Five;
Facing himself in front of the fireplace • [ ν ] - εуλ 2007 (xxx)
The
day he used a lie to say goodbye
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Pioveva a dirotto il giorno in cui Cissnei spense il suo
PHS e svanì nel nulla.
Dispersa
sul campo.
Quando Tseng lesse il rapporto ufficiale che era
stato steso dopo la conclusione dell’ultima missione, le
uniche tre parole che
parlassero di lei lo gettarono in un silenzioso sconforto. Aveva
disteso
lentamente il foglio sulla propria scrivania, massaggiandosi lentamente
la
radice del naso – tentando di adattare il respiro al battito
cardiaco agitato,
aveva fatto scorrere le ruote della sua poltrona, alzandosi in piedi.
Quando convocò nel suo ufficio Reno e
Rude che
avevano lavorato con lei durante il suo ultimo incarico, si erano
presentati solennemente
davanti a lui mostrandogli espressioni cupe. Rude aveva le labbra
contratte e
le sopracciglia corrugate, i muscoli del viso tanto tesi che non ci
sarebbe
stato bisogno di guardarlo negli occhi nascosti per scorgere la
preoccupazione
che lo attanagliava. Reno teneva le mani in tasca e come suo solito non
sembrava affatto turbato – ma quando aprì bocca,
la sua voce aveva subìto una
trasformazione inquietante. Era bassa, roca, un rantolo che gli
risaliva la
gola e fremeva, ogni parola suonava aggressiva e piena di rabbia.
« Ditemi la verità.»
fissando Midgar attraverso la
grande vetrata, la richiesta di Tseng fu perentoria e secca.
« Non ho la più pallida idea
di cosa diavolo sia
successo, capo.» il rosso parlò per primo
« Io e Rude eravamo assieme in
elicottero, Cissnei si spostava via terra, con la moto. Ad un tratto ha
spento
il PHS, l’auricolare è diventato muto ed il suo
indicatore di posizione si è
volatilizzato da qualunque radar.» sollevò una
mano sfilandola dalla tasca, schioccò
le dita « Sparita.»
Tseng abbassò appena lo sguardo,
riuscendo a scorgere
solo il proprio riflesso sbiadito sulla superficie trasparente. Quel
giorno di Settembre
aveva affidato ai suoi uomini una missione di recupero – era
riuscito a dare
inizio all’operazione senza troppe difficoltà, in
segretezza. I registri
catalogavano la missione come un semplice pattugliamento delle terre
aride
intorno a Midgar, dalle porte della città fino alla costa e
Kalm; i registri
formali lo confermavano, ma erano ben pochi coloro a cui era permesso
toccare
gli archivi del dipartimento degli Affari Interni e
l’affidabilità dei
documenti era provata dalla firma di Tseng posta in calce su ogni
foglio. I
segreti della Turk rimanevano nella Turk – e nessuno avrebbe
mai sospettato di
una banale pattugliamento.
Era stata un’infrazione grave, un
tradimento
rischioso, un deliberato occultamento ed una consapevole alterazione di
informazioni – disubbidienze che normalmente avrebbero
portato a gravi
ripercussioni; tuttavia, quel giorno Tseng aveva osservato Cissnei, Reno e Rude salire
sull’elicottero senza pentirsi
un solo istante degli ordini che aveva impartito. Dopo che per anni le
sue
parole erano state semplicemente giudici e proclamatrici di condanne
capitali, questa
volta avrebbero salvato un uomo innocente da una morte ingiusta.
Cissnei si era fermata un attimo prima di
richiudere il portellone, ignorando il fracasso causato dalle pale
ormai in
funzione:
« Lascia fare a me, Tseng!»
aveva urlato, gli
occhi che brillavano di determinazione ed un sorriso sicuro e sereno
sulle
labbra, i capelli ormai corti che le turbinavano intorno al volto
« Te lo
riporterò vivo. Costi quel che costi!»
Il Comandante della Sezione Investigazioni aveva
seguito l’elicottero con gli occhi, fissandolo mentre si
sollevava dalla pista
di decollo e si allontanava provocando un frastuono assordante,
diventando d’un
tratto il catalizzatore di tutte le sue speranze.
Ma.
Tseng deglutì appena, voltandosi
lentamente verso
i due colleghi. Nonostante tutti i suoi sforzi, la realtà
era stata ben
diversa.
« L’abbiamo persa poco dopo
essere venuti a
conoscenza del…» Rude si interruppe, cercando la
giusta maniera di esprimersi «…fallimento
del nostro incarico.»
Tseng annuì piano, avanzando verso di
loro, le
mani congiunte dietro la schiena:
« Capisco.»
« Probabilmente se
l’è svignata.» commentò Reno,
il gorgoglio teso della sua voce che diventava gradualmente
più svogliato « Chi
può dirlo? Era sola, aveva un mezzo veloce,
all’improvviso ci ha lasciati soli
sull’elicottero senza neppure dirci addio.» fece un
gesto rapido con la mano
aperta, come a scacciare degli insetti fastidiosi « Abbiamo
perso le sue tracce
e i rapporti confermano la sua scomparsa. Una fuga perfetta.»
« Dovremmo chiedere il supporto
dell’esercito per
condurre delle ricerche.» propose Rude, sovrastando le
supposizioni vuote di
Reno – il quale stranamente si zittì dopo un
istante, mentre con un gesto
svogliato infilava le dita tra le ciocche rosse eccessivamente lunghe.
« E’ quello che ho intenzione
di fare.» Tseng gli
diede subito ragione, sfilando il PHS dalla tasca destra dei pantaloni.
« Capo, pensaci un attimo.»
riprese Reno,
imperterrito, le dita che tentavano di sciogliere un groviglio di
capelli rossi
e sottili « Magari lei non vuole essere trovata. Lasciala
perdere.» scosse il
capo « Se è davvero filata via avrà
avuto i suoi motivi.» fece una pausa prima
di aggiungere, il tono di voce che si abbassava notevolmente
« E se anche fosse
scappata perché questo posto iniziava a farle schifo,
scommetto che tu stesso le
daresti ragione completamente.» si
grattò la nuca, come se le cose che stava dicendo non
fossero altro che
informazioni gratuite e prive di qualsiasi peso « Certo, non
lo ammetteresti
mai apertamente.»
Perché in
fin dei conti tu odi questo lavoro. Era la conclusione inespressa di tutto il suo
discorso, aleggiò nell’aria
come se Reno l’avesse urlata, un’accusa tanto
veritiera che dopo una miriade di
bugie fece male come un gancio nello stomaco.
Tseng lo studiò, aprendo il telefono.
Reno
ricambiò il suo sguardo senza farsene un problema, i suoi
occhi verdi che non
tradivano alcun turbamento, alcun fastidio, non lasciavano intendere
niente di
niente. Era preoccupato ed era incredibilmente bravo a non darlo a
vedere,
oppure, semplicemente, non gliene importava nulla?
« Reno.» Tseng sostenne il suo
sguardo indecifrabile
con occhiate altrettanto fredde « Non sono il genere di
comandante che rimane
impassibile quando un suo prezioso sottoposto sparisce nel
nulla.» poggiò il
cellulare all’orecchio « E in questi casi, la
priorità per me è assicurarmi che
i miei subordinati stiano bene.»
Reno liquidò la questione con
un’alzata di spalle:
« Lo dici tu.»
Quando tuttavia Tseng parlò
dell’operazione ad
Heidegger, dopo che il PHS aveva squillato a vuoto in attesa di una
risposta,
la reazione dell’Sovrintendente della Sicurezza Pubblica fu
decisamente diversa
da quella che si era aspettato:
« Perché dovrei mobilitare
l’esercito per una cosa
simile?»
Tseng rimase in silenzio per qualche istante, le
labbra dischiuse e gli occhi sbarrati:
« Signore, si tratta di un mio
sottoposto.» spiegò,
rispettoso, cercando di ignorare le smorfie infastidite che avevano
iniziato ad
apparire sulla bocca di Reno.
« Non ho intenzione di sprecare tempo
prezioso.»
aveva continuato Heidegger dall’altro capo del telefono, la
voce che rimbombava
metallica dal ricevitore « Il mio Dipartimento non se ne fa
niente di elementi
incompetenti o inutili, tantomeno si preoccupa quando un sottoposto
scompare in
missione. Se dovessimo condurre operazioni di ricerca per ogni soldato
che
perdiamo in battaglia, non la finiremmo più.»
l’uomo rise sonoramente, come
reagendo d’istinto ad una battuta di incredibile umorismo
« Se la cosa ti sta
molto a cuore, occupatene da solo, ma non ti permetterò di
intralciare altre
operazioni. Se vuoi l’esercito, aspetta al mese prossimo, e
forse potrò
concederti una scorta.» tirò su con il naso,
schiarendosi la gola, rischiando
quasi di soffocare con la sua stessa saliva « Ora lasciami
lavorare.»
Quando Tseng chiuse il telefono, riponendolo in
silenzio al suo posto, a Reno e Rude bastò guardarlo in
faccia per comprendere
quale fosse stato l’esito della chiamata.
« I nostri superiori ci amano.»
commentò
sarcastico il rosso, con tono fatalista prima di aggiungere, disattento
«
Niente di personale, capo.»
Tuttavia, tre giorni dopo, il PHS di Tseng
squillò
svegliandolo alle tre del mattino; e sebbene sullo schermo del telefono
il
numero risultasse sconosciuto, quando il Turk accettò la
chiamata, la testa
affondata stancamente nel cuscino, la voce che gli rispose suonava
incredibilmente familiare.
« Tseng.» Cissnei
pronunciò il suo nome soffocando
le ultime due lettere, un rantolo basso che somigliava ad un singhiozzo
o un
affanno.
« Dove sei?» la domanda del
Turk giunse prima di
qualsiasi altra cosa, impaziente e tesa come se dalla risposta
dipendesse
tutto.
« La spiaggia, davanti a
Midgar.» disse lei
semplicemente « Tseng, vorrei vederti.» fece una
pausa, il suo respiro sembrava
irregolare, il vento sferzava con forza contro il ricevitore provocando
un
disturbo fastidioso « E’ possibile? So di non avere
giustificazioni, forse
avrei fatto meglio a non chiama…»
« Aspettami.» Tseng interruppe
la chiamata senza
farla finire, gettando da una parte il lenzuolo e mettendosi
fulmineamente in
piedi.
Entrò in una macchina di cui
Quando raggiunse la costa, il cielo iniziava a
rischiararsi, colorandosi lentamente dei colori accesi
dell’alba. Si fermò solo
quando vide una Nuova Hardy Daytona 840 parcheggiata al lato della
strada, una
moto di alta cilindrata che veniva fornita alle truppe della ShinRa per
le
missioni di pattuglia rapida o di inseguimento. Quando scese
dall’auto, una
brezza leggera fece frusciare il colletto aperto della camicia, mentre
i
capelli sciolti gli lambivano morbidamente gli zigomi e la fronte. La
luce del
sole nascente infuocava la superficie piatta del mare, fino
all’orizzonte, mentre
il vento leggero lo increspava appena. Cissnei era lì,
seduta sulla sabbia a
pochi metri dal bagnasciuga: aveva i piedi nudi e stringeva le gambe
piegate
contro il petto, mentre la giacca della divisa sgualcita giaceva sulla
sabbia
assieme alle scarpe con il tacco alto ed un involto di stoffa bianca.
Quando
Tseng la raggiunse, senza fare caso alle suole che scricchiolavano
nella sabbia
o ai granelli che si insinuavano all’interno delle scarpe, la
piccola Turk non
si mosse di un millimetro. Si limitò a salutarlo con voce
fioca, continuando a
scrutare il mare e la risacca incessante sulla riva.
« Ciao.» disse «
Grazie per essere venuto.»
L’uomo la affiancò, rimanendo
in piedi:
« Sai che non avrei potuto fare
altrimenti.»
Cissnei ridacchiò appena, debolmente,
muovendo la
testa di lato:
« Sei davvero quel genere di capo che si
affeziona
ai suoi sottoposti, vero?» sembrava divertita dalla cosa,
anche se normalmente
lo avrebbe forse dimostrato in maniera più vivace
« Ho visto anche Reno e Rude,
poco fa.» aggiunse poco dopo, tornando seria « Non
ho resistito. Volevo incontrare
anche loro.»
« Volevo chiedere scusa per il mio
comportamento.
Reno mi ha detto che se non fossi stata una donna mi avrebbe
probabilmente
colpita. Non capivo se dicesse sul serio o se fosse uno dei suoi soliti
scherzi.» si strinse maggiormente in sé stessa,
nascondendo la bocca tra le
ginocchia « Rude mi ha portato un ricambio di
vestiti.» concluse, indicando il
fagotto bianco « E’ stato gentile.»
Tseng annuì debolmente, spostando lo
sguardo verso
un punto indefinito della costa:
« Mh. Suppongo di
sì.»
Passò qualche istante prima che lei si
decidesse a
riprendere; quando parlò la sua voce era tornata incerta,
sottile, quasi un
sussurro:
« Perdonami.»
Tseng continuò a guardare la linea
sfuggevole che
divideva il mare ed il cielo, segnando un confine di sfumature
arancioni, rosa
e rosse.
« Non è stata colpa
tua.»
« Ho fallito.»
l’ammissione di Cissnei risuonò
distorta, segnò una crepa nella sua voce rendendola molto
simile ad un
singhiozzo trattenuto.
Zack Fair
è morto.
Tseng socchiuse gli occhi, spostando lo sguardo
verso il bagnasciuga:
« So cosa è successo. Le cose
non sono andate come
speravamo, ma non è dipeso da te.»
« Lo sapevi, non è
vero?» il tono di Cissnei si
rianimò appena – i due Turk mossero la testa
all’unisono, finendo per
scambiarsi vicendevolmente occhiate intense. Lo sguardo della ragazza
era
limpido, umido, le iridi erano due polle di acrilico castagna che si
rimescolavano come in preda ad una tempesta. Aveva le guance aride e
incavate,
i bordi delle palpebre sembravano gonfi ed arrossati come dopo un lungo
e
silenzioso pianto; e anche ora la sua bocca era distorta, era piegata
in una
curva tanto affranta che Tseng sentì la sua tristezza
penetrargli nelle ossa.
« Sapevi quanto tenevo a lui.»
continuò lei « Per
questo mi hai chiesto di aiutarlo. Sapevi che avrei fatto di tutto per
salvargli la vita.»
Tseng non riuscì né a negare
né a darle ragione.
In realtà aveva semplicemente sperato che i suoi tentativi
si rivelassero efficaci.
« Nessuno ti accusa per ciò
che è accaduto.» non
cercava di consolarla, né la compativa – era solo
un modo come un altro per
dirle come stavano le cose « Hai fatto ciò che
potevi.»
Cissnei sospirò, tornando a nascondere
il volto
tra le ginocchia piegate:
« Sono davvero inutile.»
Tseng rimase in silenzio, mentre
un’improvvisa
fiammata di pietà e disprezzo iniziava a consumarlo
dall’interno. Non compativa
Cissnei, né Reno, né Rude che non erano riusciti
a portare termine
quell’incarico troppo importante – derideva la
propria inadeguatezza.
Chi è il
vero inutile, qui?
Dopo qualche istante, Cissnei sollevò
ancora il
capo, immettendo aria nei polmoni; chiuse e riaprì
lentamente gli occhi, con la
bocca chiusa, poi il suo sguardo si fece più deciso.
Sistemò appena il colletto
della camicia, tirando la cravatta sciolta che le pendeva informe ai
lati del
seno – la legò con gesti esperti, stringendola
fino a quando non le lambì
perfettamente il collo:
« Ho finito la benzina.»
annunciò, mentre frugava
nella tasca dei pantaloni alla ricerca di qualcosa « Non
sapevo cos’altro fare,
ma suppongo che ormai sia finito il tempo per piangersi addosso. Devo
tornare
alla base.» estrasse il suo telefono, aprendolo con un gesto
rapido del polso «
Riattivo il mio ID ed il segnale radar.»
No.
Tseng contrasse appena le labbra, poi le
mostrò la
mano aperta:
« Dammi il PHS.»
Cissnei spostò lo sguardo su di lui e
sul suo
palmo, interrompendosi poco prima di premere il tasto
d’accensione del
telefono; per qualche istante si limitò a studiarlo con
un’espressione
perplessa ed interrogativa negli occhi, forse si stava domandando quali
potessero essere le intenzioni del suo misterioso comandante. Poi
decise di
obbedire e gli consegnò docilmente ciò che le
aveva chiesto.
Tseng lo richiuse premendo le dita contro lo
schermo, provocando uno schiocco metallico – se lo
rigirò tra le mani,
rimuovendo lo sportello che chiudeva lo scomparto in cui venivano
inseriti la
batteria e le schede di riconoscimento. Sfilò l’ID
di Cissnei, una sottile
piccola tessera di metallo su cui era inciso il simbolo della ShinRa,
un chip
di dimensioni ridotte che alla luce rifletteva mille colori, come il
riverbero
mutevole del gasolio. Lo sollevò tenendolo tra il pollice e
l’indice,
studiandolo contro lo sfondo dell’alba, sentendo lo sguardo
dubbioso di Cissnei
che non lo abbandonava un attimo ed ancora silenziosamente si chiedeva
quali
fossero le sue intenzioni.
Il Turk schiacciò l’ID tra le
dita, spezzandolo in
due – i due frammenti scricchiolarono e sfrigolarono, caddero
nella sabbia,
ormai del tutto inutili.
Gli occhi liquidi di Cissnei si fecero enormi, le
pupille che si rimpicciolivano fino a diventare due puntini invisibili
nelle
iridi castane:
« Ma, Tseng, che…!»
Il Comandante non fece una piega, limitandosi a
riporre lo sportellino al proprio posto, richiudendo il reparto della
batteria –
le porse nuovamente il PHS, tenendolo stretto in mano:
« Ora prendilo e gettalo in
mare.»
L’espressione di Cissnei, se possibile,
divenne
ancora più incredula:
« Cosa…?»
Il tono di Tseng si indurì, divenne
basso e
severo:
« E’ un ordine.»
« Ma, signore…»
« Cissnei.» esordì
l’altro, assumendo un tono rigido
« Secondo i rapporti ufficiali risulti dispersa e
Vattene,
scappa.
Tu che ne
hai la possibilità, sottraiti a questa prigione senza uscita.
Vivi come
una donna e non come un’assassina.
Cissnei lo guardò con gli occhi sgranati
per
alcuni istanti prima di deglutire ed assumere un’espressione
leggermente più
decisa; allungò la mano verso il telefono che Tseng le
porgeva, afferrandolo
con forza. L’occhiata che gli rivolse prima di alzarsi in
piedi fu ferma e
determinata:
« Agli ordini, capo.»
Accettò l’aiuto di Tseng e si
sollevò aggrappandosi
al braccio del collega; poi avanzò a piedi nudi sulla
sabbia, accelerando il
passo – corse fino a quando l’acqua marina non le
lambì le caviglie, bagnando i
pantaloni della sua divisa ormai inutile e priva di significato.
E mentre lanciava il PHS verso quel mare infuocato
dall’alba, un urlo le sgorgò dalla gola
così forte e limpido che chiunque nel
giro di un miglio avrebbe potuto udirlo. Sapeva di libertà.
Quando quel pomeriggio Tseng entrò nella
chiesa,
trovò Aerith distesa tra i suoi fiori. Se ne stava
lì, sulla terra e nella
polvere, i petali che le sfioravano il volto e la stoffa rosa
dell’abito,
guardava attraverso lo squarcio nel tetto che lasciava filtrare la luce
dall’esterno.
La prima reazione fu di stupore e di una sorta di
strana angoscia – la fioraia aveva sempre fermamente
insistito sul fatto di non
calpestare o rovinare i fiori, e gli aveva ricordato spesso di fare
attenzione
a non schiacciarli.
Ma prima che potesse accostarsi
all’aiuola e
accertarsi che lei stesse bene, la voce di Aerith lo
immobilizzò:
« Sapevo che saresti arrivato.»
esordì, mettendosi
a sedere. Era finalmente riuscita ad ultimare anche la piccola giacca
rossa –
l’aveva sempre indossata orgogliosamente sul vestito lungo
che si era cucita da
sola, sin da quando gliel’aveva mostrata, subito dopo aver
concluso l’ultima
rifinitura.
Tseng la raggiunse silenziosamente, porgendole una
mano quando arrivò ai margini dell’aiuola
– fece attenzione a non calpestare i
fiori. Aerith spostò lentamente lo sguardo verso di lui,
accettando il suo
aiuto poco dopo; si sollevò balzando fuori
dall’aiuola,con cautela. I fiori su
cui si era distesa si ripresero lentamente, gli steli elastici che
tornavano
alla loro posizione eretta originaria – alcuni petali bianchi
erano piegati e
scuriti, sembravano chiedere aiuto, fiaccati da una ferita invisibile.
« Vengo a trovarti tutti i
giorni.» le fece
notare, lasciando la sua mano, sentendosi stupido ed insignificante
subito dopo
aver finito di pronunciare quelle parole. Lei sorrise appena, battendo
l’abito
rosa, lasciando scivolare via i granelli di terra:
« Oggi è un giorno
diverso.» sollevò gli occhi
verso di lui « Mi devi dare una brutta notizia,
vero?»
Tseng serrò le labbra, il fiato che gli
si
spegneva in gola. Aveva cercato in tutti i modi di trovare le giuste
parole per
comunicarle ciò che era successo, ma di colpo le vide
volatilizzarsi, diventare
polvere, lasciandolo bocconi e muto.
La reazione ed il silenzio di Tseng bastarono
perché Aerith ottenesse le conferme che cercava –
l’espressione le si spense,
il sorriso che si affievoliva fino a svanire. Abbassò gli
occhi, intrecciando
le dita dietro la schiena:
« Non preoccuparti.» disse
« Io…a volte mi rendo
conto di ciò che succede al Pianeta. Riesco a sentire quando
le persone tornano
nel Flusso Vitale.» fece una pausa, fissando i propri stivali
premuti contro il
pavimento di legno « Quindi, insomma…»
sorrise debolmente, quasi che fosse lui
quello da confortare «…me lo
aspettavo, un po’. Ero preparata.»
Tseng distolse lo sguardo, socchiudendo
malinconicamente gli occhi:
« Mi dispiace.»
« No, no…» lei fece
un cenno rapido con il capo,
scuotendo una mano davanti al volto « Davvero. So che hai
fatto tanto per lui,
perciò, come dire…» era la prima volta
che la vedeva così incerta, così
instabile, così poco convinta di ciò che diceva
«…sono sicura che lui te ne è
grato, anche se…» fece una pausa, il tono che si
sforzava ostinatamente di
rimanere vivace «…ecco, io ti sono molto grata di
tutto ciò che hai fatto.»
Cosa ho
fatto?
Ho mai
fatto qualcosa che potesse renderti felice, finora?
E le parole scivolarono via dalla bocca di Tseng
senza che lui riuscisse a controllarle, gli ustionarono il palato e la
lingua –
avevano il sapore acido che lui conosceva fin troppo bene. Eppure
furono le
uniche che riuscì a dire, quelle che gli sembrarono le
più adatte:
« Sono riuscito a dargli le tue
lettere.»
Aerith spalancò gli occhi,
interrompendosi
nell’atto di dire qualcosa; rimase in silenzio per qualche
istante, in bilico,
sembrava tentare in tutti i modi di riordinare le idee. Quando infine
parlò di
nuovo, un barlume di speranza disegnava un increspatura tra le
sopracciglia, sulla
sua fronte liscia, un lusso che lei non si era mai concessa:
« Dici sul serio?»
Il Turk annuì piano, le mani che
formicolavano,
immobili lungo i fianchi. Non sapeva se lei ci avrebbe creduto o se si
sarebbe
accorta della sua menzogna, non aveva neppure la più pallida
idea di quanto
avrebbe potuto rincuorarla ciò che le stava dicendo.
Tuttavia continuò con
quella recita, sapendo di essere ormai troppo bravo a fingere
perché lei
potesse notare il leggero tremore che gli incrinava impercettibilmente
la voce:
« Le ha lette tutte, fino
all’ultima.» e aggiunse
la frase più dolorosa di tutte, una pugnalata terribile che
lo ferì in pieno
petto « Mi ha detto di riferirti che…»
indugiò appena «…anche lui ti
ama.»
L’espressione di Aerith mutò
velocemente, subendo
dei cambiamenti rapidi, immediati. Batté le palpebre un paio
di volte, con la
bocca leggermente dischiusa, come in preda ad uno stupore sincero
– poi la
piega delle sue labbra curvò ed i suoi occhi divennero
lucidi, mentre il suo
volto così bello e sereno si scioglieva in un sorriso
contenuto, a labbra
strette; era silenzioso, era malinconicamente fantastico, era unico,
sembrava
raccontare una storia ed era in grado di rimpiazzare mille parole.
Tristezza,
angoscia, gentilezza, felicità, sollievo –
un’ondata infinita di emozioni che
si confondevano l’una nell’altra, combattendosi a
vicenda, lasciando sospeso
quel sorriso nel purgatorio dell’ambiguità.
E quel piccolo dono di gratitudine e dolore che
sostituì le lacrime senza far alcun rumore, fu per Tseng
l’ennesima sottile
stilettata, l’ultima, la fatale, l’unica che
grondando veleno dolcissimo gli
trafisse il petto impedendo al cuore di continuare a battere.
Aerith lo raggiunse con passi lenti, fermandosi
solo quando furono così vicini che lei fu costretta a
sollevare lo sguardo per
guardarlo negli occhi. E poi andò contro di lui,
nascondendosi, insinuando le
braccia sotto le sue per raggiungere la sua schiena ampia con le mani.
Si
aggrappò alla stoffa tesa sulle scapole, stringendolo forte,
premendo il volto
contro il suo petto – come se tutto ciò che gli
chiedeva fosse solo di
abbracciarla e di non andarsene, perché senza di lui non
sarebbe riuscita a
rimanere in piedi da sola.
« Grazie.» bisbigliò
« Grazie per tutto ciò che
hai fatto.» la sua voce sussurrata soffocò contro
la stoffa della giacca blu « Sei
la persona più gentile che io abbia mai
conosciuto.»
Tseng trattenne il respiro, la sentì
rabbrividire,
ma lei non pianse mai. Ricambiò la sua stretta, dolcemente,
le sue braccia che
la avvolgevano completamente, una mano che le si insinuava appena tra i
capelli
tesi dietro l’orecchio. Poggiò la guancia contro
la sua fronte tiepida,
sentendo le ciocche castane che si mescolavano a quelle nere come la
notte.
Rimasero l’una nelle braccia
dell’altro a lungo,
in silenzio, mentre le mani di Aerith tremavano contro le spalle del
Turk, le
unghie che gli pungevano appena la pelle. E Tseng la strinse, sebbene
il sapore
della menzogna lo tormentasse tanto da rovinare quell’istante
che normalmente
forse lo avrebbe reso felice.
Addio,
Aerith.
Aveva lo strano sentore che alla fine di
quell’abbraccio, ogni cosa sarebbe andata irrimediabilmente
in frantumi; lei
gli sarebbe sfuggita tra le dita e non ci sarebbe più stato
modo di ritrovarla.
La verità si era rivelata una sera in
maniera del
tutto inaspettata, inattesa, scivolando via dalle labbra umide di alcol
di Reno
in un bar fumoso e
poco frequentato di
Junon. Era passata inosservata come una qualsiasi sciocchezza inserita
a caso
in un discorso sconclusionato di fine giornata, si era dissolta e si
era
annidata in un angolo recondito della mente di Tseng senza riemergere
fino a
quella notte in cui si sedette davanti al fuoco, a bere in solitudine.
Aveva aperto il cassetto della sua scrivania, nel
suo ufficio buio e silenzioso, senza fare caso alle luci bianche e
fredde che
si riflettevano attraverso il vetro sulle pareti ed i mobili, come
piccole ed
immobili lucciole di neon. Aveva riposto in quel nascondiglio una
lettera dopo
l’altra, piccole buste di carta colorata che si erano
accumulate negli anni
senza che lui trovasse modo di consegnarle nelle mani
dell’uomo a cui erano
state indirizzate – erano ancora lisce ed intonse,
immacolate, non vi era
scritta nessuna intestazione, non era indicato nessun mittente, si
sentiva
ancora lievemente l’aroma floreale di cui erano state impregnate. Le aveva prese
tra le dita,
sentendole frusciare e scricchiolare, sentendosi inadatto ed indegno di
toccare
quei piccoli e fragili cimeli con cui lui, in fondo, non aveva mai
avuto niente
a che fare. Aveva cercato il proprio timbro ed aveva lasciato
sciogliere la
ceralacca nel fornello – aveva tirato il nastro blu che
legava le missive,
lasciando che si sparpagliassero disordinatamente sulla scrivania
lucida. Aveva
apposto il sigillo su ognuna di esse, ottantotto piccole buste mai
aperte e che
non sarebbero mai state lette da nessuno – e dopo averlo
fatto, aveva richiuso
il cassetto, le aveva nuovamente legate tra di loro, le aveva prese tra
le dita
ed aveva lasciato l’ufficio.
Si era chiuso nel suo appartamento e si era
sfilato la giacca, ripiegandola accuratamente prima di poggiarla sullo
schienale dritto di una sedia di mogano spesso. Aveva poggiato il
piccolo mazzo
di lettere sul tavolo, accostandosi subito dopo al vassoio su cui erano
sistemati dei bicchieri di vetro ed una bottiglia di gin –
versò il liquore
fino all’orlo, aggiungendo distrattamente due cubetti di
ghiaccio. Si era
accostato alla libreria, ascoltando il leggero scoppiettare del fuoco
nel
caminetto acceso, mentre il riverbero intenso delle fiamme lasciava
inquietanti
spennellate sanguigne sul suo volto, sulle pareti, in ogni angolo del
salone
buio. Una rapida occhiata alle file ordinate di volumi era stata
sufficiente:
aveva sfilato il libro dalla copertina rigida, aprendo la prima pagina:
il
fiore bianco che Aerith gli aveva regalato era ancora lì,
rinsecchito,
ingiallito, sottile e fragile come un foglio di pergamena antica
– lo aveva
preso tra le dita rimuovendolo dal nascondiglio che lo aveva accolto e
custodito per molti anni, sentendo in cuor suo che stava profanando un
tesoro
preziosissimo. Tornando al tavolo, aveva insinuato il gambo pressato
del fiore
di carta sotto il nastro blu che legava le lettere – sembrava
tutto perfetto,
ora, ottantotto meravigliose dichiarazioni d’amore che non
sarebbero mai state lette
ed un piccolo bocciolo che significava nulla e tutto, il simbolo
rinsecchito di
un amore che non sarebbe mai stato soddisfatto.
Si era accostato al camino, stringendo in una mano
il bicchiere pieno d’alcol e nell’altra il
paradossale connubio di due cuori
traditi e follemente innamorati.
Tseng, tu
credi nel destino?
Aveva fissato le fiamme a lungo, ingoiando
lentamente piccoli sorsi di liquore, sentendolo sfrigolare sulla lingua
e lungo
la gola, un bruciore che lo infastidiva piacevolmente, facendogli
dimenticare,
anche se solo per brevi istanti, qualsiasi altra cosa.
E se
fosse stato il destino a farci incontrare?
Era bastato un movimento rapido del braccio, come
una condanna senza appello – le lettere si adagiarono tra le
fiamme, sollevando
piccoli lapilli ed una nuvola di cenere ardente. Il fiore bianco si
dissolse
immediatamente, in un battito di ciglia, venne divorato dal morso del
fuoco e
dopo un istante fu come se non fosse mai esistito.
Le bugie
sono come una droga.
Seduto sulla poltrona, Tseng osservò
l’esecuzione
capitale di anni ed anni di speranze e promesse infondate, mentre il
calore del
fuoco e dell’alcol riuscivano ad estraniarlo dalla
realtà – la sua espressione
rimase immota, imperscrutabile, nei suoi occhi si rifletteva il
bagliore
amaranto del fuoco, cupe luci rosse che danzavano in un abisso
d’oscurità. La
ceralacca iniziò a colare, i timbri a disfarsi fino a
diventare
irriconoscibili.
L’
inconveniente è che dalla quarta in poi diventa impossibile
tenere il conto.
Quanto
tempo fa hai perso il conto?
Cos’era stata la sua vita fino a quel
momento, se
non un patetico susseguirsi di menzogne? Era mai riuscito a dire la
verità,
quando si era rivelato arduo affrontarla? Non aveva forse continuato a
scappare
fino a quando la realtà gli si era parata davanti,
categorica ed immutabile,
ferendolo con tanta violenza da distruggerlo definitivamente?
Il nastro di stoffa scura si sfilacciò,
si
accartocciò, divenne una piccola scultura di carbone, uno
scherzo ritorto ed
irregolare che cadde in pezzi e divenne cenere.
Ormai aveva senso continuare ad ingannarsi?
Credevi
che le menzogne ti avrebbero aiutato a sentirti meglio?
Una voce femminile lo rimproverò in
lontananza, un
ricordo flebile che pensava di aver seppellito da tempo e che tuttavia
ora
tornava a biasimarlo, implacabile, spietato.
No.
Tseng portò il bicchiere alla bocca,
premendo il
vetro freddo contro le labbra bollenti. Ingoiò il liquore
con una sorsata
lunga.
Ho
mentito solo perché lo ritenevo necessario ed inevitabile.
Tutto aveva avuto inizio con una bugia, e tutto
sarebbe finito allo stesso modo.
Gli bastò chiudere gli occhi per
vederla. Era lì,
una ragazza bellissima dal volto luminoso che rifulgeva come una stella
–
indossava il suo grazioso vestito azzurro con i bordi di merletto,
roteava su
sé stessa, lo chiamava, sorrideva, gli chiedeva di
raggiungerlo per vedere quanto
erano diventati belli i fiori. I suoi occhi erano vivaci e accesi, due
cristalli di Flusso Vitale in cui chiunque avrebbe solo trovato
gentilezza,
premure, una tranquillità assoluta. La raggiunse in un
attimo, le carezzò una
guancia con la mano, la sua pelle era tiepida e vellutata come era
sempre
stata, le sue gote erano leggermente arrossate, le sue labbra quel
meraviglioso
bocciolo di rosa umido di rugiada che lo aveva sempre fatto impazzire.
La baciò
tenendo il suo viso tra le mani, sentendo i suoi capelli che gli
sfioravano le
dita, sentendo la sua bocca contro la propria, sentendola morbida e
perfetta,
dolce come solo lei poteva essere. La baciò ancora e ancora,
senza
interrompersi neppure per respirare, sentendo la sua bocca che si
adattava e a
poco a poco lo ricambiava, sentendo il suo corpo sottile contro il
proprio, il
suo respiro corto sfiorargli le guance.
Ti amo.
Sentì il suo sapore sulla lingua senza
stancarsene
mai, mai, mai, fino a quando non fosse completamente impazzito. E
quando poi fu
costretto ad interrompere quel contatto per riempire i polmoni di aria
– aria
infuocata che lo consumava dall’interno – le
braccia di lei erano strette
intorno al suo collo, le loro fronti si toccavano e lei era sua, sua
e di nessun altro. Vide il suo sguardo intenso colorarsi di una strana
sfumatura, e la sua bocca ancora rossa e dischiusa che si incurvava in
un
sorriso tanto languido e tenero che si sentì morire.
Perché anche lei lo amava.
Riaprì faticosamente gli occhi, il mondo
reale che
lentamente si sovrapponeva a qualsiasi altra cosa, cancellando tutto,
lasciandolo nuovamente solo su quella poltrona di pelle nera. La stanza
era
silenziosa, era buia, era il rifugio ideale in cui abbandonarsi del
tutto ad
una resa incondizionata, senza che nessuno se ne accorgesse, come lui
meritava.
Le lettere non erano altro che cenere nelle fiamme, piccoli granelli
grigi che
non avevano più nessuna storia e sapevano solo di delusione
e fallimenti. Un
requiem tra le fiamme.
Tseng batté le palpebre, il danzare
amorfo del
fuoco che lo stregava e lo teneva fermamente legato alla cruda
realtà.
Ti amo.
Quando richiuse gli occhi, vide solo un cupo
bagliore rosso disegnarsi tristemente sulla parete interna delle
palpebre
abbassate. Lei era sparita definitivamente.
Non sarebbe più tornata.
Ti amo.
Ma non lo
saprai mai.
Dopo lunga agonia
gli ultimi raggi tiepidi
morirono in silenzio,
il calore
dell’ultimo sole che
giaceva nella sua tomba
di duro ghiaccio.
E dopo quel congedo,
ci fu solo inverno.
~ Fin