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Autore: Carlos Olivera    28/11/2009    1 recensioni
Cosa può spingere un uomo a rinnegare tutto ciò che ha sempre creduto, abbandonare i precetti che hanno governato la sua esistenza e rendersi partecipe di crimini innominabili?
Dolore, rabbia, frustrazione, odio, invidia. Tutto ciò può condurre all'abisso del male, e una volta che vi si è entrati la caduta è inesorabile.
Anno 1124
Due giovani assassini vengono incaricati dal loro maestro ormai morente di compiere un'ultima missione per le affollate strade di Baghdad, un paradiso di cultura e di conoscenza su cui alberga però un'ombra minacciosa. Nessuno sarà risparmiato, e l'unica cosa che attende loro, come molti altri, è il dolore, il dolore in tutte le sue più crudeli e terribili forme.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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C’era un che di strano, un che di famigliare, nel luogo in cui si trovava.

            Un tempo doveva essere stata una casa di medio prestigio, forse la residenza di qualche soldato importante o qualche dignitario di medio rango, ma il tempo e l’incuria le avevano tolto quasi tutto il suo splendore, rendendola solo una pallida ombra di ciò che era un tempo.

            Nel salotto, le sedie di vimini erano sporche e masticate dai topi, il tavolo rettangolare era coperto di polvere e pezzi di intonaco caduti dall’alto, il tetto e il soffitto erano scrostati e ammuffiti, ed i tappeti avevano subito l’assalto delle tarme.

            Era piuttosto buio, tutte le torce erano spente e consumate, ma dalle finestre aperte o velate solo in parte da tendaggi tutti strappati e lacerati giungeva una luce fortissima: era una luce strana, irreale, troppo forte per essere quella del sole, tanto da non poter scorgere nulla di ciò che vi era all’esterno, ma nonostante la sua forza riusciva a rischiarare solo in minima parte l’oscurità che albergava lì dentro.

            E poi silenzio, un silenzio assoluto, che avrebbe fatto gelare il sangue a chiunque.

            Kahled non aveva idea di come fosse finito lì: l’ultima cosa che ricordava era Mira che si spegneva davanti a lui, e se ci pensava sentiva ancora il cuore minacciare di fermarsi per il dolore.

            Poi, di colpo, si ricordò, e capì perché quel posto gli diceva qualcosa.

            Quella era la sua casa!

            La casa di Damasco in cui era cresciuto, e nella quale aveva passato alcuni dei momenti più felici della sua vita. Lì, in un angolo, una sedia di legno, la sua preferita fin da quando era piccoli, la porta dove lui e il fratello giocavano al cambio della guardia, e il grande cesto per la farina dove andava a nascondersi quando combinava qualche marachella, nel tentativo, spesso vano, di sfuggire alla punizione.

            Come era finito lì?

            Era dal giorno della sua fuga che non vi metteva piede, e in ogni caso come aveva fatto da passare da una stretta e fangosa strada di Baghdad alla sua vecchia abitazione di Damasco?

            La parte razionale di lui concluse che probabilmente si trattava solo di un sogno, uno dei tanti che gli era già capitato di fare, ma c’era qualcosa di così reale, di così tangibile in ciò che gli stava intorno: poteva sentire il gocciolio dell’acqua, l’odore della muffa, il freddo della pietra, tutte cose che prima di allora non gli erano mai accadute.

            Dunque, se non era un sogno? Cosa poteva essere?

            Forse era lo stadio successivo, quella specie di limbo che stava tra il sonno comune e il sonno eterno di cui aveva sentito parlare da molti suoi fratelli che avevano subito la stessa esperienza, e che proprio in questa sorta di dimensione al di fuori dello spazio e del tempo avevano trovato la forza per tornare indietro, sfuggendo all’invitante richiamo della morte.

            D’un tratto, qualcosa attirò la sua attenzione: sopra un ripiano, impolverato ma ancora bello da vedersi, stava un giocattolo, un piccolo cavallo di legno intagliato artigianalmente.

            Lo ricordava benissimo; quello era suo, era il suo gioco preferito. Suo padre lo aveva realizzato per lui poco dopo che era nato, glielo aveva messo nella culla e da allora non se ne era più voluto separare. Lo prese in mano, attonito, avvertendone il calore, e quasi gli venne da stringerlo a sé.

            «È interessante notare quello che sei adesso».

            Quella voce, così ironica e malevola, lo fece sobbalzare, e istintivamente, lasciato cadere il giocattolo, si girò, mettendo la mano sul pomo della spada.

            Poco distante da lui, appoggiato alla parete e a braccia conserte, c’era un uomo, e appena lo vide un brivido di freddo gli percorse la schiena: il suo vestito era uguale in tutto e per tutto a quello degli Assassini, ma era completamente nero, e a causa del cappuccio sollevato era impossibile vederlo distintamente in volto. A giudicare dai lineamenti del mento e dalla pelle distesa, dovevano avere pressappoco la stessa età.

            «Un corpo vuoto.» disse, per poi piegare le labbra in uno sorrisetto sarcastico.

            Kahled lo scrutò attentamente, da cima a fondo, e più lo guardava più quel brivido si faceva forte, ma il terrore di cosa avrebbe potuto vedervi all’interno lo spinse a non cercare nemmeno di scorgere i suoi occhi.

            «Chi… che cosa sei tu?»

            «Oh, andiamo, non fare domande ovvie. Lo sai benissimo chi sono io».

            Il ragazzo poi si guardò un momento attorno.

            «Che posto è questo?»

            «Altra domanda ovvia.» rispose quello col suo tono ironicamente acido «Usa l’immaginazione.»

            «La morte?»

            «Ti piacerebbe. Bel tentativo, ma no. Purtroppo abbiamo solo poco tempo, quindi siamo costretti a saltare i convenevoli e andare direttamente al sodo.»

            «Che cosa vuoi da me?»

            «Ricordarti perché sei qui».

            Come per magia la stanza incominciò a trasformarsi, e nello spazio di pochi secondi tornò ad essere l’ambiente caldo, amorevole e accogliente che Kahled rivedeva spesso nei suoi sogni: all’odore della muffa si sostituì quello del pane cotto sulla pietra, il silenzio assoluto fece posto ai rumori e ai suoni della città, e quella luce irreale venne scacciata dai caldi raggi del sole.

            Kahled si guardò nuovamente intorno, poi da una porta laterale uscì una giovane e bellissima donna con lunghi e fluenti capelli neri.

            «Mamma!».

            Era proprio lei, sua madre Selima, così come la ricordava; non sembrava essersi accorta di lui, della sua presenza, ma solo vederla bastava a riscaldargli il cuore.

            Si volse un attimo verso l’uomo in nero, che gli fece un cenno della mano con quel suo sorriso sarcastico, poi tornò a guardare la madre, che appoggiato sul tavolo il cesto di frutta che stava trasportando si inginocchiò davanti alla piccola fornace, tirandone fuori con l’aiuto di una tavola di legno sei pagnotte fumanti e profumate che  solo le mani di una esperta donna di casa sarebbero state capaci di preparare.

            Una serie di schiamazzi e di passi veloci annunciarono l’arrivo di due ragazzini scatenati che giocavano a fare i soldati brandeggiando spade di legno, e Kahled non faticò a riconoscervi sé stesso e il fratello quando avevano rispettivamente sei e sette anni.

            «Kahled, Altair, smettetela.» disse la madre mentre quelle due pesti saltavano da tutte le parti

            «Mamma, abbiamo fame.» disse il piccolo Kahled «Quando si mangia?»

            «Abbiate un po’ di pazienza. Aspettiamo vostro padre.» disse porgendo loro una mela tagliata a metà «Intanto potete avere questa.»

            «Grazie!».

            Alzatasi, Selima apparecchiò la tavola, e dopo poco entrò in casa un uomo di bell’aspetto, alto e slanciato; tanto gli abiti piuttosto curati quanto il disegno particolare della sua barba lo identificavano come un membro della corte del califfo, ma era anche Yusuf, il padre dei due ragazzi, che appena lo videro gli corsero incontro festanti.

            «Papà!»

            «Ah, piccoli diavoli!» disse sorridente prendendo in braccio Altair, il suo primogenito «Vi siete comportati bene oggi?»

            «Sì, papà.»

            «A sentire il vostro maestro di scuola, non credo proprio. La finirete mai di combinare guai?».

            Sua moglie gli si avvicinò porgendogli un bicchiere di latte freddo per lenire le fatiche della giornata appena trascorsa; lui lo accettò, sorseggiandolo con piacere, poi i due si scambiarono un piccolo e affettuoso bacio d’amore.

            A dispetto del suo ruolo e della sua posizione Yusuf era un uomo di mentalità aperta, che aveva sposato la sua donna unicamente per amore e che aveva un rapporto sereno sia con lei sia con i suoi figli, e per questo tutta la sua famiglia gli voleva un mondo di bene.

            Si sedettero a cenare, e mentre mangiavano il padre intratteneva i due figli con giochini e trucchetti con cui riusciva sempre a farli ridere, anche nelle situazioni più tristi.

            E Kahled osservava, sorridendo al pensiero di quanto era stato felice in quegli anni ormai lontani: allora era troppo spensierato ed innocente per rendersi conto di quanti segreti suo padre stesse nascondendo a lui come a tutta la sua famiglia, segreti pericolosi e sconvolgenti legati al suo ruolo nella corte del palazzo.

            «Te lo ricordi, vero?» disse l’uomo in nero «Ti ricordi quanto era semplice la vita a quell’epoca. Sarebbe stato bello continuare a vivere così, vero? Ti saresti sposato, avresti avuto una famiglia, dei figli, e una casetta tutta per te.

            Ma già allora eri ambizioso. Guardavi i bambini più ricchi e quelli più forti con indicibile invidia, e anelavi i loro privilegi. Eri pronto a cogliere qualsiasi occasione pur di poter diventare come loro.»

            «Questo non è vero. A me quella vita andava benissimo, e ricordo bene la felicità che provavo.»

            «Dici davvero? E credi davvero che in questa vita possa esistere la vera felicità?»

            «Che cosa vuoi dire?»

            «La felicità non esiste. E non esisterà mai fino a quando gli uomini continueranno a camminare lungo questa strada. Non possono vivere senza farsi male l’un l’altro, e tu lo sai. L’umanità è marcia, è sudicia, e indegna. E tu ti illudi di poterti costruire il tuo piccolo eden in un mondo tanto corrotto? Pensavi sul serio che rinunciando a tutto per Mira avresti ottenuto la felicità?»

            «Tutto è possibile, se solo lo si vuole. Niente è reale. Tutto è lecito.»

            «Hai bisogno di ricordare quanto possa essere dolorosa la vita».

            L’uomo in nero indicò la porta, e in quell’istante tre uomini armati fecero irruzione in casa.

            Sicuramente si trattava di tagliagole, assoldati da qualcuno di quei dignitari corrotti che Yusuf aveva denunciato per restituire il favore.

            Il capofamiglia, colto alla sprovvista, ebbe a malapena il tempo di impugnare un coltello e di avventarsi su uni dei tre, riuscendo anche a ferirlo ma venendo ucciso subito dopo.

            «No!» urlò Kahled lanciandosi in avanti spada alla mano, ma quando tentò di prevenire l’affondo mortale il suo corpo passò incredibilmente attraverso a quelli del padre e del sicario, e lui si ritrovò buttato per terra, impossibilitato a fare alcunché.

            Sarebbero sicuramente morti anche la moglie e i figli, ma in quello stesso momento due Assassini entrarono a loro volta in casa; essendo un collaboratore e un informatore Yusuf godeva della protezione dell’ordine, pertanto c’era sempre qualcuno che teneva d’occhio la sua abitazione e che lo seguiva nei suoi spostamenti per la città.

            I tre tagliagole vennero immediatamente e facilmente annientati, e appena la situazione si fu acquietata i due fratelli, sopravvissuti miracolosamente, restarono a lungo immobili ad osservare pieni di stupore la grandiosità degli uomini che li avevano salvati.

            Kahled d’un tratto sentì riaffiorare le emozioni e i pensieri che avevano attraversato la sua mente trovandosi di fronte quegli Assassini, e la consapevolezza che in fin dei conti l’uomo in nero aveva ragione a dire che la prospettiva di un simile potere lo aveva allettato fin dal primo istante si impadronì della sua mente.

            Era così scosso che quasi non si accorse che uno degli assalitori, ferito e riverso ma ancora vivo, aveva sfoderato il pugnale, e l’unica cosa che vide fu Selima che, avvedutasi del pericolo, si alzò da terra, frapponendosi tra i suoi figli e la morte certa.

            «No!» gridò vedendo la madre cadere all’indietro trafitta al petto, ma prima che potesse prenderlo tra le braccia il suo corpo e tutto il resto svanirono come fumo, restituendo alla casa la sua aria tetra e malandata.

            Il ragazzo restò a lungo inginocchiato sulla pietra, singhiozzando, e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Al contrario, l’uomo in nero seguitava a rimanere impassibile, e anzi la sua espressione sembrava di gelida presunzione, come a voler riaffermare la veridicità delle proprie affermazioni.

            «Che ti avevo detto? La felicità non è una cosa che appartenga a questo mondo, e non lo sarà mai.»

            «No!» gridò Kahled, un urlo così forte da fendere il cielo, ma che rapidamente si spense, soffocato dal silenzio

            «Guardati. Sei tormentato dai sensi di colpa. Proprio come quel giorno. Tuttavia, al comprensibile dolore iniziale, in te si sostituita la consapevolezza. La consapevolezza che la ragione sta dalla parte del più forte, non del più virtuoso. Che l’unico mezzo per portare la giustizia correva sulla punta della spada. E sono questi i propositi con i quali ti sei unito alla confraternita.»

            «No! Questo non è vero!» replicò Kahled voltandosi verso di lui «Io credevo nei precetti degli Assassini! Io credevo nella pace!»

            «Sì , ci credevi, questo non lo metto in dubbio. Il problema è che ci credevi a modo tuo.»

            «Cosa!?»

            «Tuo padre credeva nella giustizia e nella pace, proprio come gli Assassini. Credeva che il mondo sarebbe stato più giusto, che mostrando agli uomini la via della giustizia l’avrebbero seguita. E dove l’ha portato questa convinzione, l’hai scoperto da solo: tradito da coloro che reputava suoi amici.

            È stato questo che ti ha fatto capire la massima che regola ad oggi tutto il tuo esistere: l’umanità è malvagia per definizione, e l’unico modo per portare la pace tra questi esseri violenti e ipocriti è imporla con la forza. E chi si oppone a questo, deve morire.»

            «No. Io non ho mai pensato che uccidere indiscriminatamente potesse favorire la causa della pace.»

            «Davvero?».

            Di nuovo il panorama mutò, questa volta radicalmente, e in un batter di ciglia Kahled e l’uomo in nero si ritrovarono nel cortile della fortezza di Masyaf, circondato da centinaia di persone.

            Alcuni giovani Assassini stavano in piedi e in riga sulla sommità della terrazza che stava dirimpetto al palazzo, dando le spalle alla folla, e tra di essi Kahled riconobbe il stesso di molti anni prima.

            Ricordava bene quel giorno: il giorno della sua investitura, il giorno del suo passaggio da Novizio ad Assassino vero e proprio dopo molti anni di duro apprendistato. Arrivare fin lì era stato duro, molto duro: gli allenamenti, le privazioni, le percosse. Molte volte era stato sul punto di mollare, ma poi, in un modo o nell’altro, aveva sempre trovato la forza per andare avanti, e ora i suoi sforzi stavano per essere premiati.

            «Il giorno più importante della tua vita, ho ragione?» disse l’uomo in nero, perennemente accanto a lui.

            Le porte della fortezza si aprirono, e da dentro uscì il gran maestro Hasan-i Sabbah, accompagnato da Altair, che già da un anno aveva ottenuto l’investitura ad Assassino. Il maestro impugnava la sua spada, un’arma tanto magnifica da essere di per sé un mito; secondo la leggenda molti grandi uomini del passato l’avevano impugnata, da Alessandro Magno a Giulio Cesare, fino al Profeta, e ognuno di essi l’aveva pervasa con un po’ della sua essenza divina.

            Hasan-i Sabbah l’aveva ricevuta in dono dal califfo del Cairo per i suoi servigi e la sua lungimiranza, ma si diceva che il vero motivo risiedesse nelle parole di un grande veggente, molto stimato e rispettato in Egitto, il quale ricevette in sogno la visita di un arcangelo che gli ordinava di persuadere il califfo consegnare la spada al futuro maestro, in quanto egli, in un futuro non lontano, si sarebbe fatto portavoce della causa del cielo. Fin dalla fondazione dell’ordine era uno degli oggetti più sacri per gli Assassini, e Hasan-i Sabbah aveva già fatto sapere che ne avrebbe fatto lascito per il suo successore.

            I sei adepti, tutti ragazzi tra i sedici e i diciannove anni, chinarono il capo, porgendo la mano sinistra, e ad ognuno di loro il maestro recise di netto l’anulare, sancendo in questo modo il loro ingresso definitivo nelle file del sacro ordine.

            Il vero Kahled sentì un dolore lancinante alla mano destra nell’istante in cui quel supplizio toccò al stesso di quel giorno ormai lontano, tanto forte che strinse i denti con tutta la forza che aveva per evitare di gridare.

«Da questo momento» disse Hasan-i Sabbah ai suoi nuovi discepoli, che come ulteriore prova di nobiltà e rettitudine non potevano in alcun modo manifestare il dolore rimanendo assolutamente immobili «Voi diventate qualcosa di più di semplici esseri umani. Con fede e onore avete sfidato i vostri limiti, ed oggi siete qui per raccogliere il frutto delle vostre fatiche. La conoscenza illumina i vostri animi, la fede dimora nei vostri cuori, la ragione guida le vostre lame.

            Da oggi in poi ogni vostra azione dovrà essere finalizzata ad un unico scopo: la pace. In ogni cosa.

            È per questo che voi lotterete. Per cui ucciderete.

            Voi siete… Assassini».

            La folla chinò il capo in segno di rispetto, e Kahled, non visto, si scambiò un’occhiata con Altair, il quale sorrise leggermente, come a volersi silenziosamente congratulare con il fratello.

            «Tuttavia» proseguì il maestro alzando l’indice «Ricordatevi una cosa. Benché vi siate elevati ad una condizione di vita superiore tutti voi, nel profondo, restate pur sempre esseri umani. Tutti noi lo siamo, e questo è un dogma al quale nessuno può sottrarsi.

            La natura e tutto ciò che ci circonda sono parte di un grande disegno, e anche noi lo siamo. Un disegno divine che sfugge anche alla nostra comprensione. E questa è una cosa che non dovrete mai dimenticare. Siate umili, figlioli.

            E, soprattutto, non vacillate mai sui dettami che da ora in poi regoleranno la vostra intera esistenza. Il Credo è unico e sacro, e non sarete niente senza di esso».

            Kahled, il vero Kahled, sentì un colpo al cuore.

            Ricordava bene cosa aveva pensato quando il maestro aveva pronunciato quelle parole: il Credo era sacro, senza alcun dubbio, ma sarebbe stato molto difficile portare la pace in un mondo popolato di uomini che sembravano provare un sadico piacere nel massacrarsi l’un l’altro.

            Cosa poteva esserci di divino nel disegno che sembrava opera di una mente perversa? Se gli dèi erano così superiori, così immensamente perfetti, perché inserire nella creazione un essere così basso e meschino come l’uomo, dotandolo oltretutto di un intelletto capace di produrre i pensieri e i propositi più oscuri che si potessero immaginare?

            Più di una volta si era chiesto se in un tale panorama di desolazione potesse davvero esserci spazio per la fede, ma se c’era una cosa che sapeva per certo nel momento in cui il fratello gli metteva tra le mani il bracciale con la lama nascosta era che ora, come Assassino, aveva il potere di migliorare le cose, di costruire un mondo migliore, e poco importava se per riuscirci avrebbe dovuto camminare sui corpi di innumerevoli persone: il fine ultimo, la Pace in Ogni Cosa, affinché nessuno dovesse più sopportare le sofferenze toccate a lui, valeva ben più di qualsiasi vita umana.

            «Devo ammettere che non fa una piega.» disse l’uomo in nero leggendogli nella mente

            «No. Io… non lo pensavo davvero.»

            «Oh sì, che lo pensavi. E lasciatelo dire. Non è esattamente il tipo di ideologia che mi aspetterei da un Assassino.

            Ma suppongo di non poterti dare torto. I mattoni per costruire un ideale il più delle volte sono i cadaveri di coloro che la pensano diversamente.»

            «Non volevo che fosse così. Io volevo solo portare la Pace.»

            «Questo non lo metto in dubbio. Ma per creare la pace è necessario apprenderne il significato, e una specie tanto sciocca e barbara come l’uomo non riuscirà mai neppure a concepirla questa parola.

            Non credi?»

            «L’uomo può cambiare. Gli uomini possono imparare a diventare migliori.»

            «Tuo padre diceva la stessa cosa. E guarda la fine che ha fatto. Con il tempo hai soffocato quei pensieri, preso com’eri ad impegnarti per raggiungere i vertici, ma gli obiettivi che ti eri professato in questo giorno non sono mai completamente scomparsi».

            Ad un nuovo urlo straziante di Kahled tutte le persone scomparvero, lasciandolo da solo con l’uomo in nero, e la bella mattina di sole lasciò lo spazio ad un tetro cielo plumbeo, solcato dalle nuvole come le rughe su di un corpo consumato dalla vecchiaia.

            Il giovane assassino si girò verso il suo interlocutore, guardandolo con occhi di fuoco.

            «Chi sei tu per parlarmi così? Cosa credi di sapere tu di me? Io non sono come tu mi descrivi! Ho abbandonato quei propositi!»

            «No.» rispose calmo quello «È l’esatto contrario. Li hai riscoperti. E questo grazie alla situazione che stai vivendo, oltre naturalmente a quello straordinario tesoro.»

            «Straordinario tesoro!? È un oggetto infernale! Da distruggere, come diceva Altair!»

            «È esattamente ciò di cui hai bisogno. Hai visto il suo potere con i tuoi occhi, mi pare».

            Un vento gelido attraversò la piazza; l’uomo in nero guardò sarcastico a sinistra, e Kahled fece altrettanto, scorgendo il corpo senza vita di Mira riverso sulla schiena a pochi passi da loro.

            «Mira!» urlò correndogli incontro.

            Il suo corpo era gelido, i suoi lineamenti immobili, e la pelle già andava tingendosi del pallore della morte. Kahled pianse, pianse come mai nella sua vita, accarezzando quelle guance fredde e dure come il ghiaccio, e intanto l’uomo in nero continuava a guardarlo, sfoggiando quel suo malvagio sorriso.

            «Non è stata tua la colpa.»

            «Io… io l’ho uccisa.»

            «No. Tu hai fatto il tuo dovere. Lei ha cercato di aggredirti, e tu ti sei difeso.»

            «Io l’ho uccisa!»

            «Capisci adesso? Quante altre persone dovranno morire prima che tu capisca che è giunto il momento di fare la cosa giusta? È morta la tua famiglia, è morta la donna che amavi, e di chi è la colpa? Non tua. La colpa è degli uomini, e della loro mente malata.

            Quell’oggetto, la Parola di Allah, può mettere fine a tutto questo. Può realizzare il tuo sogno.»

            «Il mondo non ha bisogno di una cosa simile.» rispose singhiozzando Kahled e senza staccare gli occhi dal volto di Mira

            «Ma tu sì. E il modo in cui quel califfo lo sta usando è stata la prova definitiva, mi pare. L’uomo è malvagio per definizione. C’è un solo modo per dare agli uomini la pace. Imporgliela.»

            «No! La pace è una cosa da comprendere. Da accettare. Non può essere imposta.»

            «Non con metodi convenzionali. Perché vedi, gli uomini hanno una cosa chiamata libero arbitrio, ed è in assoluto la più terribile delle maledizioni. Fino a che ne saranno dotati non conosceranno mai la pace, perché è proprio nel libero arbitrio che risiede il fulcro della loro malvagità.

            Tuttavia, come hai visto tu stesso, il potere della Parola di Allah consiste nell’annichilire questa follia razionalizzata. Possedere quel potere significa possedere la chiave per portare la pace e la giustizia sulla Terra.»

            «Questa…» disse Kahled sfiorando gli occhi chiusi di Mira «Questa sarebbe giustizia?»

            «Te l’ho detto. La strada verso un mondo migliore dovrà essere lastricata con i corpi e il sangue di molte persone, e tu lo sai. Nemici, ma anche alleati. Persone che con la loro morte serviranno a favorire la causa che vuoi portare a termine.

            La morte di Mira è stata terribile, ma non sarà stata vana se farai la scelta giusta.

            Devi compiere il tuo destino. Il sogno è lì ad un passo.»

«Io… io non voglio. Non voglio diventare un mostro.»

            Di colpo, il corpo di Mira prese come a sgretolarsi, e sotto gli occhi disperati di Kahled non divenne nulla più che un mucchio di cenere. Il ragazzo cercò di tenerla insieme, ma fu tutto inutile, e di nuovo alla tristezza fece seguito la rabbia, una rabbia ceca ed incontrollabile.

            «Perdi di vista il tuo obiettivo, e tutto andrà irrimediabilmente in cenere.»

            «Tu… maledetto. Non voglio più sentirti.»

            «Ora che ci penso, non ti pare strana questa missione?

            Indubbiamente il maestro sapeva dei grandi poteri di cui era dotata la Parola di Allah. Ma, se è così, per quale motivo non ha ordinato di distruggerla?».

            Kahled esitò, colto alla sprovvista. Quello che diceva l’uomo in nero era vero: sia lui che Altair avevano notato questa stranezza, e trovarvi una spiegazione plausibile era molto difficile.

            La Parola di Allah non era fatta per restare in mano ad un qualsivoglia uomo, ma allora perché il maestro aveva ordinato loro di recuperarla e non di distruggerla, in modo che nessuno potesse più servirsene?

            «Se ci pensi bene, è parecchio strano. Del resto però, è già da un po’ che nutri dei dubbi sulla sanità mentale del vecchio, oltre che sulla sua rettitudine.

            Non dimentichiamoci che quell’uomo ha compiuto atti ignobili, e che inizialmente aveva fondato l’ordine degli Hasisiyyun solo per farne dei sicari con cui togliere di mezzo personaggi scomodi.

            Fossi in te non mi fiderei di una persona simile. Però, cieco e stolto come sei, non ci si poteva aspettare niente di diverso.»

            «Basta.» disse Kahled a denti stretti

            «Anche se i sospetti sulla sua rettitudine si rivelassero infondati, quel vecchio ormai ha perso la ragione.»

            «Taci.»

            «Deve essere fermato prima che provochi altro dolore. E qualcuno deve prendere il suo posto.»

            «Ti ho detto di tacere.»

            «Ovviamente, questo solleva la spinosa questione della successione, ma del resto tu sai di meritare il titolo di maestro ben più di tuo fratello.»

            «Basta!».

            Con la rabbia in corpo Kahled si alzò di scatto, e giratosi trapassò con la spada l’uomo in nero da parte a parte; quello si piegò in avanti, gemendo un attimo, ma poi, rialzato il volto, lanciò al ragazzo il suo sorrisetto malefico.

            «Quanta rabbia. Quanto odio. È questo l’agire di un uomo giusto?».

            Kahled rimase immobile per lo sconcerto, poi davanti ai suoi occhi il corpo dell’uomo in nero prese letteralmente a sciogliersi come neve al sole.

            «Non puoi mutare il corso della corrente, Kahled».

            A causa del contraccolpo il cappuccio dell’uomo in nero scivolò all’indietro non appena il ragazzo ritirò la spada, e ciò che apparve era tanto orribile e spaventoso da non poter essere descritto a parole. Non un volto umano, ma le orribili, agghiaccianti fattezze di un demone infernale: la pelle, di un colore terreo, era secca come il fango e segnata da profonde rughe, gli occhi erano giallo e i pochi capelli, lunghi e ispidi, erano secchi come la paglia; le labbra, bellissime fino ad un attimo prima, erano tutte tagliate, e i denti, marci all’inverosimile, sporgevano in tutte le direzione.

            «Chi…» domandò Kahled indietreggiando terrorizzato «Che cosa sei tu!».

            Rapidamente anche la faccia cominciò a sciogliersi, e quando l’uomo in nero la risollevò tutto quello che rimaneva era uno spaventoso teschio grigio fumo; fiamme azzurre scintillavano nel buio delle orbite, e i denti, tornati all’apparenza sanissimi, erano piegati in un’espressione malvagia.

            «Quello che tu diventerai».

            Kahled urlò con tutta la sua voce, il panorama tutto intorno scomparve in pochi istanti, un lampo lo investì e di nuovo tutto divenne nero.

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi qua!

Che bello, mi sento libero come non mi capitava da tempo.

Oltretutto, ho scoperto che dalla seconda settimana di dicembre e fino a natale dovrò andare in università solo una volta ogni tanto, perché a noi studenti del vecchio ordinamento viene fatto uno sconto sulle ore da seguire del corso di inglese.

Il brutto è che, oltre all’esame di inglese, ne ho altri due da preparare prima di natale, Linguistica mercoledì e Grammatica Spagnola il 21, ma niente di impossibile.

Questo è il penultimo capitolo, ora mancano solo l’ultimo e l’epilogo. Lo so che è più corto rispetto agli altri, ma questo genere di capitoli non sono mai stato molto bravo a scriverli, e mi servirà un po’ di tempo per affinare la tecnica.

Ringrazio Elika per la sua recensione

A presto!^_^

Carlos Olivera

  
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