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Autore: Sherry    25/11/2009    5 recensioni
"C’ero io, su quel letto.
C’ero io, a tenere la mano a quella splendida donna.
E io… sembravo morto.
Ero morto dunque?
Era questo che si provava ad andare all’altro mondo? "
Genere: Generale, Romantico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Roronoa Zoro | Coppie: Nami/Zoro
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Camminavo lento, inesorabile, come l’ondulare calmo del mare senza vento

Treno

 

 

Dedicata a Rolo, per la splendida giornata passata assieme.

Scusa, avrei voluto fare di meglio, ma non c’è stato verso.

 

 

Camminavo lento, inesorabile, come l’ondulare calmo del mare senza vento.

Sentivo i miei passi pesanti, le gambe stanche. Gli occhi non distinguevano altro che ombre e luci, colori indistinti e figure sfocate. Il petto bruciava, come mai prima d’ora.

Cercavo di guardarmi attorno, per quanto mi risultasse possibile in quelle condizioni.

Niente.

Non riuscivo a vedere niente, a riconoscere nessuno.

Sapevo solo che mi trovavo in un treno, in piena corsa.

Dov’ero diretto?

 

Il treno si fermò con uno stridore dei freni sulle rotaie, e io pensai di scendere alla fermata.

Non sapevo dove mi trovavo, non sapevo dove dovevo andare.

Ero completamente perso.

Istintivamente, cominciai a guardarmi intorno, alla ricerca di qualcuno… non riuscivo a ricordare chi però.

Probabilmente, qualcuno che era sempre con me, qualcuno in grado di indicarmi la giusta via per fare ritorno.

Mi sedetti su una panchina della stazione, a osservare il treno malandato e leggermente arrugginito.

Man mano che il tempo passava, la consapevolezza di essere solo si faceva sempre più forte in me. Più cercavo qualcuno, più la stazione mi sembrava abbandonata.

E, soprattutto, sapevo per certo che c’era qualcosa che mi sfuggiva.

Qualcosa che dovevo ricordare, qualcosa di importante.

Ma non riuscivo proprio a ricordare cosa fosse.

Decisi di risalire sul treno, era inutile fermarsi lì.

E mi sembrò che il mezzo mi avesse aspettato, perché appena io risalii il treno ripartì velocemente verso mete sconosciute.

 

Entrai nella prima cabina di fronte a me, sentendo un chiacchiericcio all’interno dell’area.

Fui decisamente confuso, quando mi accorsi che all’interno della cabina vi era un prato fiorito, e due bambini vi si azzuffavano sopra.

“E’ inutile” diceva la bambina, rivolta al maschio dai particolari capelli del colore dell’erba “non vincerai mai contro di me, Zoro”

Zoro.

Zoro.

Il nome rimbombò nella mia mente per parecchio tempo.

Era così che mi chiamavo.

Zoro…

“Non dire scemenze, Kuina” aveva risposto il bambino.

Io ero quel bambino, per qualche assurdo motivo stavo rivivendo una scena del mio passato.

Chiuso gli occhi per un istante, e quando li riaprii l’area era tornata ad essere una comunissima cabina.

 

Vagai sconsolato ancora per un po’ di tempo, poco prima di decidere di entrare in un'altra cabina, stranamente dalla porta nera. Dall’interno provenivano singhiozzi, singulti e grida.

“Non è possibile” urlava una voce, disperata.

Mi si strinse il cuore a sentire quel suono così straziante, così decisi di entrare una volta per tutte.

All’interno trovai due persone e un orsetto lavatore con un cappello.

No, erano corna quelle. Era forse un’ alce? No, doveva essere piuttosto un daino o una…

Renna.

Certo, era Chopper! Come avevo fatto a dimenticarlo? Mi aveva curato e ricucito tante di quelle volte…

Girai lo sguardo distrattamente, osservando le altre persone all’interno della sala.

C’erano un ragazzo con un cappello di paglia da pescatore e…

Lei…

Il mio cuore si fermò alla vista di quella creatura.

Sembrava così debole, preoccupata…

Non capivo il perché, ma sentivo di non aver fatto il mio dovere. Di non aver mantenuto una promessa.

La ragazza dava la mano a qualcuno.

Una figura indistinta, non riuscivo a scorgerla avvolta com’era da quelle strane nubi nere.

“Rufy” chiamò la renna, e immediatamente mi ricordai del mio capitano.

Avevo dimenticato persino il mio migliore amico.

Cosa mi stava accadendo?

Mi accasciai a terra, seduto. Ero troppo confuso, troppo.

“Zoro si salverà” aveva risposto il mio capitano “lui mantiene sempre le promesse. Mi fido di lui”.

Chopper l’aveva guardato, poi con un sospiro aveva mormorato un sì incerto.

Mi alzai in piedi, e rimasi a guardare la ragazza.

La nube si stava diradando, e i lineamenti dell’uomo cominciavano a intravedersi attraverso la nebbia fonda. I capelli, verdi, spiccavano già nella stanza dai muri ingialliti.

Dannazione.

Ero io.

C’ero io, su quel letto.

C’ero io, a tenere la mano a quella splendida donna.

E io… sembravo morto.

Ero morto dunque?

Era questo che si provava ad andare all’altro mondo?

No, soffrivo troppo. Probabilmente non ero ancora morto del tutto, c’era ancora qualcosa che mi legava a quel mondo terreno.

Sì, ma cosa?

Vidi la ragazza scostarmi una ciocca di capelli dal viso, e immediatamente percepii il suo tocco come se fosse stato reale.

Avrei voluto prenderle la mano e tenerla lì sul mio viso, sulla mia guancia… perché in un attimo era riuscita a farmi passare tutta la sofferenza che avevo in corpo.

Non mi ero nemmeno accorto che Chopper e Rufy erano usciti dalla stanza, sedevo accanto a lei e la guardavo guardarmi.

Il suo sguardo era così intenso… e allo stesso tempo spento, privo di qualsiasi gioia.

Mi domandai più volte il perché di quello sguardo, ma non riuscii a interpretarlo.

“Ti prego” mi sussurrò la sua voce, mentre lei atona continuava a guardarmi il viso “apri gli occhi”.

Ci provai, con tutto me stesso, ma non riuscii.

 

“Eccoti” mi disse una voce, conosciuta.

Mi voltai, e nel preciso istante in cui staccai gli occhi dalla bellissima rossa, la stanza tornò ad essere una cabina vuota.

“Ti ho cercato dappertutto” mi disse ancora.

“Chi sei?” le domandai. Era una ragazza, dai corti capelli blu. Il sorriso sul volto.

“Sei ancora molto confuso” rispose criptica “ma non ti preoccupare, sono qui per aiutarti”.

La guardai, e notai che riuscivo a distinguerne i lineamenti alla perfezione.

Prima, all’interno delle cabine, ogni persona era avvolta da uno spesso strato bianchiccio, come una leggera sfocatura.

“Io sono Kuina” mi disse infine “e devo mostrarti la giusta via”.

 

Certo, lei era la mia amica d’infanzia.

Era morta.

“Sono morto?” chiesi.

“No, non ancora” rispose lei, e ne fui sollevato.

“Dove ci troviamo?” chiesi, lei non mi rispose.

Si limitò a farmi un cenno col capo, negando leggermente con la testa.

“Non ti è dato saperlo” mi rispose dopo pochi minuti.

“Cosa mi è successo?” riprovai.

“Non posso dirti nemmeno questo” mi guardò, con uno sguardo di scuse. “io posso solo mostrarti le vie, sarai tu che dovrai decidere quali percorrere”.

Ero stanco, affaticato, ansante.

Capii che in qualche modo il mio corpo doveva aver avuto dei problemi, perché feci sempre più fatica a respirare.

“Devo sbrigarmi” mi disse lei, osservandomi “non abbiamo molto tempo”.

 

La seguii attraverso i vagoni, finchè non si fermò davanti ad una serie di porte arancioni.

Arancione.

Stranamente questo colore mi diceva qualcosa, ma non riuscivo a decifrare di che cosa si trattasse.

Poi, istintivamente, ricollegai alla ragazza di prima, e alla sua particolare chioma aranciata.

“Chi era quella donna?” le chiesi, ricordandomene all’improvviso.

Kuina non rispose, limitandosi a sorridermi e ad aprire la porta per entrare.

 

Mi ritrovai sul ponte di una nave, l’aria fresca mi diede sollievo.

Vidi due figure, non lontane da me, impegnate in un’accesa discussione.

Mi avvicinai, e scorsi Kuina, così rimasi in ascolto.

Mi riconobbi subito, i miei capelli si distinguevano tra milioni di persone.

L’altra persona era la donna misteriosa, quella che mi teneva per mano pochi minuti prima.

I miei pensieri correvano veloci, inesorabili, fino a portarmi a sospirare.

Era davvero bellissima.

La tiepida luce della luna le donava solo qualche riflesso argenteo, mentre le gote erano arrossate per la furia con la quale mi stava sgridando.

“Stupido buzzurro!” mi gridava lei contro, la sua voce così calda, così piena.

“Dannata strega!” le rispondevo io.

Erano minuti che ci tiravamo addosso i più disparati insulti, e ancora non avevo capito per cosa stavamo litigando.

Staccai gli occhi dalla figura della ragazza e mi ritrovai, nuovamente, su quel treno sgangherato.

 

“Ti sei ricordato?” mi chiese Kuina, mentre mi faceva strada verso un’altra cabina.

Negai, con un cenno del capo.

“Sento che devo ricordarmi di lei” le risposi dopo poco “ma non ci riesco proprio”

Abbassai lo sguardo, sconfitto. Ogni volta che tornavo alla ‘realtà’ il dolore al petto si faceva più acuto, più lancinante.

“Ti farò vedere ancora” rispose la mia amica, sorridendo.

Entrammo in una porta più grande, dall’interno proveniva un dolce odore di rhum.

 

“E con questo” mi diceva la ragazza, seduta di fronte a me “siamo a venti bottiglie”

“Forse dovremmo piantarla” rispondevo io “è inutile, siamo entrambi totalmente sobri”.

“Peccato… avrei voluto vederti ubriaco per una volta” concludeva lei, ridacchiando.

Vidi il me stesso di fronte a me perdersi a guardarla, mentre lei rideva tranquilla.

E in un attimo capii.

Ero innamorato.

Dannazione.

Ero innamorato, e non riuscivo nemmeno a ricordare il nome della donna in questione.

Mi piegai a terra, frustrato, cercando di colpire il pavimento di legno con un pugno, senza riuscirci.

Chiusi gli occhi, aspettando paziente, e Kuina mi portò fuori dalla visione.

Mi lasciai cadere su un seggiolino con un sospiro, tenendomi saldamente la testa tra le mani.

Certo che era doloroso…

“Ti sei ricordato qualcosa?” mi chiese la mia amica d’infanzia.

Negai, con un cenno del capo.

Stavo male, ogni boccata d’aria era un pugno nei polmoni, ogni pensiero una fitta alla testa.

“Devo mostrarti ancora qualcosa” mi disse lei, dopo qualche minuto di silenzio.

“Ce la fai a seguirmi?”

Mi stropicciai gli occhi, aprendoli dopo poco e trovandomela davanti.

Ancora mi sembrava così assurda tutta questa situazione…

La seguii fino a una porta dal rosso scarlatto, le rifiniture in oro brillante.

Dall’interno provenivano dei suoni… ehm… ambigui.

“Io ti aspetterò qui” mi disse Kuina, arrossendo.

Arrossii anche io, senza sapere il perché, e mi apprestai ad entrare.

 

Entrai silenzioso, guardandomi in giro.

Sembrava una normalissima camera da letto, se non fosse stato per l’enorme quantità di cartine geografiche sparse in giro.

Sul letto, si amavano due persone.

I gemiti si spandevano per la stanza, e quando mi vidi su quel letto mi imbarazzai da morire.

Stavo facendo l’amore con lei.

E, diamine, si vedeva quanto l’amavo.

Tutti i miei tocchi e le carezze erano calcolati per lei, per darle piacere e per coccolarla.

Un bisbiglio, tra i gemiti, mi fece cadere a terra.

“Nami…”

Nami.

Nami.

Nami.

Era questo il suo nome.

Nami.

Certo, ora lo ricordavo.

Uscii dalla stanza in fretta, richiudendomi la porta alle spalle.

Kuina ridacchiò di me, probabilmente ero rosso peperone.

“Smettila bastarda!” la incitai, senza successo.

 

Ci riposammo nuovamente su dei sedili morbidi.

Kuina mi guardava seria, come mai era stata fin’ora.

“E’ giunto il momento” mi disse “di prendere una decisione”.

Guardai in alto, e mi stupii di trovare il soffitto del treno così particolare. Come mai non l’avevo notato prima? Il treno era aperto, al di sopra delle pareti si stagliava un cielo azzurro, cosparso di qualche allegra nuvola bianca qua e là.

Era bello, splendido.

“Devo chiederti una cosa” le dissi, prima che lei potesse continuare.

“Sono riuscito a mantenere la promessa?” non osai guardarla, per paura di una risposta negativa da parte sua.

Tuttavia, dopo poco, la vidi sorridere dolce con la coda dell’occhio.

“Sì” mi rassicurò, e sospirai soddisfatto.

D’ora in poi mi sarei potuto dedicare ad altro, a Nami per esempio.

“Hai preso la tua decisione?” mi chiese lei, insistendo parecchio.

Avevo capito anche io, ormai il tempo era scaduto. Dovevo decidermi in fretta.

“Che cosa mi aspetta se non faccio ritorno?” le chiesi, guardando il cielo.

“Il paradiso” rispose lei, prendendo a guardarlo anch’essa.

Passò qualche minuto, prima che decidessi di risponderle di nuovo.

“In questo caso…”

 

 

 

L’odore di disinfettante mi colpì violentemente alle narici, il dolore al petto era lancinante.

Emisi un gemito, mentre cercavo di aprire gli occhi assonnati, senza riuscirci.

Qualcosa mi accarezzava la fronte, dandomi pace a quel dolore tremendo che provavo.

Qualcuno chiamava Chopper a squarciagola.

 

Ero tornato.

 

 

 

 

Note finali:

Nella mia mente questa fic era impostata in maniera totalmente differente, ma è uscita così e il risultato non mi dispiace.

Ho provato a ricorreggerla parecchie volte, ma non c’è stato verso…

Fatemi sapere cosa ne pensate!

 

  
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