Four;
The pink-dressed and her letters • [ ν ] - εуλ 2002/2003 (xxx)
The
day he made a promise of loyalty to his opponent
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In un nuvoloso pomeriggio di ottobre, Aerith
attraversò il Settore 6 fino a raggiungere il piccolo parco
giochi spingendo un
carrellino cigolante in cui erano ordinatamente sistemati dieci piccoli
mazzi
di fiori appena colti. Era il suo primo timido tentativo: aveva chiesto
aiuto
per scegliere i fiori più belli e li aveva raccolti uno ad
uno, avvolgendoli
nella carta velina colorata con la stessa perizia con cui avrebbe
preparato un
regalo.
La sera prima, quando Tseng aveva raggiunto la
chiesa per il quotidiano turno di sorveglianza, l’aveva
trovata intenta nel
comporre attentamente un mazzo di boccioli bianchi e rossi: stava
legando un
nastro viola intorno agli steli recisi, le dita affusolate che
lavoravano un
grande fiocco lucido.
« Che ne pensi?» gli aveva
domandato, tendendo le
braccia fino a piazzargli il mazzo sotto il naso « Ti viene
voglia di
comprarlo?» lo aveva guardato piena di aspettative.
Tseng aveva trattenuto il respiro, i petali ed i
pollini dei fiori che gli solleticavano il volto ed il loro profumo che
si
confondeva fino a fargli girare la testa. Aveva battuto le palpebre,
guardando
lei e poi la sua prima composizione floreale.
« Ti spiace vendermelo?» aveva
tirato fuori il
portafogli dall’interno della giacca; e sebbene lei avesse
inizialmente
allontanato il mazzo con espressione perplessa, alla fine aveva
giocosamente
iniziato a contrattare.
Era stato il suo primo cliente. Aveva pagato in
silenzio, senza fare caso al prezzo, ricevendo l’acquisto
direttamente dalle
mani di Aerith; gli aveva regalato in cambio un sorriso così
sincero e limpido
che Tseng pensò che quel mazzo di fiori valesse molto
più della cifra irrisoria
di cui lei si era accontenta.
La sera del suo timido debutto sul mercato dei
bassifondi, la ragazza si era incamminata attraverso il quartiere con
la sua
merce profumata, piena di buona volontà ed impazienza.
Tseng l’aveva vista uscire dalla chiesa
tenendo
strette le mani sul manico di legno dell’improvvisato mezzo
di trasporto,
stando attenta a non far urtare le piccole ruote sui grandini della
scalinata.
L’aveva osservata da lontano, ascoltando ogni sua parola,
seguendo i suoi passi
fino al luogo in cui si erano parlati la prima volta –
riuscì stranamente a
compiere il proprio lavoro senza alcuna interruzione, senza imprevisti,
e senza
che lei desse mai segno di essersi accorta della sua presenza.
Zack Fair l’aveva accompagnata lungo
tutto il
tragitto, tentando di adeguarsi al suo passo lento, senza smettere di
parlare
un attimo. Di tanto in tanto si era offerto di spingere il carretto per
lei, ma
dopo che aveva rischiato di rovesciarlo mentre lo conduceva accelerando
il
passo, lei aveva scosso il capo e declinato ogni sua offerta. E
nonostante con lei
facesse spesso e volentieri figuracce tremende, Aerith rideva sempre
con garbo,
nella giusta misura, senza mai eccedere o offenderlo; dava retta alle
sue
spacconate da supereroe o le sue osservazioni divertite come se
ascoltare la
sua voce fosse l’unica cosa di cui avesse bisogno.
Quando infine raggiunsero il parco giochi, Tseng
li vide appostarsi vicino all’altalena sbilenca. Avrebbe
voluto raggiungere
Aerith e assisterla in quel momento che lei considerava così
importante, ma il
dovere lo costrinse a tenersi in disparte.
Non solo
il dovere. Una voce
nella sua
testa gli sussurrò la verità, ma lui
cercò di rimandarla indietro. Poggiò la
schiena sulla superficie ricurva di un enorme animale cavo nel quale a
volte i
bambini giocavano a nascondino – incrociò le
braccia, in attesa.
Il carrellino ricolmo di fiori colorava
quell’angolo polveroso di tinte insolite – alcuni
ragazzini si voltarono
incuriositi, interrompendo i loro giochi.
« Credi davvero che in fin dei conti
qualcuno
comprerà i miei fiori?» il tono di Aerith
suonò improvvisamente teso « Non è
ancora venuto nessuno.» le sue parole provocarono un leggero
divertimento in
Tseng. Erano lì da pochi minuti, ma lei non era mai stata un
tipo paziente.
« Vedrai che arriveranno!» la
rassicurò Zack,
benevolo, sicuro di sé come al solito « Devi solo
aspettare un po’ di più.»
Aerith si toccò preoccupata una guancia,
studiando
il carrello con aria critica ed un po’ rassegnata:
« Se non arriverà nessuno,
darò la colpa al tuo
carrello! Non è abbastanza grazioso.»
Lui rise in risposta:
« Appena potrò te ne
costruirò uno più carino,
allora.»
Lo sguardo di Tseng si perse nel vuoto; volse gli
occhi al reticolato metallico ed arrugginito che faceva da recinzione
al parco,
lo fissò a lungo senza vederlo. Ascoltare le loro
conversazioni era terribile
quanto spiarli quando rimanevano in silenzio tra le mura della chiesa,
godendo
semplicemente della compagnia l’uno dell’altra.
Avrebbe voluto andarsene, si
sentiva un intruso, superfluo come un terzo incomodo. Ma i suoi piedi
rimasero
fermi, immobili nella polvere. Non poteva abbandonare
l’incarico.
« Un cliente!»
sbottò d’un tratto Aerith a bassa
voce, mentre un individuo attempato varcava l’entrata del
parco giochi
probabilmente per recuperare i propri figli. Zack gli corse incontro,
tagliandogli la strada – l’uomo indietreggio di un
passo, sulla difensiva.
D’altronde un esagitato ragazzo dall’aspetto non
esattamente comune – indossava
la divisa SOLDIER della ShinRa ed i suoi occhi brillavano di un accesso
azzurro
come fossero vivide fiamme di Mako – gli era appena apparso
davanti senza alcun
motivo preciso, e oltretutto assumendo un atteggiamento decisamente
allarmante.
« Che dite di acquistare dei
fiori?» gli chiese, esaltato
« Sono solo dieci Gil! E’ un prezzo stracciato! Non
può farsi scappare questa
offerta!»
Aerith lo osservò, divertita,
controbattendo che
l’importante era distribuire i fiori e non quanto denaro
fossero riusciti a guadagnare;
quando lui tornò da lei con aria abbattuta per chiederle
scusa – aveva
ovviamente fatto scappare il primo potenziale cliente della giornata
– lei
scosse graziosamente il capo:
« Non devi scusarti. Sono molto
felice.» gli
sorrise « L’importante è che tu sia qui
con me.»
Tseng chiuse gli occhi. Avrebbe preferito non
sentire una sola parola.
Aerith superò il suo maldestro socio in
affari,
correndo verso una giovane donna che avanzava tenendo in braccio un
neonato,
decisa a fare un altro tentativo – aveva apprezzato la buona
volontà del
SOLDIER ma forse avrebbe avuto più speranze di vendere i
fiori se fosse stata
lei stessa ad occuparsi della pubblicità.
Fu in quel momento che Zack si accorse della
presenza di Tseng, forse aveva semplicemente finto di non vederlo fino
a quel
momento, forse i suoi sensi acuiti dal Mako lo avevano individuato sin
da
quando erano usciti dalla chiesa, e silenziosamente aveva assecondato
il gioco del
Turk facendo finta di nulla.
Tuttavia lo raggiunse, fermandosi al suo fianco con
poche falcate.
« Devo partire.»
annunciò con tono cupo,
incrociando gravemente le braccia sul petto « E’ un
incarico importante assieme
a Sephiroth…non so neppure quando mi sarà
concesso tornare.» il suo sguardo
brillante vagò per un attimo, cercando in tutti i modi di
non incontrare quello
di Tseng – sarebbe stato troppo facile per lui leggervi un
leggero imbarazzo ed
una certa inquietudine.
« A lei lo hai già
detto?» gli chiese il Turk,
senza mezzi termini. Zack annuì, corrugando la fronte,
insinuando una mano tra
i capelli per scompigliarli in un gesto nel quale si mescolavano
impaccio e
frustrazione.
« Il punto è che questa volta
non so quanto
potrebbe durare.» rivelò « Potrei
rimanere via per mesi.»
« Non essere in pena per lei.»
fu straziante come una
ferita d’arma da fuoco, ma Tseng non poté fare
altro che tranquillizzarlo –
tenerla al sicuro era il suo lavoro
«
Proteggere il soggetto fa parte degli incarichi di
sorveglianza.» Zack gli
impedì quasi di concludere la frase – sembrava che
avesse atteso le parole di
Tseng in preda ad un’ansia terribile:
« Sei l’unico di cui possa
fidarmi.»
Tseng lo guardò per qualche istante,
sgranando
appena gli occhi. Le parole del SOLDIER tuonarono dentro la sua testa
come una
filastrocca fantasiosa – ma anche sforzandosi, gli fu
impossibile interpretarle
come uno scherzo di cattivo gusto. Il giovane lo pensava davvero.
Non poté fare a meno di ridere,
portandosi un
pugno alla bocca come a nasconderla.
Si fida
di te.
Era una cosa talmente contraddittoria e incoerente
da sembrare quasi impossibile, eppure quell’uomo che avrebbe
potuto contrastare
un intero esercito senza troppe difficoltà era
lì, era disperatamente serio e gli
stava affidando la donna che amava.
Zack Fair era davvero incredibile. Un grande
stupido che offriva volontariamente il fianco al nemico senza neppure
accorgersene, sbandierando i propri segreti e le proprie debolezze ai
quattro
venti – ma che in qualche modo riusciva a far sentire
importante chiunque lo
circondasse.
Aveva la capacità di trovare i pregi del
prossimo,
ingigantendoli fino a far sembrare ogni aspetto negativo delle inezie
senza
valore – e in un modo tutto suo, riusciva a valorizzare
quelle virtù nascoste
fino a che anche gli altri non le riconoscevano e gli davano ragione.
Il ragazzo sembrò quasi arrossire; si
sporse verso
di lui, contrariato:
« Ehi, perché stai
ridendo?»
Si fida.
Si fida
di te che sei solo un assassino.
Tseng lo guardò, senza dire nulla.
Zack Fair era il suo completo opposto: aveva
scelto la sua strada per rincorrere un sogno, aveva compiuto la sua
scalata verso
il rango di Prima Classe scalciando e sgomitando, allenandosi
strenuamente,
rialzandosi dopo ogni fallimento. Faceva il suo lavoro
perché aveva un
obbiettivo, combatteva perché non si sarebbe arreso fino a
quando non lo avesse
raggiunto.
Zack Fair non mentiva a sé stesso.
Zack Fair si era conquistato il proprio onore con
il sudore e la fatica.
Non lo aveva buttato via come se non gli fosse
più
di alcuna utilità. Aveva lottato per proteggerlo.
Tseng sentì improvvisamente il peso di
ogni azione
compiuta diventare insopportabile; smise di mentire, smise di
nascondersi, si
limitò semplicemente ad accettare pienamente la propria
colpa.
Aveva desiderato che Zack Fair sparisse, che non
fosse mai esistito, che non fosse entrato nella sua vita e in quella di
Aerith.
Lo aveva guardato tante volte, da lontano, desiderando solo che gliela
restituisse.
Sei
meschino.
C’era un modo per sentirsi ancora un
volta fiero
di sé stesso?
Il SOLDIER abbassò il capo, sospirando
sommessamente, voltando appena la testa in direzione
dell’improvvisata fioraia
ancora intenta nelle operazioni di compravendita; era evidente che non
volesse
lasciarla. Indicò il Turk con l’indice puntato,
convinzione e serietà che
tenevano immoti i suoi lineamenti e gli corrugavano fronte:
« Conto su di te.» lo disse
ancora, come se la
prima volta non fosse bastata.
Tseng lo seguì con lo sguardo mentre
correva di
nuovo verso Aerith, distogliendo gli occhi solo quando lo vide
intromettersi in
una contrattazione e rovinarla fino a costringere
l’acquirente ad andarsene con
un nulla di fatto.
L’uomo che gli aveva sottratto
l’unica ragione per
cui Tseng viveva, gli stava donando
la possibilità di riconquistare tutto ciò che lo
avrebbe fatto sentire
nuovamente un essere umano. La
dignità, la fiducia, la morale, la certezza di poter ancora
fare la cosa giusta.
Ora che l’onore serviva a qualcosa, come
avrebbe
potuto tradirlo e ripudiarlo nuovamente? Sarebbe stato doloroso e
spesso
difficile, ma non era forse una prova? Un ennesimo ed ultimo sacrificio
per
riscattarsi dai propri errori?
Bastava rinunciare alla felicità per
riottenere tutto.
Tseng sorrise appena – in ogni caso non
gli era
rimasto nient’altro da perdere.
Zack
Fair. Lo giuro.
Saprò
essere degno della tua fiducia.
In un giorno qualsiasi di metà gennaio,
Aerith
indossò per la prima volta un lungo ed attillato vestito
rosa. Le lasciava le
spalle scoperte e si chiudeva sul davanti grazie ad una lunga fila di
piccoli
bottoni bianchi. Non aveva decorazioni, né particolari
graziosi – era semplice,
disadorno, molto diverso dagli abiti che Tseng ricordava di averle
visto
addosso. Le erano sempre piaciuti i pizzi, i tessuti dipinti o
ricamati, i
gingilli decorativi e le tonalità sgargianti.
« Ho finito di cucirlo ieri
notte.» gli rivelò,
facendo una piroetta sul posto per mostrargli il proprio lavoro; la
stoffa si
gonfiò morbidamente intorno alle sue gambe magre, la lunga e
spessa treccia disegnò
un ampio semicerchio a circondarle le spalle, frustando
l’aria. « Che te ne
pare?»
Tseng la seguì con lo sguardo senza
battere
ciglio, cercando di non fare caso a quanto profondo fosse lo spacco
della gonna
o a quanto graziose fossero diventate le sue forme; l’abito
attillato la
fasciava mettendo in risalto i fianchi morbidi e la vita snella,
disegnando
perfettamente le curve del seno tondo e perfetto:
« Pensavo che il tuo colore preferito
fosse
l’azzurro.» osservò, guardandola mentre
terminava il suo giro e si
immobilizzava davanti a lui, con i piedi uniti.
« Uno strappo alla regola.»
spiegò lei, evasiva.
Come se Tseng non sapesse.
« Pensi che abbia fatto un buon lavoro?
» chiese
ancora, sollevando un lembo della gonna tra l’indice ed il
pollice, studiando
con poca convinzione le cuciture « Mamma mi ha dato qualche
dritta, ma non sono
molto sicura. Credi
sia
troppo semplice?»
Tseng scosse il capo. Lei cercava sempre la sua
approvazione, qualsiasi cosa facesse. E se non voleva il suo consenso,
desiderava un consiglio, un’opinione, qualsiasi cosa che la
facesse sentire
sicura di ciò che faceva. Era sempre stato così,
sin da quando lei aveva dieci
anni e gli aveva chiesto aiuto per scegliere il regalo di compleanno
per sua
madre.
Tseng l’aveva sempre assecondata, quando
ne era
stato in grado. E se serviva a renderla più contenta o
sicura di sé, andava
bene. Anche se ultimamente la cosa gli procurava solo un profondo senso
di
vuoto.
« Trovo che ti stia bene.»
aggiunse, allungando
una mano per toccarle la clavicola esposta « Potresti provare
a cucire anche un
copri spalle.» le suggerì « Non voglio
che ti ammali solo perché a metà gennaio
hai deciso che ti piace il rosa.»
Lei accolse la sua mano senza battere ciglio,
lasciando che la sfiorasse in cima al braccio destro. Ma mentre la
toccava,
anche se durò poco meno di un istante, Tseng
sentì gelare le punte delle dita,
un brivido freddo che gli si insinuava con prepotenza nelle ossa.
Lei soppesò il consiglio per qualche
istante, picchiettando
il labbro inferiore con i polpastrelli:
« Potrei provare a farne uno.»
ci pensò per
qualche istante, il volto concentrato ed assorto « Rosso? Che
dici?»
« Aggiudicato.» il Turk
annuì brevemente. Non gli
importava molto del colore o dell’abbinamento o di qualsiasi
altra cosa potesse
tormentare il senso estetico di Aerith. L’importante era che coprisse quelle sue spalle bianche.
« Bene, allora. Farò un tentativo.» lei
annuì, dirigendosi verso
la panca in prima fila su cui aveva poggiato ordinatamente le proprie
cose – iniziò
ad infilare la sua giacca bianca sagomata, inforcando le maniche
l’una dopo
l’altra « Oggi mamma mi ha chiesto di tornare a
casa presto.» lo informò,
sistemandosi il colletto e tirando su la lunga zip « Voleva
che l’aiutassi a
cogliere qualche fiore dal nostro giardino per riempire i vasi del
salotto.»
« Ti accompagno.» la proposta
di Tseng suonò fin
troppo categorica perché lei potesse rifiutarsi –
infatti fece un cenno rapido
del capo, chinandosi per raccogliere gli attrezzi da giardinaggio ed il
grembiule ripiegato sul pavimento:
« Ti
ringrazio.»
Tseng attese che fosse pronta, osservandola mentre
riponeva le sue cose in una grossa borsa di tela azzurra; gliela
sfilò di mano
quando vide che la sollevava per caricarsela in spalla:
« Lascia fare a me.»
Aerith ridacchiò con aria divertita,
stringendosi
nelle spalle mentre avanzavano insieme verso il portale della chiesa.
Camminarono in silenzio a lungo, i loro passi che
si sovrapponevano nella polvere, un venticello freddo che li frustava
vorticando
tra i capelli di Aerith e tra le ciocche nere dell’ormai
lunga coda di cavallo
del Turk.
Di solito la ragazza non permetteva che tra di
loro calassero silenzi imbarazzanti e soprattutto non sopportava che
Tseng
fosse così taciturno, ma ultimamente era capitato molto
spesso che fosse lei la
prima a non trovare nulla da dire – le sue labbra rimanevano
sigillate, i suoi
occhi catturati dal movimento alternato dei propri passi che si
susseguivano. E
così si limitavano ad affiancarsi, come due estranei che
incontratisi lungo il
sentiero avessero deciso di raggiungere insieme la loro meta comune.
« Tseng.» esordì lei
d’un tratto, con voce fioca;
gli toccò un braccio con la punta delle dita, in un
atteggiamento insolitamente
timoroso « Vorrei parlarti di una cosa.»
Il Turk annuì:
« Ti
ascolto.»
Aeirth fece una pausa, aggrappandosi a lui, le
mani che cercavano rifugio tra le pieghe del suo soprabito di pelle
nera:
« Anche se…» le
sfuggì una risatina imbarazzata mentre
cercava in tutti i modi di non incrociare lo sguardo
dell’uomo «…forse potresti
pensare che io sia una stupida.» scosse il capo, premendo una
guancia contro la
sua spalla, come in un tentativo impacciato di nascondere il volto
« E’
abbastanza imbarazzante.»
« Non riderei mai di te.»
Lei parve sollevata dalle parole del Turk;
inspirò
profondamente, infilando con cautela una mano nella tasca destra della
sua
giacca:
« Ecco…»
frugò per qualche istante, estraendone
infine una piccola busta quadrata di carta rosa « Ho scritto
una lettera, ma
non saprei a che indirizzo spedirla.»
« A chi è
indirizzata?»
La domanda di Tseng fece in modo che Aerith
smettesse improvvisamente di avanzare. Si immobilizzò, al
centro di un incrocio,
gli occhi bassi che ancora una volta sembravano scrutare la punta delle
sue
scarpe pesanti ed impolverate. Il Turk fece lo stesso, guardandola
– sentiva
ancora le sue dita premere con forza contro il proprio braccio.
« Tseng, non ho sue notizie da quasi tre
mesi.»
disse lei dopo qualche istante « Non ho idea di come funzioni
Tseng la osservò per qualche istante, un
turbamento insopportabile che si rimescolava dentro di lui senza dargli
mai
tregua. C’era il viso congestionato di Aerith,
l’eco delle sue parole
speranzose che lo imploravano, il suo sguardo così
insolitamente abbattuto da
far gelare il sangue. E poi c’era quell’anonima
lettera, un sottile foglio di
carta che significava tutto e niente, che faceva male come
un’ennesima
pugnalata.
Zack Fair non era più tornato dalla sua
ultima
missione. Aerith lo aveva atteso ogni giorno, a volte sedendosi da sola
sui
gradini della chiesa, chiedendo spesso a Tseng se avesse sue notizie e
ricevendo sempre la stessa identica risposta avvilente.
Mi
dispiace, non mi sono state fornite informazioni al riguardo.
Quando i rapporti ufficiali della ShinRa avevano
catalogato la missione affidata a Zack Fair e Sephiroth come un totale
fallimento, gli Esecutivi avevano iniziato a comportarsi come se i due
SOLDIER
di Prima Classe non fossero mai esistiti. O meglio, i giornali avevano
riportato solennemente la notizia del decesso dell’eroe
Sephiroth, avvenuto in
circostanze misteriose. Ma la scomparsa di Zack era passata in sordina,
era
stata quasi ignorata, come se la compagnia avesse tentato di proposito
di
occultarla in ogni modo possibile.
I tentativi del Turk di rintracciarlo si erano
rivelati del tutto vani –
Ed ogni volta che Aerith gli chiedeva sue notizie,
lui non poteva fare altro che scuotere il capo, sentendosi del tutto
inutile.
« So che lui è
vivo.» erano le parole che lei non
si stancava mai di ripetere e che spingevano Tseng a non interrompere
le
ricerche.
Lo fai
per lei.
Lo fai
perché hai promesso.
O lo fai
solo per sentirti meglio?
Accolse tra le dita la lettera di Aerith, annuendo
piano:
« Troverò un modo per
fargliela avere.»
In una sera in cui il cielo coperto minacciava
l’inizio
di un temporale, Aerith si inoltrò da sola nel cimitero dei
treni del Settore
7, scomparendo tra la ferraglia ed il metallo corroso
dall’umidità.
Quel pomeriggio, Tseng l’aveva lasciata
piuttosto
tardi; aveva ignorato l’orologio fino a che le lancette non
avevano indicato lo
scoccare delle otto, limitandosi ad ascoltare la sua voce che intonava
motivetti sconosciuti mentre le sue mani armeggiavano laboriose attorno
all’aiuola. Si erano salutati solo all’imbrunire,
quando lei aveva sollevato il
cestino pieno di fiori appena colti e gli aveva chiesto graziosamente
di
accompagnarla a casa; Tseng l’aveva accontentata senza
fiatare, sollevandosi
dalla panca su cui aveva passato la maggior parte del tempo. Era dalla
fine di
Febbraio che Aerith preferiva non essere lasciata sola e che Tseng, di
conseguenza, era diventato ancora più restio ad abbandonare
i bassifondi.
« Devo fare un lavoretto.» gli
spiegò, mentre frugava
nella sua borsa in cerca delle chiavi di casa, in piedi davanti
all’entrata «
Non mi ci vorrà molto, ad ogni modo. Quindi non
preoccuparti, okay?» aveva
infilato la chiave nella toppa, ma nel girarla si era voltata a
guardarlo con
aria severa « Non mi taglierò, non mi
farò male, non sarò in pericolo. Ti basta
come assicurazione?»
Tseng l’aveva assecondata, suo malgrado.
Accettava
di aiutarla con i lavori manuali non solo per semplice altruismo.
« Stai attenta lo stesso.» non
riuscì ad evitare
di dirglielo. Lei aveva sbuffato appena, prendendolo in giro:
« Certo!» la chiave aveva
scattato nella
serratura, mentre la porta si dischiudeva lentamente «
Buonanotte, mio
guardiano dai capelli corvini e dalle poche parole.» Il Turk
l’aveva seguita
con gli occhi mentre scappava dentro casa, mettendosi al riparo da
qualsiasi
sua reazione imprevista – lei sapeva che Tseng non avrebbe
mai varcato quella
soglia, anche se non gli aveva mai chiesto il perché.
Tuttavia lui l’aveva
semplicemente salutata con garbo, rimanendo immobile mentre la porta si
chiudeva. Si era voltato ed aveva iniziato ad allontanarsi, lasciandosi
alle
spalle il rigoglioso giardino che Aerith aveva piantato intorno alla
casetta. In
quello scorcio colorato e pacifico del Settore 5, ogni folata di vento,
anche
se minima, portava con sé i profumi di un mondo che non era
Midgar.
Si era diretto verso la stazione del Settore 7,
controllando distrattamente che lo schermo del PHS non evidenziasse
messaggi non
letti. Aveva aspettato l’arrivo dell’ultimo treno,
in piedi sul ciglio dei
binari, le punte delle scarpe che superavano ampiamente la linea gialla
di
sicurezza. E un quarto d’ora dopo, sistemandosi sui sedili
dell’ultimo vagone,
aveva alzato gli occhi verso il finestrino e l’aveva
vista.
La scorse con la coda dell’occhio, una
figura
minuta e rosa che avanzava piano e spiccava sul grigio
dell’ambiente
circostante, addentrandosi indisturbata nell’angolo dei
bassifondi dove
venivano gettate ed abbandonate le locomotive inutilizzabili. Gli occhi
gli si
sbarrarono quando la vide addirittura scavalcare goffamente le assi che
barricavano
l’entrata, passando le gambe ad una ad una aldilà
del basso ostacolo. Si alzò
di scatto, riuscendo a scendere dal treno poco prima che le porte
automatiche
si chiudessero e la locomotiva iniziasse a muoversi; urtò un
ferroviere,
riconoscendo di sfuggita la sua divisa rossa, mormorando a bassa voce
delle
scuse soffocate.
Non mi
taglierò, non mi farò male, non sarò
in pericolo.
Lei, da
sola, nel cimitero dei treni.
Perché quella donna faceva di tutto per
farlo
preoccupare, per mettersi nei guai, per farlo sentire tanto in ansia da
non
riuscire neppure a ragionare? Perché continuava a ripetergli
che non c’era
nulla di cui preoccuparsi, se poi si cacciava in situazioni simili?
Sentì in lontananza il fischio acuto del
capostazione e lo sferragliare pigro delle ruote metalliche sui binari,
il
rombare raschiante che cresceva gradualmente, raggiungeva il suo apice
e poi
rapidamente si dissolveva, allontanandosi. Aveva appena perso
l’ultimo treno.
Importava?
La seguì silenziosamente, guardandola
mentre
incespicava e urtava bidoni e rifiuti provocando un fracasso infernale
ad ogni
passo. Tuttavia avanzava imperterrita, guardandosi attorno, senza fare
caso
alla giungla di cavi, di spazzatura e rottami che le si apriva davanti
e che minacciava
di inghiottirla non appena avesse commesso l’errore
più stupido. Si fermò un
attimo davanti all’alta e imponente carcassa di un vecchio
vagone – lo scheletro
della locomotiva emergeva dalle vecchie coperture di legno, lunghe dita
ritorte
che sembravano tendersi scompostamente verso l’alto,
scomparendo nel buio cupo
della notte imminente. Le uniche luci che rischiarassero quella zona
proibita
del Settore, a cui il cielo veniva del tutto negato
dall’ombra della piastra
soprelevata, erano delle piccole e accecanti lampadine al neon che
punteggiavano l’immenso soffitto metallico. Aerith si
guardò attorno, spaesata,
l’oscurità che la disorientava – Tseng
sentì dei sommessi squittii in
lontananza, dei fruscii insistenti, un tonfo metallico provenire dalle
proprie
spalle.
E quando lei, sobbalzando, arretrò
appena
rischiando di inciampare su delle assi di legno scheggiate, il Turk
sentì la
rabbia crescere tanto in fretta che le sue gambe si mossero da sole,
ogni
singolo muscolo che si contraeva senza ritmo. La raggiunse,
sostenendola,
afferrandole fermamente un polso; lei ingoiò un grido, si
voltò di scatto, gli
occhi spalancati.
Lei, di
notte, in un posto del genere.
Rimase sospesa, immobile, le palpebre che
battevano in fretta; lo riconobbe dopo qualche istante, i lineamenti
che si
confondevano nella penombra.
« Tseng!» disse il suo nome con
la voce che
diventava di colpo più acuta, le iridi che le si riempivano
della luce
colpevole e di uno stupore quasi terrorizzato.
Una
bambina.
Tseng allentò appena la presa su suo
polso, le
dita che sfioravano piano la pelle liscia della sua piccola mano
destra.
E’ ancora
una bambina.
« Cosa ci fai qui?» le chiese,
tentando di rendere
il proprio tono meno duro possibile. Era talmente infuriato che sentiva
un nodo
ostruirgli la gola ed ogni via respiratoria, ma l’ultima cosa
che desiderava
era metterle paura.
« Te l’ho detto, no?»
si giustificò subito lei
aggrottando le sopracciglia in un atteggiamento nuovamente combattivo
« Devo sistemare
delle cose! Non ti avevo detto di non preoccuparti? Che bisogno
c’era di
venirmi alle spalle a quel modo? Mi hai spaventata!»
« Perché sei venuta
qui?» le chiese ancora, questa
volta assumendo un cipiglio deciso – lei
indietreggiò di un passo « Hai idea di
quanto sia pericoloso?»
« Lo so benissimo!»
ribatté la ragazza, riuscendo
a domare l’incertezza che l’aveva fatta balbettare
appena sulle prime parole «
Sai perfettamente che so badare a me stessa!»
« Cosa dovrei pensare?» le
strinse la mano in un
gesto automatico, senza neppure accorgersene, sentendo le sue dita
abbandonate
ed inermi contro le proprie « Mi racconti una bugia simile
solo per poterti
mettere nei guai con maggiore facilità? Non scherzare con
me, ragazzina.»
« Sapevo che se avessi provato a venire
qui
assieme a te, me lo avresti impedito.» controbatté
ancora lei, rispondendo alla
stretta dell’uomo; piegò le dita contro quelle di
lui in un gesto docile – la
sua espressione si indurì, mentre continuava a contrastarlo,
imperterrita; non
c’era coerenza tra gesti e parole « Ho dovuto
farlo! Sapevo che tu non me lo
avresti permesso!»
Gli occhi di Tseng si sgranarono appena:
« Se me lo avessi detto, non ce ne
sarebbe stato
bisogno.» continuò, stringendole mano con maggiore
impeto « Se mi avessi detto
cosa ti serviva, te lo avrei procurato.»
Lei trattenne il respiro, le guance che le si
arrossavano di rabbia o forse di imbarazzo, stava diventando troppo
buio perché
Tseng riuscisse a percepire la differenza:
« Il carretto si è
rotto.» ammise alla fine,
abbassando la voce e gli occhi « Ha perso una ruota mentre lo
spingevo verso
casa.» la sue dita fremettero appena nella mano del Turk
« Volevo cercare un
pezzo di ricambio.»
Il furore dell’altro si
affievolì appena, una
strana consapevolezza che gli faceva ancora una volta gelare le vene.
Attese
qualche istante, scrutando gli inquietanti e cupi disegni che la luce
fioca
delineava sulle gote di Aerith, sulla curva della sua bocca.
« Perché non mi hai chiesto
aiuto?» domandò alla
fine, con un fil di voce, con tono talmente basso che per un attimo
penso che
Aerith non lo avesse udito « Sapevi che ti avrei
aiutata.»
Non vuoi
che le mie mani tocchino le cose che ti ricordano lui?
E’
così?
Si preparò ad una risposta avvilente, si
preparò
ad avere l’ennesima conferma di quanto quel suo disperato
bisogno di stare con
lei non servisse a nulla, fosse solo un elemento di contorno, di quanto
ogni
delusione facesse sempre più male, nonostante tutto. Ma
Aerith sollevò gli
occhi scuotendo il capo.
« Tu sei sempre troppo gentile con
me.» ammise,
stringendosi in sé stessa « Fai già
tanto e ogni volta mi sembra solo di
crearti fastidi.»
Tseng la guardò, rendendosi conto davvero di quanto quelle poche e banali
parole avessero reso tutto più semplice.
Si accorse solo in quel momento delle loro mani strette l’una
all’altra, ma lei
si rifiutò ostinatamente di lasciarlo andare sebbene
tentasse in tutti i modi
di allontanarla. E alla fine rinunciò.
« Ti aiuterò a sistemare quel
carretto.» concluse
alla fine, categorico, serio, con lo stesso tono con cui avrebbe
pronunciato un
giudizio di vita o di morte, con la stessa solennità con cui
avrebbe impartito
un ordine di fondamentale importanza. Aerith rimase un attimo zitta,
guardandolo
allucinata mentre continuava a tenerle la mano e nel frattempo le
parlava con
quell’espressione grave; poi trattenne improvvisamente il
respiro, soffocando e
trattenendo con difficoltà una risata.
« Non dirmelo con quella faccia,
però.» contestò,
coprendosi il volto con la mano libera – sembrava stesse
facendo uno sforzo
incredibile per non scoppiare a ridere.
E accorgendosi che ora avrebbe potuto agevolmente
trascinarla via da quel posto tremendo e riportarla a casa, dove
avrebbe
finalmente smesso di insistere riguardo la ruota del maledetto
carretto, Tseng
distolse l’attenzione da lei – con
difficoltà – e si guardò
attorno. La vecchia locomotiva usurata dal tempo
sorgeva al centro di uno spiazzo sterrato e a tratti fangoso, un
semicerchio
perfetto delimitato dalle tombe di altri sei vagoni più
piccoli e da una
quantità imprecisata di frammenti di calcestruzzo crepato
che giacevano
disordinatamente sui binari ormai inagibili. La sua memoria infallibile
fotografò ogni particolare, notò la luce
intermittente che ancora
miracolosamente funzionava all’interno di un vagone con le
finestre crepate,
vide la pelle marcia che rivestiva alcuni dei sedili, le pozze
d’acqua che si
erano accumulate ed avevano stagnato sul pavimento metallico dopo le
piogge autunnali.
E poi si interruppe, di botto, scrutando le fessure
che segnavano una spessa asse di legno da cui spuntavano numerosi
chiodi
arrugginiti. La sua memoria non gli mandava segnali, ogni particolare
era nuovo
e sconosciuto, vedeva tante cose ma non ne riconosceva neppure una. E
frugando
nella propria memoria nel tentativo di ricordare e ripercorrere la
strada che
lo aveva condotto fino a quel punto, trovò solo il buio, il
silenzio, ed un
disorientamento sconcertante.
Si guardò ancora intorno, nel vano
tentativo di
trovare qualcosa che potesse essergli d’aiuto. Ma nella sua
memoria fotografica
si accavallavano solo le immagini di quello spiazzo vuoto, freddo, cupo
e
desolato e poi Aerith che correva, Aerith che inciampava, Aerith che
gli urlava
contro e comunque gli teneva la mano, Aerith
che si metteva sempre e comunque
nei
guai.
Sbatté le palpebre, perdendo di botto il
senso
dell’orientamento, sentendosi sperduto ed indifeso come mai
era successo prima.
La sua
memoria non lo
aveva mai tradito.
« Cosa succede?» chiese la
ragazza, notando
improvvisamente il suo disagio.
Tseng non le rispose, cercando con impazienza
quasi febbrile il telefono nella tasca – lo estrasse,
sollevando lo schermo con
un secco movimento del polso.
« Dobbiamo andarcene di qui.»
spiegò, senza
aggiungere ulteriori particolari. In una situazione normale, si sarebbe
affidato al proprio istinto – ma c’era
quell’interferenza, una sorta di
disturbo insistente che gli impediva di raggiungere i ricordi confusi
dei
momenti che lo avevano condotto in quel luogo. E fu con una sorta di
cupa
disperazione che aprendo il PHS, si rese conto che quella zona del
Settore non
era coperta dalla rete telematica della ShinRa. Aveva sperato di poter
chiamare
qualcuno o di rintracciare una mappa della zona tramite le informazioni
satellitari, ma lo schermo del telefono continuava a negargli qualsiasi
servizio. Tentò una telefonata, premendo per qualche istante
il cellulare
sull’orecchio – ma la linea rimase muta fino a
quando, senza fare rumore, non
cadde definitivamente. E alzando gli occhi, vedeva solo rottami e
macerie che
si confondevano con il buio della notte, i ristretti e fiochi fasci di
neon
della piastra che rischiaravano le tombe dei treni come cupe candele
funerarie.
Il cimitero dei treni, sconosciuto, buio, un
dedalo di sentieri e vicoli ciechi che gli era completamente ignoto. Si era perso.
Come aveva potuto distrarsi? Perché non
riusciva a
ricordare?
« Come facciamo?» chiese
d’un tratto Aerith,
accostandosi maggiormente a lui « Non si vede quasi
più nulla.» sembrò
incupirsi appena « Non avevo intenzione di inoltrarmi
così tanto, ma non vedevo
piccole ruote da nessuna parte…»
Tseng non le rispose, mentre
l’inquietante
immagine di lei che si ritrovava in quella stessa situazione da sola gli attraversava la mente
facendogli irrigidire la schiena.
Tentò di valutare la situazione in
maniera
razionale, mentre si rendeva conto di non avere la più
pallida idea di quale
potesse essere la via del ritorno – vedeva mille strade
snodarsi tra le rotaie
e tra le locomotive abbandonate senza un ordine preciso, senza
criterio, il
buio aveva inghiottito ogni cosa nel giro di duecento metri. Rimase
lì
immobile, la mano di Aerith ancora ferma nella propria. E con rammarico
estremo
fu costretto a prendere l’unica decisione ragionevole
– l’unica che gli avrebbe
permesso certamente e senza troppi rischi di proteggere Aerith in
quella
situazione anomala.
« Sarebbe meglio non spostarsi al buio,
senza
neppure conoscere la strada.» ammise, suo malgrado, mettendo
a posto il PHS «
Dovremo aspettare e provare ad andarcene domattina, quando
tornerà la luce.»
Aerith rispose con voce tranquilla, come se
l’idea
non la turbasse affatto:
« Vuol dire che dobbiamo passare la notte
qui?»
« Così pare.»
Cosa era successo? Perché non aveva
prestato
attenzione alla strada? Un errore del genere in qualsiasi altra
situazione
avrebbe potuto rivelarsi fatale.
« E’ colpa mia.»
bisbigliò lei, assumendo un tono
leggermente colpevole « Non credi che dovremmo cercare una
via d’uscita?»
« Vorrei.» ammise, storcendo le
labbra in una
smorfia accennata « Ma il buio non mi permette di avere la
situazione
completamente sotto controllo. Non posso mettere a rischio la tua
incolumità.»
se quella notte avesse commesso anche solo un altro errore, non se lo
sarebbe mai
perdonato.
Nella sua testa si affollavano mille pensieri di
cui riusciva a cogliere a malapena il senso - si sovrapponevano
l’uno all’altro,
un confuso groviglio di voci che gli mettevano fretta, rendendo ancora
più
instabile la sua capacità di giudizio. C’era la
promessa fatta a Zack, c’erano
gli ordini dei superiori, c’era il suo cuore terrorizzato che
ansimava al solo
pensiero che ad Aerith potesse accadere qualcosa. Tutte quante tuttavia
improvvisamente si unirono in un coro talmente chiaro ed unanime da
riuscire
quasi ad assordarlo.
Proteggila.
Riuscì in qualche modo a sciogliere la
presa delle
loro mani; un istante dopo sentì le dita di Aerith
aggrapparsi ad un lembo dei
suoi pantaloni, un gesto timido e leggermente timoroso che gli
riportò alla mente
vecchie foto ingiallite di quella bambina dagli occhi grandi che tanto
tempo
prima lo aveva avvicinato solo per consolarlo.
Hai
seguito il suo consiglio.
Hai
dimenticato del tutto i particolari, non hai prestato attenzione a
ciò che ti
circondava.
Finché
non l’hai raggiunta, hai pensato solo a lei, hai visto solo lei.
La cosa
più importante.
Si sfilò la giacca, sentendo il fruscio
sommesso
della stoffa, ignorando il freddo pungente che gli pizzicò
subito la pelle
attraverso la leggera camicia bianca:
« Per ora conta solo che tu non ti faccia
male.»
lo disse poggiandole l’abito sulle spalle nude, sentendola
che sobbalzava
appena in risposta a quel gesto inatteso « Senti
freddo?»
Lei ci si avvolse dentro, non facendo caso alle
maniche che superavano di una buona decina di centimetri la lunghezza
delle sue
braccia:
« Non molto.» rispose,
curandosi di aggiungere
subito dopo « Scusami, non sono ancora riuscita a finire il
copri spalle.» si
strinse nella giacca, le mani che chiudevano il colletto coprendole
naso e
bocca « Sono un po’ impedita con ago e filo. Ci
metterò ancora un po’.»
Il Turk la ascoltò fino alla fine:
« Potrei anche comprartelo io e farla
finita.»
Lei protestò colpendolo debolmente su di
una
spalla:
« Vuoi scommettere? Lo finirò
entro il mese prossimo!»
lo sfidò, assumendo subito dopo un tono leggermente
impensierito, mentre la sua
mano sfiorava il tessuto leggero della camicia
«…ma sei sicuro che ora non sia
tu a gelare?»
« Sto bene.» mentì
l’altro, cercando di ignorare
il freddo pungente che sentiva e che gli stava a poco a poco
irrigidendo le
dita. Scosse il capo, sbattendo velocemente le palpebre mentre una
folata
improvvisa di vento sollevava un fitto pulviscolo di carbone e terra
– Aerith
strizzò gli occhi, il volto che quasi scompariva dietro la
stoffa spessa della
giacca blu.
« Troviamo un posto coperto.»
propose il Turk,
cercando ancora una volta la mano della ragazza; lei accettò
nuovamente il
contatto, stringendo le dita contro quelle di Tseng come se quel gesto
le fosse
familiare e le infondesse un senso indispensabile di sicurezza. Non
sapeva
neppure con quale incredibile sforzo di volontà, Tseng
riuscì a frenare il
tremore che si era impossessato del suo braccio – non sapeva
se fosse per il
freddo o per la tensione.
O forse è
solo causa sua.
« Posso scegliere io la
reggia?» aggiunse lei con
aria scherzosa, coprendosi la bocca con una manica scura. Si guardarono
attorno, lui freddo e teso come durante una missione di sopravvivenza,
lei
curiosa, quasi divertita dalle circostanze insolite.
« Ecco.» disse Aerith infine,
indicando l’entrata
sbilenca di una locomotiva arrugginita che sorgeva alla loro destra,
nella
penombra, inclinata leggermente su di un lato « Preferisci la
tappezzeria
rossa?» chiese, riferendosi a ciò che restava del
rivestimento di pelle dei
sedili « Oppure una rilassante luce intermittente ad
illuminare un ambiente
caldo e confortevole?» spostò il dito,
mostrandogli un vagone situato davanti a
loro.
La decisione non fu difficile; la luce gli avrebbe
permesso di tenerla d’occhio più facilmente.
Iniziando ad avanzare verso il
treno semi illuminato, Aerith che lo seguiva disciplinata avvolta nella
sua
giacca e tenendosi stretta alla sua mano, decise di assecondarla:
« Preferisco gli alloggi
luminosi.» era difficile
scherzare in quella situazione, ma si rivelò più
naturale del previsto. Forse
era ancora per via di Aerith.
« Come vuole lei, signore, cavaliere,
custode.» disse
tutto d’un fiato, come se le ultime tre parole ne
componessero una sola. Erano
definizioni completamente distorte di ciò che lui era, ma
questo non cambiava
il fatto che per Tseng fossero suonate come un altro ennesimo,
dolcissimo ed
immeritato complimento.
L’entrata della locomotiva era
leggermente
rialzata rispetto al pavimento fangoso – c’erano
dei massi piuttosto grandi che
ostruivano il passaggio e delle vecchie ruote d’auto che
inclinavano il vagone
verso l’alto. Il Turk passò avanti, issandosi sui
massi con due lunghi passi,
in uno slancio abile e fluido; quando fu in cima si voltò
verso di lei, afferrandole
entrambe le mani per aiutarla a salire. Le fissò le gambe
che sfuggivano dallo
spacco ampio della gonna rosa fino a che non fu arrivata al suo fianco,
assicurandosi che gli spigoli appuntiti della pietra non la ferissero.
L’interno della locomotiva odorava di
rancido e di
acqua stagnante; i vetri delle finestre erano del tutto assenti, il
metallo sembrava
essere marcito in vari punti sul soffitto e lungo le pareti. La
lampadina
emetteva brevi e poco intensi lampi facendo luce sui sedili consunti da
cui
emergevano le molle arrugginite ed ormai inutili. Tseng
individuò subito
l’unico ad essere del tutto intatto: il rivestimento era
logoro e sfilacciato,
ma aveva comunque l’aria di essere in qualche modo comodo.
« Siediti.» ordinò,
lasciandole la mano solo
quando lei si fu sistemata dove le aveva detto, obbediente «
Cerca di dormire.»
Lei annuì, osservandolo mentre le dava
le spalle e
riprendeva a guardarsi attorno: poggiò una mano sul cuscino,
mentre con l’altra
impediva alla giacca di scivolarle dalle spalle.
« E tu?» chiese dopo qualche
istante, vedendo che
lui non accennava a raggiungerla ed anzi sembrava cercare un altro modo
per
sistemarsi « Continuo a sostenere con convinzione che
nonostante continui a
negarlo, tu in realtà stia gelando.»
La memoria di Tseng studiò la
locomotiva,
individuando tutte le possibili vie attraverso cui avrebbero potuto
manifestarsi eventuali pericoli – le finestre ai lati del
treno, l’entrata
spalancata, un’ampia fessura nel tetto che sembrava una
brutta ferita tra due
lembi lacerati di pelle frastagliata. Alla fine convenne con
sé stesso che la
postazione migliore per passare la notte fosse quella da cui avrebbe
potuto
controllare senza troppe difficoltà qualsiasi apertura. Si
accostò alla parete
umida di fronte al sedile su cui aveva lasciato Aerith, sedendosi sul
pavimento,
la schiena che premeva contro il metallo gelido e duro:
« Ti ho detto che sto bene.»
mentì ancora,
poggiando i gomiti sulle ginocchia piegate « Starò
qui.»
Gli occhi verdi di Aerith si sgranarono:
« E speri di riuscire a dormire in quella
posizione tremenda?»
« Non è necessario che io stia
comodo.» le fece
notare, guardandola con espressione neutra « Il mio compito
è sorvegliarti.»
aveva già previsto di non chiudere occhio, quella notte. Non
avrebbe commesso
altri stupidi errori. Non poteva.
Tuttavia Aerith si rifiutò di
ascoltarlo; batté
con la mano sull’imbottitura del sedile, al proprio fianco:
« Qui c’è posto
abbastanza per entrambi. Non farmi
arrabbiare e vieni qui.»
« Aerith, ho detto no.»
concluse, categorico, con
tono secco « Ora cerca solo di dormire.»
Quando lui distolse lo sguardo, riuscì a
vederla
mentre gonfiava appena le guance assumendo un broncio bambinesco. Ma
bastò un
solo istante, giusto il tempo di tornare a posare gli occhi su di lei e
cogliere il suo slancio, i suoi passi rapidi e quasi ostentatamente
rumorosi
sul metallo – questa volta gli disobbedì con tanta
irruenza e determinazione
che riuscì quasi a stupirlo. Gli si parò davanti
con aria ostinata, come una
ragazzina testarda che vuole vendicarsi per essere stata disattesa una
sola
volta. Si sedette sul pavimento, tra le sue gambe leggermente aperte e
piegate,
poggiando la schiena sul suo petto con forza, come ad imporsi. Si
sistemò le
pieghe del vestito, lasciando scivolare la stoffa lungo le gambe
graziosamente
abbandonate sul metallo freddo della locomotiva – il gesto
tranquillo di una
dama che aveva appena reclamato ed ottenuto ciò che voleva.
Tseng rimase immobile, tendendosi
all’improvviso,
con violenza, gli occhi spalancati e le labbra dischiuse. La
guardò come se lei
fosse la cosa più strana ed aliena mai apparsa sul Pianeta,
scrutò i suoi
lineamenti tranquilli mentre piegava il collo all’indietro e
poggiava la testa
sulla sua spalla, restituendogli lo sguardo:
« Per una buona volta stammi a sentire
senza
fiatare, testardo masochista che non sei altro.» lo
rimproverò, aggrottando le
sopracciglia « Ti ho già costretto a passare una
notte orribile in questo posto
orribile, non lascerò anche che tu muoia
assiderato.» lo costrinse a porgerle
un braccio, iniziando a sfregare le sue dita tra le proprie «
Guardati. Hai due
cubi di ghiaccio al posto delle mani.»
Tseng non rispose, sentendosi talmente rigido che
per qualche istante temette di poter perdere completamente il
controllo. Sentiva
i capelli di Aerith contro le proprie guance, la sua schiena premuta
contro il
proprio petto, il suo profumo lo investì con tanta forza da
soffocare quasi del
tutto ogni altro odore sgradevole. Sapeva di lei, sapeva del suo essere
sempre
così bella e luminosa, sapeva del suo essere giovane e
sempre nuova; lo spinse
fino all’orlo del baratro, lasciandolo pericolosamente in
bilico, disperato,
smarrito, mentre tentava in tutti i modi di trovare un appiglio, un
appiglio qualsiasi per non
precipitare. Deglutì
con difficoltà, tentando in tutti i modi di sciogliere i
muscoli del collo –
riuscì a poggiare la testa contro il muro, respirando a
fondo, silenziosamente,
la bocca sigillata. Aerith non aveva la più pallida idea di
cosa avesse appena
fatto.
« Ecco.» concluse lei
soddisfatta, avvolgendo la
mano di Tseng con la propria, lasciandola lì
dov’era « Ora se vuoi potrei anche
provare ad addormentarmi.» poggiò ancora la testa
contro la sua gola, la sua
fronte che gli sfiorava il mento « E dormirai anche tu. Se
dovesse esserci
qualche pericolo, ce ne accorgeremmo subito entrambi.»
Tseng dischiuse le palpebre, scrutandola con la
coda dell’occhio. Quei familiari occhi verdi brillavano di
soddisfazione e di
trionfo, completamente ignari di tutto. Eppure bastò quello
scorcio smeraldino
di purezza a calmarlo – come un attimo di bonaccia,
riuscì a rilassare appena i
muscoli.
« L’importante è che
tu lo faccia.» concluse,
atono, mentre lei cercava una posizione più comoda
« Domani andremo via di qui
appena sorge l’alba.»
« Looo so.» cantileno lei,
mentre chiudeva occhi,
un leggero sorriso vittorioso che le illuminava le labbra.
C’era del carbone
che le macchiava una gota arrossata, ma Tseng non osò
toccarla per rimuoverlo.
Ricorda,
Comandante.
Ricordatelo.
Ricordati
che non puoi averla.
E non appena lui la vide abbastanza immobile e
silenziosa – quasi che i suoi tentativi di farla addormentare
fossero andati a
buon fine – lei sollevò un braccio e in un gesto
fulmineo lo piegò intorno al
suo collo, raggiungendogli la testa. Afferrò
l’elastico che raccoglieva i suoi capelli
lunghi sulla nuca, lo sfilò con un gesto rapido ed esperto;
le ciocche
ricaddero libere sulla spalla dell’uomo, lunghe onde di pece
che si adagiarono
morbidamente sulla camicia bianca.
« Oplà.» disse lei,
vivacemente, ritirando la mano,
spalancando ancora gli occhi « Sono finalmente riuscita a
scioglierteli. E’ da
una vita che ci provo.» giocherellò con
l’elastico bianco, rigirandoselo tra le
dita, rimirandolo con espressione fiera come se fosse una sorta di
trofeo
inestimabile.
« I tuoi capelli sono neri come sottili
fili
d’ombra. Come la notte. Sembra di affondare la mano in un
liquido vellutato…come
in un abisso senza fine.» arrotolò una ciocca
intorno all’indice, sfiorando con
il polpastrello il lobo del suo orecchio « Perché
continui a legarli? Mi
piacciono moltissimo.»
Ti voglio
per me.
Il tocco delle dita di Aerith tra i suoi capelli
era allo stesso tempo un veleno fatale ed un balsamo che lo cullava e
gli
mandava lenti e pigri brividi lungo tutto il corpo. Era piacere ed era
tormento. Era il desiderio di abbracciarla e non lasciarla mai andare e
di
allontanarla il più possibile perché altrimenti
non sarebbe più stato possibile
trattenersi.
Vorrei.
Vorrei
potertelo dire.
Tseng sopportò, desiderando che
smettesse ed allo
stesso tempo che continuasse all’infinito. Rimase immobile,
ogni lembo del
proprio corpo che toccava il suo bruciava e si disfaceva, continuava a
mandargli
segnali dolorosi e pulsazioni insopportabili.
Vorrei
che fosse possibile.
« Li lascerò sciolti,
d’ora in poi.» le promise,
mentre i capelli neri gli scivolavano sulla fronte, intralciandogli
appena la
visuale; lei piegò appena la testa per guardarlo,
passandogli una grossa ciocca
dietro l’orecchio per fermarli:
« Lo faresti davvero?»
« Per me non c’è
differenza.» Tseng scosse il
capo, mentre sul volto di Aerith appariva un sorriso di soddisfazione:
era
appena riuscita a vedere realizzato un altro piccolo capriccio. Ed era
insolito.
Sei
l’unico su cui possa contare.
Conto su
di te.
Le parole che avevano suggellato la sua promessa a
Zack Fair lo rintronavano, rimbombando all’infinito come un
monito, un
avvertimento pieno di tensione e di fiducia. Si impose dei limiti, si
trattenne
anche quando sentì il bisogno disperato e lacerante di
toccarla – non poteva
tradire un giuramento, non poteva tradire l’onore,
sé stesso, lei. Non
poteva.
«
Tseng…c’è una cosa che mi domando da un
po’.» lo
deconcentrò, introducendo un nuovo discorso. Lui la guardo
in silenzio, in
attesa, mentre lei continuava a giocare senza troppa attenzione con i
suoi
capelli scuri.
« Il tuo nome…»
esitò appena, la voce impastata da
un improvviso torpore «…non è quello
vero.»
Tseng rimase sospeso qualche istante.
« No, non lo è.»
« Tseng mi è sempre suonato
strano, sai? E’ come
se celasse un segreto.» gli occhi si chiusero e si
riaprirono, un brillare
fantastico che ricordava il bagliore del Flusso Vitale «
Posso sapere cosa
significa?»
E per la prima volta dopo quasi dieci anni, Tseng
prese un respiro profondo e riesumò un vecchio ed
impolverato scrigno di
argento ossidato. Vi infilò piano la chiave, timoroso,
ascoltando il rumore
della serratura che si apriva, temendo che tutti i segreti che vi aveva
serbato
tanto gelosamente fino ad allora potessero scivolare via da quella
prigione
fino a farlo impazzire.
Ma il coperchio scricchiolò appena, si
dischiuse
senza che lui provasse alcun dolore. Quando aprì bocca e
decise che era pronto
a risponderle, la voce gli risalì la gola con inaspettata
naturalezza: tutti i
tesori custoditi in quello scrigno si offrirono a lei, come se fin da
quando vi
erano stati rinchiusi avessero aspettato il suo arrivo per poter
riemergere.
Era ancora una sua magia bianca. L’incantesimo più
terrificante e spaventoso di
tutti, ed allo stesso tempo il più gratificante: lei gli
leggeva dentro, lei
non lo disprezzava, lei sapeva ascoltare.
Era come se tutto ciò che lo riguardava
le fosse
sempre appartenuto.
« Tempo fa esisteva un ragazzo a cui
piaceva
leggere poesie.» mormorò, guardando un punto
indistinto davanti a sé « Suo
padre possedeva una grande biblioteca ricca di volumi.» fece
una pausa,
socchiudendo appena le palpebre « Quel giovane era capace di
passare ore ed ore
ad esplorare gli scaffali ricolmi di libri, anche giornate intere,
finché sua
madre non accorreva a dirgli che era pronta la cena. Non
c’era testo che non lo
affascinasse.»
« E questo cosa c’entra
con…?» azzardò lei, ma
Tseng le passò un braccio intorno alle spalle, poggiandole
l’indice teso contro
le labbra – bastò a zittirla.
« C’era una poesia che lo aveva
colpito in
particolare.» continuò, la voce che diventava un
sussurro « Ogni volta che la
leggeva ne rimaneva sempre più stregato.» un
sorriso debole e malinconico gli
apparve sulla bocca « Gli capitava spesso di ripensarci,
domandandosi strenuamente
quale fosse il significato di quei versi. E nonostante tutti i suoi
sforzi, non
riusciva a comprendere. Non capiva perché lo inquietasse
così tanto, né come
fosse possibile che quelle poche parole assemblate così
abilmente tra di loro
potessero suscitargli un tale turbamento.»
Aerith lo guardò, la bocca dischiusa:
« Cosa diceva quella poesia?»
« Erano pochi versi.»
continuò Tseng, tornando a
poggiare la mano libera sul pavimento, le dita che le avevano sfiorato
la bocca
bruciavano « Raccontavano la morte lenta di un sole che,
percorrendo lentamente
la sua discesa verso l’estinzione completa, raggiungeva i
picchi di un
brillante e maestoso ghiacciaio. E nonostante continuasse a bruciare
anche
durante la sua estenuante eclissi, trasformando in polvere qualsiasi
cosa
incontrasse lungo la sua caduta, alla fine moriva senza essere riuscito
in
alcun modo a sciogliere il ghiaccio di quel monumento millenario eretto
dall’inverno.» riprese fiato, silenziosamente
« Nonostante fossero poche
parole, avevano la capacità di immortalare quella scena
d’agonia con tanta
efficacia ed immediatezza che leggerla era esattamente come fissare un
dipinto.»
fece una lunga pausa, deglutendo, mordendosi il labbro inferiore, la
bocca che
si storceva appena « Tseng.»
riprese «
Tseng è una sigla. Il
titolo di
quella poesia riassunto in cinque lettere.»
Su di loro cadde un silenzio innaturale, le parole
del Turk che si estinguevano lasciando un vuoto rimbombante. Era come
liberarsi
di un peso insopportabile, come lasciare scivolare via strati e strati
di
carbone e sporcizia accumulati negli anni, facendo scorrere
l’acqua santa lungo
la pelle. Aerith lo guardava, la sua bellissima dea dagli occhi verdi,
se ne
stava lì tra le sue braccia, così vicina ed
irraggiungibile:
« E’ così
bello.» commentò, una sorta di strana ed
affascinata sorpresa che le illuminava lo sguardo « Non mi
aspettavo nulla del
genere.»
Tseng non aggiunse altro; abbassò lo
sguardo,
tentando in tutti i modi di non fare caso allo scorcio di pelle bianca
che
intravedeva tra i lembi di stoffa blu e rosa – si
curò di oscurarli, tirando la
giacca da una parte per fare in modo che avvolgesse completamente
Aerith.
« Cosa ne è stato di quel
ragazzo?» chiese ancora
lei, incuriosita. Ma la risposta giunse subito, immediata e priva di
esitazioni.
« E’ morto.»
« Oh.» la ragazza distolse gli
occhi dal volto del
Turk, spostando appena la testa contro la sua giugulare alla ricerca di
una
posizione più confortevole « E’ un vero
peccato.»
Tseng asserì con un breve mugolio
– avrebbe voluto
poggiare la guancia sui capelli di lei, non sapeva con esattezza se il
fatto
che lei potesse sentire il battito irregolare del suo cuore o il suo
respiro
mozzo lo confortasse o lo mettesse in ulteriore agitazione.
Poggiò la nuca
contro la parete, sentendo i capelli sciolti che gli si insinuavano nel
colletto della camicia, solleticandolo appena.
« Un vero peccato.»
La lampadina sfrigolava, mandando lampi irregolari
– il vagone diventava a tratti buio come la notte, tutto il
mondo che
scompariva e appariva nuovamente dopo qualche istante. Le dita di
Aerith
abbandonarono i capelli di Tseng, stanche di giocare –
l’uomo seguì quel gesto
con gli occhi, senza sapere se rimpiangerlo o meno. Sentiva ancora il
tocco
tiepido della mano di Aerith sulla propria, non osava ritrarsi per
timore che
se lo avesse fatto, lei sarebbe improvvisamente svanita.
Ti prego.
Una voce gridava disperatamente dal suo interno,
la sentiva forte e chiara, tanto affranta e supplichevole che
riuscì quasi ad
avere pena di sé stesso.
Ti prego,
fai qualcosa. Anche se solo per poco, anche se è solo
un’illusione, anche se
dopo il solo pensiero ti farà soffrire il doppio.
Ti prego.
Abbracciala. Tienila con te finché non arrivi domani.
Che diritto aveva di darle ascolto? Ancora una
volta la prepotenza di un uomo senza onore?
Aerith sospirò, abbassando finalmente le
palpebre;
mosse ancora la testa, coprendosi la bocca con una mano a celare uno
sbadiglio
silenzioso:
« Tseng… lo aiuterai,
vero?» mormorò, la voce
leggermente impastata dalla sonnolenza che inesorabilmente si
impadroniva di
lei « Lo aiuterai a tornare indietro?»
Lo sguardo di Tseng divenne vacuo.
Zack
Fair. Lo giuro.
Saprò
essere degno della tua fiducia.
La voce del dovere soffocò le altre,
riducendole
ad un sospiro, estinguendole definitivamente.
« Te lo
prometto.»
Si vergognò di sé stesso,
mentre la guardava
sorridere appena, ringraziandolo, addormentarsi come se nulla sul
Pianeta
potesse minacciarla o farle del male, o farla soffrire.
Sapeva farle solo promesse che non era certo di
poter mantenere.
Lo aveva fatto con le lettere, sentendo i sensi di
colpa divorarlo ogni volta che una nuova busta finiva nel
cassetto della sua
scrivania senza che sapesse come farle giungere al destinatario.
(xxx)