe preparato un regalo.

La sera prima, quando Tseng aveva raggiunto la chiesa per il quotidiano turno di sorveglianza, l’aveva trovata intenta nel comporre attentamente un mazzo di boccioli bianchi e rossi: stava legando un nastro viola intorno agli steli recisi, le dita affusolate che lavoravano un grande fiocco lucido.

« Che ne pensi?» gli aveva domandato, tendendo le braccia fino a piazzargli il mazzo sotto il naso « Ti viene voglia di comprarlo?» lo aveva guardato piena di aspettative.

Tseng aveva trattenuto il respiro, i petali ed i pollini dei fiori che gli solleticavano il volto ed il loro profumo che si confondeva fino a fargli girare la testa. Aveva battuto le palpebre, guardando lei e poi la sua prima composizione floreale.

« Ti spiace vendermelo?» aveva tirato fuori il portafogli dall’interno della giacca; e sebbene lei avesse inizialmente allontanato il mazzo con espressione perplessa, alla fine aveva giocosamente iniziato a contrattare.

Era stato il suo primo cliente. Aveva pagato in silenzio, senza fare caso al prezzo, ricevendo l’acquisto direttamente dalle mani di Aerith; gli aveva regalato in cambio un sorriso così sincero e limpido che Tseng pensò che quel mazzo di fiori valesse molto più della cifra irrisoria di cui lei si era accontenta.

La sera del suo timido debutto sul mercato dei bassifondi, la ragazza si era incamminata attraverso il quartiere con la sua merce profumata, piena di buona volontà ed impazienza.

Tseng l’aveva vista uscire dalla chiesa tenendo strette le mani sul manico di legno dell’improvvisato mezzo di trasporto, stando attenta a non far urtare le piccole ruote sui grandini della scalinata. L’aveva osservata da lontano, ascoltando ogni sua parola, seguendo i suoi passi fino al luogo in cui si erano parlati la prima volta – riuscì stranamente a compiere il proprio lavoro senza alcuna interruzione, senza imprevisti, e senza che lei desse mai segno di essersi accorta della sua presenza.

Zack Fair l’aveva accompagnata lungo tutto il tragitto, tentando di adeguarsi al suo passo lento, senza smettere di parlare un attimo. Di tanto in tanto si era offerto di spingere il carretto per lei, ma dopo che aveva rischiato di rovesciarlo mentre lo conduceva accelerando il passo, lei aveva scosso il capo e declinato ogni sua offerta. E nonostante con lei facesse spesso e volentieri figuracce tremende, Aerith rideva sempre con garbo, nella giusta misura, senza mai eccedere o offenderlo; dava retta alle sue spacconate da supereroe o le sue osservazioni divertite come se ascoltare la sua voce fosse l’unica cosa di cui avesse bisogno.

Quando infine raggiunsero il parco giochi, Tseng li vide appostarsi vicino all’altalena sbilenca. Avrebbe voluto raggiungere Aerith e assisterla in quel momento che lei considerava così importante, ma il dovere lo costrinse a tenersi in disparte.

Non solo il dovere. Una voce nella sua testa gli sussurrò la verità, ma lui cercò di rimandarla indietro. Poggiò la schiena sulla superficie ricurva di un enorme animale cavo nel quale a volte i bambini giocavano a nascondino – incrociò le braccia, in attesa.

Il carrellino ricolmo di fiori colorava quell’angolo polveroso di tinte insolite – alcuni ragazzini si voltarono incuriositi, interrompendo i loro giochi.

« Credi davvero che in fin dei conti qualcuno comprerà i miei fiori?» il tono di Aerith suonò improvvisamente teso « Non è ancora venuto nessuno.» le sue parole provocarono un leggero divertimento in Tseng. Erano lì da pochi minuti, ma lei non era mai stata un tipo paziente.

« Vedrai che arriveranno!» la rassicurò Zack, benevolo, sicuro di sé come al solito « Devi solo aspettare un po’ di più.»

Aerith si toccò preoccupata una guancia, studiando il carrello con aria critica ed un po’ rassegnata:

« Se non arriverà nessuno, darò la colpa al tuo carrello! Non è abbastanza grazioso.»

Lui rise in risposta:

« Appena potrò te ne costruirò uno più carino, allora.»

Lo sguardo di Tseng si perse nel vuoto; volse gli occhi al reticolato metallico ed arrugginito che faceva da recinzione al parco, lo fissò a lungo senza vederlo. Ascoltare le loro conversazioni era terribile quanto spiarli quando rimanevano in silenzio tra le mura della chiesa, godendo semplicemente della compagnia l’uno dell’altra. Avrebbe voluto andarsene, si sentiva un intruso, superfluo come un terzo incomodo. Ma i suoi piedi rimasero fermi, immobili nella polvere. Non poteva abbandonare l’incarico.

« Un cliente!» sbottò d’un tratto Aerith a bassa voce, mentre un individuo attempato varcava l’entrata del parco giochi probabilmente per recuperare i propri figli. Zack gli corse incontro, tagliandogli la strada – l’uomo indietreggio di un passo, sulla difensiva. D’altronde un esagitato ragazzo dall’aspetto non esattamente comune – indossava la divisa SOLDIER della ShinRa ed i suoi occhi brillavano di un accesso azzurro come fossero vivide fiamme di Mako – gli era appena apparso davanti senza alcun motivo preciso, e oltretutto assumendo un atteggiamento decisamente allarmante.

« Che dite di acquistare dei fiori?» gli chiese, esaltato « Sono solo dieci Gil! E’ un prezzo stracciato! Non può farsi scappare questa offerta!»

Aerith lo osservò, divertita, controbattendo che l’importante era distribuire i fiori e non quanto denaro fossero riusciti a guadagnare; quando lui tornò da lei con aria abbattuta per chiederle scusa – aveva ovviamente fatto scappare il primo potenziale cliente della giornata – lei scosse graziosamente il capo:

« Non devi scusarti. Sono molto felice.» gli sorrise « L’importante è che tu sia qui con me.»

Tseng chiuse gli occhi. Avrebbe preferito non sentire una sola parola.

Aerith superò il suo maldestro socio in affari, correndo verso una giovane donna che avanzava tenendo in braccio un neonato, decisa a fare un altro tentativo – aveva apprezzato la buona volontà del SOLDIER ma forse avrebbe avuto più speranze di vendere i fiori se fosse stata lei stessa ad occuparsi della pubblicità.

Fu in quel momento che Zack si accorse della presenza di Tseng, forse aveva semplicemente finto di non vederlo fino a quel momento, forse i suoi sensi acuiti dal Mako lo avevano individuato sin da quando erano usciti dalla chiesa, e silenziosamente aveva assecondato il gioco del Turk facendo finta di nulla.

Tuttavia lo raggiunse, fermandosi al suo fianco con poche falcate. 

« Devo partire.» annunciò con tono cupo, incrociando gravemente le braccia sul petto « E’ un incarico importante assieme a Sephiroth…non so neppure quando mi sarà concesso tornare.» il suo sguardo brillante vagò per un attimo, cercando in tutti i modi di non incontrare quello di Tseng – sarebbe stato troppo facile per lui leggervi un leggero imbarazzo ed una certa inquietudine.

« A lei lo hai già detto?» gli chiese il Turk, senza mezzi termini. Zack annuì, corrugando la fronte, insinuando una mano tra i capelli per scompigliarli in un gesto nel quale si mescolavano impaccio e frustrazione.

« Il punto è che questa volta non so quanto potrebbe durare.» rivelò « Potrei rimanere via per mesi.»

« Non essere in pena per lei.» fu straziante come una ferita d’arma da fuoco, ma Tseng non poté fare altro che tranquillizzarlo – tenerla al sicuro era il suo lavoro « Proteggere il soggetto fa parte degli incarichi di sorveglianza.» Zack gli impedì quasi di concludere la frase – sembrava che avesse atteso le parole di Tseng in preda ad un’ansia terribile:

« Sei l’unico di cui possa fidarmi.»

Tseng lo guardò per qualche istante, sgranando appena gli occhi. Le parole del SOLDIER tuonarono dentro la sua testa come una filastrocca fantasiosa – ma anche sforzandosi, gli fu impossibile interpretarle come uno scherzo di cattivo gusto. Il giovane lo pensava davvero.

Non poté fare a meno di ridere, portandosi un pugno alla bocca come a nasconderla.

Si fida di te.

Era una cosa talmente contraddittoria e incoerente da sembrare quasi impossibile, eppure quell’uomo che avrebbe potuto contrastare un intero esercito senza troppe difficoltà era lì, era disperatamente serio e gli stava affidando la donna che amava.

Zack Fair era davvero incredibile. Un grande stupido che offriva volontariamente il fianco al nemico senza neppure accorgersene, sbandierando i propri segreti e le proprie debolezze ai quattro venti – ma che in qualche modo riusciva a far sentire importante chiunque lo circondasse.

Aveva la capacità di trovare i pregi del prossimo, ingigantendoli fino a far sembrare ogni aspetto negativo delle inezie senza valore – e in un modo tutto suo, riusciva a valorizzare quelle virtù nascoste fino a che anche gli altri non le riconoscevano e gli davano ragione.

Il ragazzo sembrò quasi arrossire; si sporse verso di lui, contrariato:

« Ehi, perché stai ridendo?»

Si fida.

Si fida di te che sei solo un assassino.

Tseng lo guardò, senza dire nulla.

Zack Fair era il suo completo opposto: aveva scelto la sua strada per rincorrere un sogno, aveva compiuto la sua scalata verso il rango di Prima Classe scalciando e sgomitando, allenandosi strenuamente, rialzandosi dopo ogni fallimento. Faceva il suo lavoro perché aveva un obbiettivo, combatteva perché non si sarebbe arreso fino a quando non lo avesse raggiunto.

Zack Fair non mentiva a sé stesso.

Zack Fair si era conquistato il proprio onore con il sudore e la fatica.

Non lo aveva buttato via come se non gli fosse più di alcuna utilità. Aveva lottato per proteggerlo.

Tseng sentì improvvisamente il peso di ogni azione compiuta diventare insopportabile; smise di mentire, smise di nascondersi, si limitò semplicemente ad accettare pienamente la propria colpa.

Aveva desiderato che Zack Fair sparisse, che non fosse mai esistito, che non fosse entrato nella sua vita e in quella di Aerith. Lo aveva guardato tante volte, da lontano, desiderando solo che gliela restituisse.

Sei meschino.

C’era un modo per sentirsi ancora un volta fiero di sé stesso?

Il SOLDIER abbassò il capo, sospirando sommessamente, voltando appena la testa in direzione dell’improvvisata fioraia ancora intenta nelle operazioni di compravendita; era evidente che non volesse lasciarla. Indicò il Turk con l’indice puntato, convinzione e serietà che tenevano immoti i suoi lineamenti e gli corrugavano fronte:

« Conto su di te.» lo disse ancora, come se la prima volta non fosse bastata.

Tseng lo seguì con lo sguardo mentre correva di nuovo verso Aerith, distogliendo gli occhi solo quando lo vide intromettersi in una contrattazione e rovinarla fino a costringere l’acquirente ad andarsene con un nulla di fatto.

L’uomo che gli aveva sottratto l’unica ragione per cui Tseng viveva, gli stava donando la possibilità di riconquistare tutto ciò che lo avrebbe fatto sentire nuovamente un essere umano. La dignità, la fiducia, la morale, la certezza di poter ancora fare la cosa giusta.

Ora che l’onore serviva a qualcosa, come avrebbe potuto tradirlo e ripudiarlo nuovamente? Sarebbe stato doloroso e spesso difficile, ma non era forse una prova? Un ennesimo ed ultimo sacrificio per riscattarsi dai propri errori?

Bastava rinunciare alla felicità per riottenere tutto.

Tseng sorrise appena – in ogni caso non gli era rimasto nient’altro da perdere.

Zack Fair. Lo giuro.

Saprò essere degno della tua fiducia.

 

In un giorno qualsiasi di metà gennaio, Aerith indossò per la prima volta un lungo ed attillato vestito rosa. Le lasciava le spalle scoperte e si chiudeva sul davanti grazie ad una lunga fila di piccoli bottoni bianchi. Non aveva decorazioni, né particolari graziosi – era semplice, disadorno, molto diverso dagli abiti che Tseng ricordava di averle visto addosso. Le erano sempre piaciuti i pizzi, i tessuti dipinti o ricamati, i gingilli decorativi e le tonalità sgargianti.

« Ho finito di cucirlo ieri notte.» gli rivelò, facendo una piroetta sul posto per mostrargli il proprio lavoro; la stoffa si gonfiò morbidamente intorno alle sue gambe magre, la lunga e spessa treccia disegnò un ampio semicerchio a circondarle le spalle, frustando l’aria. « Che te ne pare?»

Tseng la seguì con lo sguardo senza battere ciglio, cercando di non fare caso a quanto profondo fosse lo spacco della gonna o a quanto graziose fossero diventate le sue forme; l’abito attillato la fasciava mettendo in risalto i fianchi morbidi e la vita snella, disegnando perfettamente le curve del seno tondo e perfetto:

« Pensavo che il tuo colore preferito fosse l’azzurro.» osservò, guardandola mentre terminava il suo giro e si immobilizzava davanti a lui, con i piedi uniti.

« Uno strappo alla regola.» spiegò lei, evasiva.

Come se Tseng non sapesse.

« Pensi che abbia fatto un buon lavoro? » chiese ancora, sollevando un lembo della gonna tra l’indice ed il pollice, studiando con poca convinzione le cuciture « Mamma mi ha dato qualche dritta, ma non sono molto sicura. Credi sia troppo semplice?»

Tseng scosse il capo. Lei cercava sempre la sua approvazione, qualsiasi cosa facesse. E se non voleva il suo consenso, desiderava un consiglio, un’opinione, qualsiasi cosa che la facesse sentire sicura di ciò che faceva. Era sempre stato così, sin da quando lei aveva dieci anni e gli aveva chiesto aiuto per scegliere il regalo di compleanno per sua madre.

Tseng l’aveva sempre assecondata, quando ne era stato in grado. E se serviva a renderla più contenta o sicura di sé, andava bene. Anche se ultimamente la cosa gli procurava solo un profondo senso di vuoto.

« Trovo che ti stia bene.» aggiunse, allungando una mano per toccarle la clavicola esposta « Potresti provare a cucire anche un copri spalle.» le suggerì « Non voglio che ti ammali solo perché a metà gennaio hai deciso che ti piace il rosa.»   

Lei accolse la sua mano senza battere ciglio, lasciando che la sfiorasse in cima al braccio destro. Ma mentre la toccava, anche se durò poco meno di un istante, Tseng sentì gelare le punte delle dita, un brivido freddo che gli si insinuava con prepotenza nelle ossa.

Lei soppesò il consiglio per qualche istante, picchiettando il labbro inferiore con i polpastrelli:

« Potrei provare a farne uno.» ci pensò per qualche istante, il volto concentrato ed assorto « Rosso? Che dici?»

« Aggiudicato.» il Turk annuì brevemente. Non gli importava molto del colore o dell’abbinamento o di qualsiasi altra cosa potesse tormentare il senso estetico di Aerith. L’importante era che coprisse quelle sue spalle bianche.

« Bene, allora. Farò un tentativo.» lei annuì, dirigendosi verso la panca in prima fila su cui aveva poggiato ordinatamente le proprie cose – iniziò ad infilare la sua giacca bianca sagomata, inforcando le maniche l’una dopo l’altra « Oggi mamma mi ha chiesto di tornare a casa presto.» lo informò, sistemandosi il colletto e tirando su la lunga zip « Voleva che l’aiutassi a cogliere qualche fiore dal nostro giardino per riempire i vasi del salotto.»

« Ti accompagno.» la proposta di Tseng suonò fin troppo categorica perché lei potesse rifiutarsi – infatti fece un cenno rapido del capo, chinandosi per raccogliere gli attrezzi da giardinaggio ed il grembiule ripiegato sul pavimento:

« Ti ringrazio.»

Tseng attese che fosse pronta, osservandola mentre riponeva le sue cose in una grossa borsa di tela azzurra; gliela sfilò di mano quando vide che la sollevava per caricarsela in spalla:

« Lascia fare a me.»

Aerith ridacchiò con aria divertita, stringendosi nelle spalle mentre avanzavano insieme verso il portale della chiesa.

Camminarono in silenzio a lungo, i loro passi che si sovrapponevano nella polvere, un venticello freddo che li frustava vorticando tra i capelli di Aerith e tra le ciocche nere dell’ormai lunga coda di cavallo del Turk.

Di solito la ragazza non permetteva che tra di loro calassero silenzi imbarazzanti e soprattutto non sopportava che Tseng fosse così taciturno, ma ultimamente era capitato molto spesso che fosse lei la prima a non trovare nulla da dire – le sue labbra rimanevano sigillate, i suoi occhi catturati dal movimento alternato dei propri passi che si susseguivano. E così si limitavano ad affiancarsi, come due estranei che incontratisi lungo il sentiero avessero deciso di raggiungere insieme la loro meta comune.

« Tseng.» esordì lei d’un tratto, con voce fioca; gli toccò un braccio con la punta delle dita, in un atteggiamento insolitamente timoroso « Vorrei parlarti di una cosa.»

Il Turk annuì:

« Ti ascolto.»

Aeirth fece una pausa, aggrappandosi a lui, le mani che cercavano rifugio tra le pieghe del suo soprabito di pelle nera:

« Anche se…» le sfuggì una risatina imbarazzata mentre cercava in tutti i modi di non incrociare lo sguardo dell’uomo «…forse potresti pensare che io sia una stupida.» scosse il capo, premendo una guancia contro la sua spalla, come in un tentativo impacciato di nascondere il volto « E’ abbastanza imbarazzante.»

« Non riderei mai di te.»

Lei parve sollevata dalle parole del Turk; inspirò profondamente, infilando con cautela una mano nella tasca destra della sua giacca:

« Ecco…» frugò per qualche istante, estraendone infine una piccola busta quadrata di carta rosa « Ho scritto una lettera, ma non saprei a che indirizzo spedirla.»

« A chi è indirizzata?»

La domanda di Tseng fece in modo che Aerith smettesse improvvisamente di avanzare. Si immobilizzò, al centro di un incrocio, gli occhi bassi che ancora una volta sembravano scrutare la punta delle sue scarpe pesanti ed impolverate. Il Turk fece lo stesso, guardandola – sentiva ancora le sue dita premere con forza contro il proprio braccio.

« Tseng, non ho sue notizie da quasi tre mesi.» disse lei dopo qualche istante « Non ho idea di come funzioni la ShinRa, non mi è venuta in mente nessun’altra idea se non questa. Non saprei cos’altro fare per avere sue notizie.» sollevò gli occhi verso il Turk – erano seri, intensi, le sopracciglia sottili che delineavano un turbamento profondo « Tseng, non ho altri che te su cui poter fare affidamento. Se lo consideri un fastidio, sei libero di rifiutare.» gli porse la busta, le dita intirizzite dal freddo che fremevano appena.

Tseng la osservò per qualche istante, un turbamento insopportabile che si rimescolava dentro di lui senza dargli mai tregua. C’era il viso congestionato di Aerith, l’eco delle sue parole speranzose che lo imploravano, il suo sguardo così insolitamente abbattuto da far gelare il sangue. E poi c’era quell’anonima lettera, un sottile foglio di carta che significava tutto e niente, che faceva male come un’ennesima pugnalata.

Zack Fair non era più tornato dalla sua ultima missione. Aerith lo aveva atteso ogni giorno, a volte sedendosi da sola sui gradini della chiesa, chiedendo spesso a Tseng se avesse sue notizie e ricevendo sempre la stessa identica risposta avvilente.  

Mi dispiace, non mi sono state fornite informazioni al riguardo.

Quando i rapporti ufficiali della ShinRa avevano catalogato la missione affidata a Zack Fair e Sephiroth come un totale fallimento, gli Esecutivi avevano iniziato a comportarsi come se i due SOLDIER di Prima Classe non fossero mai esistiti. O meglio, i giornali avevano riportato solennemente la notizia del decesso dell’eroe Sephiroth, avvenuto in circostanze misteriose. Ma la scomparsa di Zack era passata in sordina, era stata quasi ignorata, come se la compagnia avesse tentato di proposito di occultarla in ogni modo possibile.

I tentativi del Turk di rintracciarlo si erano rivelati del tutto vani – la ShinRa non sembrava interessata al suo ritrovamento, il reparto scientifico non si esprimeva al riguardo, i registri riportavano la sua morte sul campo senza sprecarsi in particolari. E sebbene godesse di piena fiducia e fosse apprezzato da tutti i suoi superiori, il grado di Tseng non era abbastanza alto perché gli fosse permesso indagare in maniera più approfondita.

Ed ogni volta che Aerith gli chiedeva sue notizie, lui non poteva fare altro che scuotere il capo, sentendosi del tutto inutile.

« So che lui è vivo.» erano le parole che lei non si stancava mai di ripetere e che spingevano Tseng a non interrompere le ricerche.

Lo fai per lei.

Lo fai perché hai promesso.

O lo fai solo per sentirti meglio?

Accolse tra le dita la lettera di Aerith, annuendo piano:

« Troverò un modo per fargliela avere.»

 

In una sera in cui il cielo coperto minacciava l’inizio di un temporale, Aerith si inoltrò da sola nel cimitero dei treni del Settore 7, scomparendo tra la ferraglia ed il metallo corroso dall’umidità.

Quel pomeriggio, Tseng l’aveva lasciata piuttosto tardi; aveva ignorato l’orologio fino a che le lancette non avevano indicato lo scoccare delle otto, limitandosi ad ascoltare la sua voce che intonava motivetti sconosciuti mentre le sue mani armeggiavano laboriose attorno all’aiuola. Si erano salutati solo all’imbrunire, quando lei aveva sollevato il cestino pieno di fiori appena colti e gli aveva chiesto graziosamente di accompagnarla a casa; Tseng l’aveva accontentata senza fiatare, sollevandosi dalla panca su cui aveva passato la maggior parte del tempo. Era dalla fine di Febbraio che Aerith preferiva non essere lasciata sola e che Tseng, di conseguenza, era diventato ancora più restio ad abbandonare i bassifondi.

« Devo fare un lavoretto.» gli spiegò, mentre frugava nella sua borsa in cerca delle chiavi di casa, in piedi davanti all’entrata « Non mi ci vorrà molto, ad ogni modo. Quindi non preoccuparti, okay?» aveva infilato la chiave nella toppa, ma nel girarla si era voltata a guardarlo con aria severa « Non mi taglierò, non mi farò male, non sarò in pericolo. Ti basta come assicurazione?»

Tseng l’aveva assecondata, suo malgrado. Accettava di aiutarla con i lavori manuali non solo per semplice altruismo.

« Stai attenta lo stesso.» non riuscì ad evitare di dirglielo. Lei aveva sbuffato appena, prendendolo in giro:

« Certo!» la chiave aveva scattato nella serratura, mentre la porta si dischiudeva lentamente « Buonanotte, mio guardiano dai capelli corvini e dalle poche parole.» Il Turk l’aveva seguita con gli occhi mentre scappava dentro casa, mettendosi al riparo da qualsiasi sua reazione imprevista – lei sapeva che Tseng non avrebbe mai varcato quella soglia, anche se non gli aveva mai chiesto il perché. Tuttavia lui l’aveva semplicemente salutata con garbo, rimanendo immobile mentre la porta si chiudeva. Si era voltato ed aveva iniziato ad allontanarsi, lasciandosi alle spalle il rigoglioso giardino che Aerith aveva piantato intorno alla casetta. In quello scorcio colorato e pacifico del Settore 5, ogni folata di vento, anche se minima, portava con sé i profumi di un mondo che non era Midgar.

Si era diretto verso la stazione del Settore 7, controllando distrattamente che lo schermo del PHS non evidenziasse messaggi non letti. Aveva aspettato l’arrivo dell’ultimo treno, in piedi sul ciglio dei binari, le punte delle scarpe che superavano ampiamente la linea gialla di sicurezza. E un quarto d’ora dopo, sistemandosi sui sedili dell’ultimo vagone, aveva alzato gli occhi verso il finestrino e l’aveva vista.

La scorse con la coda dell’occhio, una figura minuta e rosa che avanzava piano e spiccava sul grigio dell’ambiente circostante, addentrandosi indisturbata nell’angolo dei bassifondi dove venivano gettate ed abbandonate le locomotive inutilizzabili. Gli occhi gli si sbarrarono quando la vide addirittura scavalcare goffamente le assi che barricavano l’entrata, passando le gambe ad una ad una aldilà del basso ostacolo. Si alzò di scatto, riuscendo a scendere dal treno poco prima che le porte automatiche si chiudessero e la locomotiva iniziasse a muoversi; urtò un ferroviere, riconoscendo di sfuggita la sua divisa rossa, mormorando a bassa voce delle scuse soffocate.

Non mi taglierò, non mi farò male, non sarò in pericolo.

Lei, da sola, nel cimitero dei treni.

Perché quella donna faceva di tutto per farlo preoccupare, per mettersi nei guai, per farlo sentire tanto in ansia da non riuscire neppure a ragionare? Perché continuava a ripetergli che non c’era nulla di cui preoccuparsi, se poi si cacciava in situazioni simili?

Sentì in lontananza il fischio acuto del capostazione e lo sferragliare pigro delle ruote metalliche sui binari, il rombare raschiante che cresceva gradualmente, raggiungeva il suo apice e poi rapidamente si dissolveva, allontanandosi. Aveva appena perso l’ultimo treno. Importava?

La seguì silenziosamente, guardandola mentre incespicava e urtava bidoni e rifiuti provocando un fracasso infernale ad ogni passo. Tuttavia avanzava imperterrita, guardandosi attorno, senza fare caso alla giungla di cavi, di spazzatura e rottami che le si apriva davanti e che minacciava di inghiottirla non appena avesse commesso l’errore più stupido. Si fermò un attimo davanti all’alta e imponente carcassa di un vecchio vagone – lo scheletro della locomotiva emergeva dalle vecchie coperture di legno, lunghe dita ritorte che sembravano tendersi scompostamente verso l’alto, scomparendo nel buio cupo della notte imminente. Le uniche luci che rischiarassero quella zona proibita del Settore, a cui il cielo veniva del tutto negato dall’ombra della piastra soprelevata, erano delle piccole e accecanti lampadine al neon che punteggiavano l’immenso soffitto metallico. Aerith si guardò attorno, spaesata, l’oscurità che la disorientava – Tseng sentì dei sommessi squittii in lontananza, dei fruscii insistenti, un tonfo metallico provenire dalle proprie spalle.

E quando lei, sobbalzando, arretrò appena rischiando di inciampare su delle assi di legno scheggiate, il Turk sentì la rabbia crescere tanto in fretta che le sue gambe si mossero da sole, ogni singolo muscolo che si contraeva senza ritmo. La raggiunse, sostenendola, afferrandole fermamente un polso; lei ingoiò un grido, si voltò di scatto, gli occhi spalancati.

Lei, di notte, in un posto del genere.

Rimase sospesa, immobile, le palpebre che battevano in fretta; lo riconobbe dopo qualche istante, i lineamenti che si confondevano nella penombra.   

« Tseng!» disse il suo nome con la voce che diventava di colpo più acuta, le iridi che le si riempivano della luce colpevole e di uno stupore quasi terrorizzato.

Una bambina.

Tseng allentò appena la presa su suo polso, le dita che sfioravano piano la pelle liscia della sua piccola mano destra.

E’ ancora una bambina.

« Cosa ci fai qui?» le chiese, tentando di rendere il proprio tono meno duro possibile. Era talmente infuriato che sentiva un nodo ostruirgli la gola ed ogni via respiratoria, ma l’ultima cosa che desiderava era metterle paura.

« Te l’ho detto, no?» si giustificò subito lei aggrottando le sopracciglia in un atteggiamento nuovamente combattivo « Devo sistemare delle cose! Non ti avevo detto di non preoccuparti? Che bisogno c’era di venirmi alle spalle a quel modo? Mi hai spaventata!»

« Perché sei venuta qui?» le chiese ancora, questa volta assumendo un cipiglio deciso – lei indietreggiò di un passo « Hai idea di quanto sia pericoloso?»

« Lo so benissimo!» ribatté la ragazza, riuscendo a domare l’incertezza che l’aveva fatta balbettare appena sulle prime parole « Sai perfettamente che so badare a me stessa!»

« Cosa dovrei pensare?» le strinse la mano in un gesto automatico, senza neppure accorgersene, sentendo le sue dita abbandonate ed inermi contro le proprie « Mi racconti una bugia simile solo per poterti mettere nei guai con maggiore facilità? Non scherzare con me, ragazzina.»

« Sapevo che se avessi provato a venire qui assieme a te, me lo avresti impedito.» controbatté ancora lei, rispondendo alla stretta dell’uomo; piegò le dita contro quelle di lui in un gesto docile – la sua espressione si indurì, mentre continuava a contrastarlo, imperterrita; non c’era coerenza tra gesti e parole « Ho dovuto farlo! Sapevo che tu non me lo avresti permesso!»

Gli occhi di Tseng si sgranarono appena:

« Se me lo avessi detto, non ce ne sarebbe stato bisogno.» continuò, stringendole mano con maggiore impeto « Se mi avessi detto cosa ti serviva, te lo avrei procurato.»

Lei trattenne il respiro, le guance che le si arrossavano di rabbia o forse di imbarazzo, stava diventando troppo buio perché Tseng riuscisse a percepire la differenza:

« Il carretto si è rotto.» ammise alla fine, abbassando la voce e gli occhi « Ha perso una ruota mentre lo spingevo verso casa.» la sue dita fremettero appena nella mano del Turk « Volevo cercare un pezzo di ricambio.»

Il furore dell’altro si affievolì appena, una strana consapevolezza che gli faceva ancora una volta gelare le vene. Attese qualche istante, scrutando gli inquietanti e cupi disegni che la luce fioca delineava sulle gote di Aerith, sulla curva della sua bocca.

« Perché non mi hai chiesto aiuto?» domandò alla fine, con un fil di voce, con tono talmente basso che per un attimo penso che Aerith non lo avesse udito « Sapevi che ti avrei aiutata.»

Non vuoi che le mie mani tocchino le cose che ti ricordano lui?

E’ così?

Si preparò ad una risposta avvilente, si preparò ad avere l’ennesima conferma di quanto quel suo disperato bisogno di stare con lei non servisse a nulla, fosse solo un elemento di contorno, di quanto ogni delusione facesse sempre più male, nonostante tutto. Ma Aerith sollevò gli occhi scuotendo il capo.

« Tu sei sempre troppo gentile con me.» ammise, stringendosi in sé stessa « Fai già tanto e ogni volta mi sembra solo di crearti fastidi.»

Tseng la guardò, rendendosi conto davvero di quanto quelle poche e banali parole avessero reso tutto più semplice. Si accorse solo in quel momento delle loro mani strette l’una all’altra, ma lei si rifiutò ostinatamente di lasciarlo andare sebbene tentasse in tutti i modi di allontanarla. E alla fine rinunciò.

« Ti aiuterò a sistemare quel carretto.» concluse alla fine, categorico, serio, con lo stesso tono con cui avrebbe pronunciato un giudizio di vita o di morte, con la stessa solennità con cui avrebbe impartito un ordine di fondamentale importanza. Aerith rimase un attimo zitta, guardandolo allucinata mentre continuava a tenerle la mano e nel frattempo le parlava con quell’espressione grave; poi trattenne improvvisamente il respiro, soffocando e trattenendo con difficoltà una risata.

« Non dirmelo con quella faccia, però.» contestò, coprendosi il volto con la mano libera – sembrava stesse facendo uno sforzo incredibile per non scoppiare a ridere.

E accorgendosi che ora avrebbe potuto agevolmente trascinarla via da quel posto tremendo e riportarla a casa, dove avrebbe finalmente smesso di insistere riguardo la ruota del maledetto carretto, Tseng distolse l’attenzione da lei – con difficoltà – e si guardò attorno. La vecchia locomotiva usurata dal tempo sorgeva al centro di uno spiazzo sterrato e a tratti fangoso, un semicerchio perfetto delimitato dalle tombe di altri sei vagoni più piccoli e da una quantità imprecisata di frammenti di calcestruzzo crepato che giacevano disordinatamente sui binari ormai inagibili. La sua memoria infallibile fotografò ogni particolare, notò la luce intermittente che ancora miracolosamente funzionava all’interno di un vagone con le finestre crepate, vide la pelle marcia che rivestiva alcuni dei sedili, le pozze d’acqua che si erano accumulate ed avevano stagnato sul pavimento metallico dopo le piogge autunnali.

E poi si interruppe, di botto, scrutando le fessure che segnavano una spessa asse di legno da cui spuntavano numerosi chiodi arrugginiti. La sua memoria non gli mandava segnali, ogni particolare era nuovo e sconosciuto, vedeva tante cose ma non ne riconosceva neppure una. E frugando nella propria memoria nel tentativo di ricordare e ripercorrere la strada che lo aveva condotto fino a quel punto, trovò solo il buio, il silenzio, ed un disorientamento sconcertante.

Si guardò ancora intorno, nel vano tentativo di trovare qualcosa che potesse essergli d’aiuto. Ma nella sua memoria fotografica si accavallavano solo le immagini di quello spiazzo vuoto, freddo, cupo e desolato e poi Aerith che correva, Aerith che inciampava, Aerith che gli urlava contro e comunque gli teneva la mano, Aerith che si metteva sempre e comunque nei guai.

Sbatté le palpebre, perdendo di botto il senso dell’orientamento, sentendosi sperduto ed indifeso come mai era successo prima. La sua memoria non lo aveva mai tradito.

« Cosa succede?» chiese la ragazza, notando improvvisamente il suo disagio.

Tseng non le rispose, cercando con impazienza quasi febbrile il telefono nella tasca – lo estrasse, sollevando lo schermo con un secco movimento del polso.

« Dobbiamo andarcene di qui.» spiegò, senza aggiungere ulteriori particolari. In una situazione normale, si sarebbe affidato al proprio istinto – ma c’era quell’interferenza, una sorta di disturbo insistente che gli impediva di raggiungere i ricordi confusi dei momenti che lo avevano condotto in quel luogo. E fu con una sorta di cupa disperazione che aprendo il PHS, si rese conto che quella zona del Settore non era coperta dalla rete telematica della ShinRa. Aveva sperato di poter chiamare qualcuno o di rintracciare una mappa della zona tramite le informazioni satellitari, ma lo schermo del telefono continuava a negargli qualsiasi servizio. Tentò una telefonata, premendo per qualche istante il cellulare sull’orecchio – ma la linea rimase muta fino a quando, senza fare rumore, non cadde definitivamente. E alzando gli occhi, vedeva solo rottami e macerie che si confondevano con il buio della notte, i ristretti e fiochi fasci di neon della piastra che rischiaravano le tombe dei treni come cupe candele funerarie.

Il cimitero dei treni, sconosciuto, buio, un dedalo di sentieri e vicoli ciechi che gli era completamente ignoto. Si era perso.

Come aveva potuto distrarsi? Perché non riusciva a ricordare?

« Come facciamo?» chiese d’un tratto Aerith, accostandosi maggiormente a lui « Non si vede quasi più nulla.» sembrò incupirsi appena « Non avevo intenzione di inoltrarmi così tanto, ma non vedevo piccole ruote da nessuna parte…»

Tseng non le rispose, mentre l’inquietante immagine di lei che si ritrovava in quella stessa situazione da sola gli attraversava la mente facendogli irrigidire la schiena.

Tentò di valutare la situazione in maniera razionale, mentre si rendeva conto di non avere la più pallida idea di quale potesse essere la via del ritorno – vedeva mille strade snodarsi tra le rotaie e tra le locomotive abbandonate senza un ordine preciso, senza criterio, il buio aveva inghiottito ogni cosa nel giro di duecento metri. Rimase lì immobile, la mano di Aerith ancora ferma nella propria. E con rammarico estremo fu costretto a prendere l’unica decisione ragionevole – l’unica che gli avrebbe permesso certamente e senza troppi rischi di proteggere Aerith in quella situazione anomala.

« Sarebbe meglio non spostarsi al buio, senza neppure conoscere la strada.» ammise, suo malgrado, mettendo a posto il PHS « Dovremo aspettare e provare ad andarcene domattina, quando tornerà la luce.»

Aerith rispose con voce tranquilla, come se l’idea non la turbasse affatto:

« Vuol dire che dobbiamo passare la notte qui?»

« Così pare.»

Cosa era successo? Perché non aveva prestato attenzione alla strada? Un errore del genere in qualsiasi altra situazione avrebbe potuto rivelarsi fatale.

« E’ colpa mia.» bisbigliò lei, assumendo un tono leggermente colpevole « Non credi che dovremmo cercare una via d’uscita?»

« Vorrei.» ammise, storcendo le labbra in una smorfia accennata « Ma il buio non mi permette di avere la situazione completamente sotto controllo. Non posso mettere a rischio la tua incolumità.» se quella notte avesse commesso anche solo un altro errore, non se lo sarebbe mai perdonato.

Nella sua testa si affollavano mille pensieri di cui riusciva a cogliere a malapena il senso - si sovrapponevano l’uno all’altro, un confuso groviglio di voci che gli mettevano fretta, rendendo ancora più instabile la sua capacità di giudizio. C’era la promessa fatta a Zack, c’erano gli ordini dei superiori, c’era il suo cuore terrorizzato che ansimava al solo pensiero che ad Aerith potesse accadere qualcosa. Tutte quante tuttavia improvvisamente si unirono in un coro talmente chiaro ed unanime da riuscire quasi ad assordarlo.

Proteggila.

Riuscì in qualche modo a sciogliere la presa delle loro mani; un istante dopo sentì le dita di Aerith aggrapparsi ad un lembo dei suoi pantaloni, un gesto timido e leggermente timoroso che gli riportò alla mente vecchie foto ingiallite di quella bambina dagli occhi grandi che tanto tempo prima lo aveva avvicinato solo per consolarlo.

Hai seguito il suo consiglio.

Hai dimenticato del tutto i particolari, non hai prestato attenzione a ciò che ti circondava.

Finché non l’hai raggiunta, hai pensato solo a lei, hai visto solo lei.

La cosa più importante.

Si sfilò la giacca, sentendo il fruscio sommesso della stoffa, ignorando il freddo pungente che gli pizzicò subito la pelle attraverso la leggera camicia bianca:

« Per ora conta solo che tu non ti faccia male.» lo disse poggiandole l’abito sulle spalle nude, sentendola che sobbalzava appena in risposta a quel gesto inatteso « Senti freddo?»

Lei ci si avvolse dentro, non facendo caso alle maniche che superavano di una buona decina di centimetri la lunghezza delle sue braccia:

« Non molto.» rispose, curandosi di aggiungere subito dopo « Scusami, non sono ancora riuscita a finire il copri spalle.» si strinse nella giacca, le mani che chiudevano il colletto coprendole naso e bocca « Sono un po’ impedita con ago e filo. Ci metterò ancora un po’.»

Il Turk la ascoltò fino alla fine:

« Potrei anche comprartelo io e farla finita.»

Lei protestò colpendolo debolmente su di una spalla:

« Vuoi scommettere? Lo finirò entro il mese prossimo!» lo sfidò, assumendo subito dopo un tono leggermente impensierito, mentre la sua mano sfiorava il tessuto leggero della camicia «…ma sei sicuro che ora non sia tu a gelare?»

« Sto bene.» mentì l’altro, cercando di ignorare il freddo pungente che sentiva e che gli stava a poco a poco irrigidendo le dita. Scosse il capo, sbattendo velocemente le palpebre mentre una folata improvvisa di vento sollevava un fitto pulviscolo di carbone e terra – Aerith strizzò gli occhi, il volto che quasi scompariva dietro la stoffa spessa della giacca blu.

« Troviamo un posto coperto.» propose il Turk, cercando ancora una volta la mano della ragazza; lei accettò nuovamente il contatto, stringendo le dita contro quelle di Tseng come se quel gesto le fosse familiare e le infondesse un senso indispensabile di sicurezza. Non sapeva neppure con quale incredibile sforzo di volontà, Tseng riuscì a frenare il tremore che si era impossessato del suo braccio – non sapeva se fosse per il freddo o per la tensione.

O forse è solo causa sua.

« Posso scegliere io la reggia?» aggiunse lei con aria scherzosa, coprendosi la bocca con una manica scura. Si guardarono attorno, lui freddo e teso come durante una missione di sopravvivenza, lei curiosa, quasi divertita dalle circostanze insolite.

« Ecco.» disse Aerith infine, indicando l’entrata sbilenca di una locomotiva arrugginita che sorgeva alla loro destra, nella penombra, inclinata leggermente su di un lato « Preferisci la tappezzeria rossa?» chiese, riferendosi a ciò che restava del rivestimento di pelle dei sedili « Oppure una rilassante luce intermittente ad illuminare un ambiente caldo e confortevole?» spostò il dito, mostrandogli un vagone situato davanti a loro.

La decisione non fu difficile; la luce gli avrebbe permesso di tenerla d’occhio più facilmente. Iniziando ad avanzare verso il treno semi illuminato, Aerith che lo seguiva disciplinata avvolta nella sua giacca e tenendosi stretta alla sua mano, decise di assecondarla:

« Preferisco gli alloggi luminosi.» era difficile scherzare in quella situazione, ma si rivelò più naturale del previsto. Forse era ancora per via di Aerith.

« Come vuole lei, signore, cavaliere, custode.» disse tutto d’un fiato, come se le ultime tre parole ne componessero una sola. Erano definizioni completamente distorte di ciò che lui era, ma questo non cambiava il fatto che per Tseng fossero suonate come un altro ennesimo, dolcissimo ed immeritato complimento.

L’entrata della locomotiva era leggermente rialzata rispetto al pavimento fangoso – c’erano dei massi piuttosto grandi che ostruivano il passaggio e delle vecchie ruote d’auto che inclinavano il vagone verso l’alto. Il Turk passò avanti, issandosi sui massi con due lunghi passi, in uno slancio abile e fluido; quando fu in cima si voltò verso di lei, afferrandole entrambe le mani per aiutarla a salire. Le fissò le gambe che sfuggivano dallo spacco ampio della gonna rosa fino a che non fu arrivata al suo fianco, assicurandosi che gli spigoli appuntiti della pietra non la ferissero.

L’interno della locomotiva odorava di rancido e di acqua stagnante; i vetri delle finestre erano del tutto assenti, il metallo sembrava essere marcito in vari punti sul soffitto e lungo le pareti. La lampadina emetteva brevi e poco intensi lampi facendo luce sui sedili consunti da cui emergevano le molle arrugginite ed ormai inutili. Tseng individuò subito l’unico ad essere del tutto intatto: il rivestimento era logoro e sfilacciato, ma aveva comunque l’aria di essere in qualche modo comodo.

« Siediti.» ordinò, lasciandole la mano solo quando lei si fu sistemata dove le aveva detto, obbediente « Cerca di dormire.»

Lei annuì, osservandolo mentre le dava le spalle e riprendeva a guardarsi attorno: poggiò una mano sul cuscino, mentre con l’altra impediva alla giacca di scivolarle dalle spalle.

« E tu?» chiese dopo qualche istante, vedendo che lui non accennava a raggiungerla ed anzi sembrava cercare un altro modo per sistemarsi « Continuo a sostenere con convinzione che nonostante continui a negarlo, tu in realtà stia gelando.»

La memoria di Tseng studiò la locomotiva, individuando tutte le possibili vie attraverso cui avrebbero potuto manifestarsi eventuali pericoli – le finestre ai lati del treno, l’entrata spalancata, un’ampia fessura nel tetto che sembrava una brutta ferita tra due lembi lacerati di pelle frastagliata. Alla fine convenne con sé stesso che la postazione migliore per passare la notte fosse quella da cui avrebbe potuto controllare senza troppe difficoltà qualsiasi apertura. Si accostò alla parete umida di fronte al sedile su cui aveva lasciato Aerith, sedendosi sul pavimento, la schiena che premeva contro il metallo gelido e duro:

« Ti ho detto che sto bene.» mentì ancora, poggiando i gomiti sulle ginocchia piegate « Starò qui.»

Gli occhi verdi di Aerith si sgranarono:

« E speri di riuscire a dormire in quella posizione tremenda?»

« Non è necessario che io stia comodo.» le fece notare, guardandola con espressione neutra « Il mio compito è sorvegliarti.» aveva già previsto di non chiudere occhio, quella notte. Non avrebbe commesso altri stupidi errori. Non poteva.

Tuttavia Aerith si rifiutò di ascoltarlo; batté con la mano sull’imbottitura del sedile, al proprio fianco:

« Qui c’è posto abbastanza per entrambi. Non farmi arrabbiare e vieni qui.»

« Aerith, ho detto no.» concluse, categorico, con tono secco « Ora cerca solo di dormire.»

Quando lui distolse lo sguardo, riuscì a vederla mentre gonfiava appena le guance assumendo un broncio bambinesco. Ma bastò un solo istante, giusto il tempo di tornare a posare gli occhi su di lei e cogliere il suo slancio, i suoi passi rapidi e quasi ostentatamente rumorosi sul metallo – questa volta gli disobbedì con tanta irruenza e determinazione che riuscì quasi a stupirlo. Gli si parò davanti con aria ostinata, come una ragazzina testarda che vuole vendicarsi per essere stata disattesa una sola volta. Si sedette sul pavimento, tra le sue gambe leggermente aperte e piegate, poggiando la schiena sul suo petto con forza, come ad imporsi. Si sistemò le pieghe del vestito, lasciando scivolare la stoffa lungo le gambe graziosamente abbandonate sul metallo freddo della locomotiva – il gesto tranquillo di una dama che aveva appena reclamato ed ottenuto ciò che voleva.

Tseng rimase immobile, tendendosi all’improvviso, con violenza, gli occhi spalancati e le labbra dischiuse. La guardò come se lei fosse la cosa più strana ed aliena mai apparsa sul Pianeta, scrutò i suoi lineamenti tranquilli mentre piegava il collo all’indietro e poggiava la testa sulla sua spalla, restituendogli lo sguardo:

« Per una buona volta stammi a sentire senza fiatare, testardo masochista che non sei altro.» lo rimproverò, aggrottando le sopracciglia « Ti ho già costretto a passare una notte orribile in questo posto orribile, non lascerò anche che tu muoia assiderato.» lo costrinse a porgerle un braccio, iniziando a sfregare le sue dita tra le proprie « Guardati. Hai due cubi di ghiaccio al posto delle mani.»

Tseng non rispose, sentendosi talmente rigido che per qualche istante temette di poter perdere completamente il controllo. Sentiva i capelli di Aerith contro le proprie guance, la sua schiena premuta contro il proprio petto, il suo profumo lo investì con tanta forza da soffocare quasi del tutto ogni altro odore sgradevole. Sapeva di lei, sapeva del suo essere sempre così bella e luminosa, sapeva del suo essere giovane e sempre nuova; lo spinse fino all’orlo del baratro, lasciandolo pericolosamente in bilico, disperato, smarrito, mentre tentava in tutti i modi di trovare un appiglio, un appiglio qualsiasi per non precipitare. Deglutì con difficoltà, tentando in tutti i modi di sciogliere i muscoli del collo – riuscì a poggiare la testa contro il muro, respirando a fondo, silenziosamente, la bocca sigillata. Aerith non aveva la più pallida idea di cosa avesse appena fatto.

« Ecco.» concluse lei soddisfatta, avvolgendo la mano di Tseng con la propria, lasciandola lì dov’era « Ora se vuoi potrei anche provare ad addormentarmi.» poggiò ancora la testa contro la sua gola, la sua fronte che gli sfiorava il mento « E dormirai anche tu. Se dovesse esserci qualche pericolo, ce ne accorgeremmo subito entrambi.»

Tseng dischiuse le palpebre, scrutandola con la coda dell’occhio. Quei familiari occhi verdi brillavano di soddisfazione e di trionfo, completamente ignari di tutto. Eppure bastò quello scorcio smeraldino di purezza a calmarlo – come un attimo di bonaccia, riuscì a rilassare appena i muscoli.

« L’importante è che tu lo faccia.» concluse, atono, mentre lei cercava una posizione più comoda « Domani andremo via di qui appena sorge l’alba.»

« Looo so.» cantileno lei, mentre chiudeva occhi, un leggero sorriso vittorioso che le illuminava le labbra. C’era del carbone che le macchiava una gota arrossata, ma Tseng non osò toccarla per rimuoverlo.

Ricorda, Comandante.

Ricordatelo.

Ricordati che non puoi averla.

E non appena lui la vide abbastanza immobile e silenziosa – quasi che i suoi tentativi di farla addormentare fossero andati a buon fine – lei sollevò un braccio e in un gesto fulmineo lo piegò intorno al suo collo, raggiungendogli la testa. Afferrò l’elastico che raccoglieva i suoi capelli lunghi sulla nuca, lo sfilò con un gesto rapido ed esperto; le ciocche ricaddero libere sulla spalla dell’uomo, lunghe onde di pece che si adagiarono morbidamente sulla camicia bianca.

« Oplà.» disse lei, vivacemente, ritirando la mano, spalancando ancora gli occhi « Sono finalmente riuscita a scioglierteli. E’ da una vita che ci provo.» giocherellò con l’elastico bianco, rigirandoselo tra le dita, rimirandolo con espressione fiera come se fosse una sorta di trofeo inestimabile.

« I tuoi capelli sono neri come sottili fili d’ombra. Come la notte. Sembra di affondare la mano in un liquido vellutato…come in un abisso senza fine.» arrotolò una ciocca intorno all’indice, sfiorando con il polpastrello il lobo del suo orecchio « Perché continui a legarli? Mi piacciono moltissimo.»

Ti voglio per me.

Il tocco delle dita di Aerith tra i suoi capelli era allo stesso tempo un veleno fatale ed un balsamo che lo cullava e gli mandava lenti e pigri brividi lungo tutto il corpo. Era piacere ed era tormento. Era il desiderio di abbracciarla e non lasciarla mai andare e di allontanarla il più possibile perché altrimenti non sarebbe più stato possibile trattenersi.

Vorrei.

Vorrei potertelo dire.

Tseng sopportò, desiderando che smettesse ed allo stesso tempo che continuasse all’infinito. Rimase immobile, ogni lembo del proprio corpo che toccava il suo bruciava e si disfaceva, continuava a mandargli segnali dolorosi e pulsazioni insopportabili.

Vorrei che fosse possibile.

« Li lascerò sciolti, d’ora in poi.» le promise, mentre i capelli neri gli scivolavano sulla fronte, intralciandogli appena la visuale; lei piegò appena la testa per guardarlo, passandogli una grossa ciocca dietro l’orecchio per fermarli:

« Lo faresti davvero?»

« Per me non c’è differenza.» Tseng scosse il capo, mentre sul volto di Aerith appariva un sorriso di soddisfazione: era appena riuscita a vedere realizzato un altro piccolo capriccio. Ed era insolito.

Sei l’unico su cui possa contare.

Conto su di te.

Le parole che avevano suggellato la sua promessa a Zack Fair lo rintronavano, rimbombando all’infinito come un monito, un avvertimento pieno di tensione e di fiducia. Si impose dei limiti, si trattenne anche quando sentì il bisogno disperato e lacerante di toccarla – non poteva tradire un giuramento, non poteva tradire l’onore, sé stesso, lei. Non poteva.

« Tseng…c’è una cosa che mi domando da un po’.» lo deconcentrò, introducendo un nuovo discorso. Lui la guardo in silenzio, in attesa, mentre lei continuava a giocare senza troppa attenzione con i suoi capelli scuri.

« Il tuo nome…» esitò appena, la voce impastata da un improvviso torpore «…non è quello vero.»

Tseng rimase sospeso qualche istante.

« No, non lo è.»

« Tseng mi è sempre suonato strano, sai? E’ come se celasse un segreto.» gli occhi si chiusero e si riaprirono, un brillare fantastico che ricordava il bagliore del Flusso Vitale « Posso sapere cosa significa?»

E per la prima volta dopo quasi dieci anni, Tseng prese un respiro profondo e riesumò un vecchio ed impolverato scrigno di argento ossidato. Vi infilò piano la chiave, timoroso, ascoltando il rumore della serratura che si apriva, temendo che tutti i segreti che vi aveva serbato tanto gelosamente fino ad allora potessero scivolare via da quella prigione fino a farlo impazzire.

Ma il coperchio scricchiolò appena, si dischiuse senza che lui provasse alcun dolore. Quando aprì bocca e decise che era pronto a risponderle, la voce gli risalì la gola con inaspettata naturalezza: tutti i tesori custoditi in quello scrigno si offrirono a lei, come se fin da quando vi erano stati rinchiusi avessero aspettato il suo arrivo per poter riemergere. Era ancora una sua magia bianca. L’incantesimo più terrificante e spaventoso di tutti, ed allo stesso tempo il più gratificante: lei gli leggeva dentro, lei non lo disprezzava, lei sapeva ascoltare.

Era come se tutto ciò che lo riguardava le fosse sempre appartenuto.

« Tempo fa esisteva un ragazzo a cui piaceva leggere poesie.» mormorò, guardando un punto indistinto davanti a sé « Suo padre possedeva una grande biblioteca ricca di volumi.» fece una pausa, socchiudendo appena le palpebre « Quel giovane era capace di passare ore ed ore ad esplorare gli scaffali ricolmi di libri, anche giornate intere, finché sua madre non accorreva a dirgli che era pronta la cena. Non c’era testo che non lo affascinasse.»

« E questo cosa c’entra con…?» azzardò lei, ma Tseng le passò un braccio intorno alle spalle, poggiandole l’indice teso contro le labbra – bastò a zittirla.

« C’era una poesia che lo aveva colpito in particolare.» continuò, la voce che diventava un sussurro « Ogni volta che la leggeva ne rimaneva sempre più stregato.» un sorriso debole e malinconico gli apparve sulla bocca « Gli capitava spesso di ripensarci, domandandosi strenuamente quale fosse il significato di quei versi. E nonostante tutti i suoi sforzi, non riusciva a comprendere. Non capiva perché lo inquietasse così tanto, né come fosse possibile che quelle poche parole assemblate così abilmente tra di loro potessero suscitargli un tale turbamento.»

Aerith lo guardò, la bocca dischiusa:

« Cosa diceva quella poesia?»

« Erano pochi versi.» continuò Tseng, tornando a poggiare la mano libera sul pavimento, le dita che le avevano sfiorato la bocca bruciavano « Raccontavano la morte lenta di un sole che, percorrendo lentamente la sua discesa verso l’estinzione completa, raggiungeva i picchi di un brillante e maestoso ghiacciaio. E nonostante continuasse a bruciare anche durante la sua estenuante eclissi, trasformando in polvere qualsiasi cosa incontrasse lungo la sua caduta, alla fine moriva senza essere riuscito in alcun modo a sciogliere il ghiaccio di quel monumento millenario eretto dall’inverno.» riprese fiato, silenziosamente « Nonostante fossero poche parole, avevano la capacità di immortalare quella scena d’agonia con tanta efficacia ed immediatezza che leggerla era esattamente come fissare un dipinto.» fece una lunga pausa, deglutendo, mordendosi il labbro inferiore, la bocca che si storceva appena « Tseng.» riprese « Tseng è una sigla. Il titolo di quella poesia riassunto in cinque lettere.»

Su di loro cadde un silenzio innaturale, le parole del Turk che si estinguevano lasciando un vuoto rimbombante. Era come liberarsi di un peso insopportabile, come lasciare scivolare via strati e strati di carbone e sporcizia accumulati negli anni, facendo scorrere l’acqua santa lungo la pelle. Aerith lo guardava, la sua bellissima dea dagli occhi verdi, se ne stava lì tra le sue braccia, così vicina ed irraggiungibile:

« E’ così bello.» commentò, una sorta di strana ed affascinata sorpresa che le illuminava lo sguardo « Non mi aspettavo nulla del genere.»

Tseng non aggiunse altro; abbassò lo sguardo, tentando in tutti i modi di non fare caso allo scorcio di pelle bianca che intravedeva tra i lembi di stoffa blu e rosa – si curò di oscurarli, tirando la giacca da una parte per fare in modo che avvolgesse completamente Aerith.

« Cosa ne è stato di quel ragazzo?» chiese ancora lei, incuriosita. Ma la risposta giunse subito, immediata e priva di esitazioni.

« E’ morto.»

« Oh.» la ragazza distolse gli occhi dal volto del Turk, spostando appena la testa contro la sua giugulare alla ricerca di una posizione più confortevole « E’ un vero peccato.»

Tseng asserì con un breve mugolio – avrebbe voluto poggiare la guancia sui capelli di lei, non sapeva con esattezza se il fatto che lei potesse sentire il battito irregolare del suo cuore o il suo respiro mozzo lo confortasse o lo mettesse in ulteriore agitazione. Poggiò la nuca contro la parete, sentendo i capelli sciolti che gli si insinuavano nel colletto della camicia, solleticandolo appena.

« Un vero peccato.»

La lampadina sfrigolava, mandando lampi irregolari – il vagone diventava a tratti buio come la notte, tutto il mondo che scompariva e appariva nuovamente dopo qualche istante. Le dita di Aerith abbandonarono i capelli di Tseng, stanche di giocare – l’uomo seguì quel gesto con gli occhi, senza sapere se rimpiangerlo o meno. Sentiva ancora il tocco tiepido della mano di Aerith sulla propria, non osava ritrarsi per timore che se lo avesse fatto, lei sarebbe improvvisamente svanita.

Ti prego.

Una voce gridava disperatamente dal suo interno, la sentiva forte e chiara, tanto affranta e supplichevole che riuscì quasi ad avere pena di sé stesso.

Ti prego, fai qualcosa. Anche se solo per poco, anche se è solo un’illusione, anche se dopo il solo pensiero ti farà soffrire il doppio.

Ti prego. Abbracciala. Tienila con te finché non arrivi domani.

Che diritto aveva di darle ascolto? Ancora una volta la prepotenza di un uomo senza onore?

Aerith sospirò, abbassando finalmente le palpebre; mosse ancora la testa, coprendosi la bocca con una mano a celare uno sbadiglio silenzioso:  

« Tseng… lo aiuterai, vero?» mormorò, la voce leggermente impastata dalla sonnolenza che inesorabilmente si impadroniva di lei « Lo aiuterai a tornare indietro?»

Lo sguardo di Tseng divenne vacuo.

Zack Fair. Lo giuro.

Saprò essere degno della tua fiducia.

La voce del dovere soffocò le altre, riducendole ad un sospiro, estinguendole definitivamente.

« Te lo prometto.»

Si vergognò di sé stesso, mentre la guardava sorridere appena, ringraziandolo, addormentarsi come se nulla sul Pianeta potesse minacciarla o farle del male, o farla soffrire.

Sapeva farle solo promesse che non era certo di poter mantenere.

Lo aveva fatto con le lettere, sentendo i sensi di colpa divorarlo ogni volta che   una nuova busta finiva nel cassetto della sua scrivania senza che sapesse come farle giungere al destinatario.

 

(xxx)

   
 
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