5
C’era un che di strano, un che di famigliare, nel luogo in
cui si trovava.
Un tempo
doveva essere stata una casa di medio prestigio, forse la residenza di qualche
soldato importante o qualche dignitario di medio rango, ma il tempo e l’incuria
le avevano tolto quasi tutto il suo splendore, rendendola solo una pallida
ombra di ciò che era un tempo.
Nel
salotto, le sedie di vimini erano sporche e masticate dai topi, il tavolo
rettangolare era coperto di polvere e pezzi di intonaco
caduti dall’alto, il tetto e il soffitto erano scrostati e ammuffiti, ed i
tappeti avevano subito l’assalto delle tarme.
Era
piuttosto buio, tutte le torce erano spente e consumate, ma dalle finestre
aperte o velate solo in parte da tendaggi tutti strappati e lacerati giungeva
una luce fortissima: era una luce strana, irreale,
troppo forte per essere quella del sole, tanto da non poter scorgere nulla di
ciò che vi era all’esterno, ma nonostante la sua forza riusciva a rischiarare
solo in minima parte l’oscurità che albergava lì dentro.
E poi
silenzio, un silenzio assoluto, che avrebbe fatto
gelare il sangue a chiunque.
Kahled
non aveva idea di come fosse finito lì: l’ultima cosa che ricordava era Mira
che si spegneva davanti a lui, e se ci pensava sentiva
ancora il cuore minacciare di fermarsi per il dolore.
Poi, di
colpo, si ricordò, e capì perché quel posto gli diceva qualcosa.
Quella
era la sua casa!
La casa
di Damasco in cui era cresciuto, e nella quale aveva passato alcuni dei momenti
più felici della sua vita. Lì, in un angolo, una sedia di legno, la sua
preferita fin da quando era piccoli, la porta dove lui e il fratello giocavano
al cambio della guardia, e il grande cesto per la farina dove andava a
nascondersi quando combinava qualche marachella, nel tentativo, spesso vano, di
sfuggire alla punizione.
Come era finito lì?
Era dal
giorno della sua fuga che non vi metteva piede, e in ogni caso come aveva fatto
da passare da una stretta e fangosa strada di Baghdad alla sua vecchia
abitazione di Damasco?
La parte
razionale di lui concluse che probabilmente si
trattava solo di un sogno, uno dei tanti che gli era già capitato di fare, ma
c’era qualcosa di così reale, di così tangibile in ciò che gli stava intorno:
poteva sentire il gocciolio dell’acqua, l’odore della muffa, il freddo della
pietra, tutte cose che prima di allora non gli erano mai accadute.
Dunque, se non era un sogno? Cosa poteva
essere?
Forse era
lo stadio successivo, quella specie di limbo che stava tra il sonno comune e il
sonno eterno di cui aveva sentito parlare da molti suoi
fratelli che avevano subito la stessa esperienza, e che proprio in
questa sorta di dimensione al di fuori dello spazio e del tempo avevano trovato
la forza per tornare indietro, sfuggendo all’invitante richiamo della morte.
D’un
tratto, qualcosa attirò la sua attenzione: sopra un ripiano, impolverato ma ancora bello da vedersi, stava un giocattolo, un piccolo
cavallo di legno intagliato artigianalmente.
Lo
ricordava benissimo; quello era suo, era il suo gioco preferito. Suo padre lo
aveva realizzato per lui poco dopo che era nato, glielo aveva messo nella culla
e da allora non se ne era più voluto separare. Lo
prese in mano, attonito, avvertendone il calore, e quasi gli venne da
stringerlo a sé.
«È
interessante notare quello che sei adesso».
Quella
voce, così ironica e malevola, lo fece sobbalzare, e istintivamente, lasciato
cadere il giocattolo, si girò, mettendo la mano sul pomo della spada.
Poco
distante da lui, appoggiato alla parete e a braccia conserte, c’era un uomo, e
appena lo vide un brivido di freddo gli percorse la
schiena: il suo vestito era uguale in tutto e per tutto a quello degli
Assassini, ma era completamente nero, e a causa del cappuccio sollevato era
impossibile vederlo distintamente in volto. A giudicare dai lineamenti del
mento e dalla pelle distesa, dovevano avere pressappoco la stessa età.
«Un corpo
vuoto.» disse, per poi piegare le labbra in uno
sorrisetto sarcastico.
Kahled lo
scrutò attentamente, da cima a fondo, e più lo guardava più quel brivido si
faceva forte, ma il terrore di cosa avrebbe potuto vedervi all’interno lo
spinse a non cercare nemmeno di scorgere i suoi occhi.
«Chi… che
cosa sei tu?»
«Oh, andiamo, non fare domande ovvie. Lo sai benissimo chi
sono io».
Il
ragazzo poi si guardò un momento attorno.
«Che
posto è questo?»
«Altra
domanda ovvia.» rispose quello col suo tono ironicamente acido «Usa
l’immaginazione.»
«La
morte?»
«Ti piacerebbe. Bel tentativo, ma no. Purtroppo abbiamo solo
poco tempo, quindi siamo costretti a saltare i convenevoli e andare
direttamente al sodo.»
«Che cosa
vuoi da me?»
«Ricordarti
perché sei qui».
Come per
magia la stanza incominciò a trasformarsi, e nello spazio di pochi secondi
tornò ad essere l’ambiente caldo, amorevole e
accogliente che Kahled rivedeva spesso nei suoi sogni: all’odore della muffa si
sostituì quello del pane cotto sulla pietra, il silenzio assoluto fece posto ai
rumori e ai suoni della città, e quella luce irreale venne scacciata dai caldi
raggi del sole.
Kahled si
guardò nuovamente intorno, poi da una porta laterale uscì una giovane e
bellissima donna con lunghi e fluenti capelli neri.
«Mamma!».
Era proprio lei, sua madre Selima,
così come la ricordava; non sembrava essersi accorta di lui, della sua
presenza, ma solo vederla bastava a riscaldargli il cuore.
Si volse
un attimo verso l’uomo in nero, che gli fece un cenno della mano con quel suo
sorriso sarcastico, poi tornò a guardare la madre, che appoggiato sul tavolo il
cesto di frutta che stava trasportando si inginocchiò
davanti alla piccola fornace, tirandone fuori con l’aiuto di una tavola di
legno sei pagnotte fumanti e profumate che
solo le mani di una esperta donna di casa sarebbero state capaci di
preparare.
Una serie
di schiamazzi e di passi veloci annunciarono l’arrivo
di due ragazzini scatenati che giocavano a fare i soldati brandeggiando spade
di legno, e Kahled non faticò a riconoscervi sé stesso e il fratello quando
avevano rispettivamente sei e sette anni.
«Kahled,
Altair, smettetela.» disse la madre mentre quelle due pesti saltavano da tutte
le parti
«Mamma,
abbiamo fame.» disse il piccolo Kahled «Quando si mangia?»
«Abbiate un po’ di pazienza. Aspettiamo vostro padre.» disse
porgendo loro una mela tagliata a metà «Intanto potete avere questa.»
«Grazie!».
Alzatasi,
Selima apparecchiò la tavola, e dopo poco entrò in
casa un uomo di bell’aspetto, alto e slanciato; tanto gli abiti piuttosto curati
quanto il disegno particolare della sua barba lo identificavano come un membro
della corte del califfo, ma era anche Yusuf, il padre dei due ragazzi, che
appena lo videro gli corsero incontro festanti.
«Papà!»
«Ah,
piccoli diavoli!» disse sorridente prendendo in braccio Altair, il suo
primogenito «Vi siete comportati bene oggi?»
«Sì,
papà.»
«A sentire il vostro maestro di scuola, non credo proprio.
La finirete mai di combinare guai?».
Sua
moglie gli si avvicinò porgendogli un bicchiere di latte freddo per lenire le
fatiche della giornata appena trascorsa; lui lo accettò, sorseggiandolo con
piacere, poi i due si scambiarono un piccolo e affettuoso bacio d’amore.
A
dispetto del suo ruolo e della sua posizione Yusuf era un uomo di mentalità
aperta, che aveva sposato la sua donna unicamente per amore e che aveva un
rapporto sereno sia con lei sia con i suoi figli, e per questo tutta la sua
famiglia gli voleva un mondo di bene.
Si
sedettero a cenare, e mentre mangiavano il padre
intratteneva i due figli con giochini e trucchetti con cui riusciva sempre a farli ridere, anche
nelle situazioni più tristi.
E Kahled
osservava, sorridendo al pensiero di quanto era stato felice in quegli anni
ormai lontani: allora era troppo spensierato ed
innocente per rendersi conto di quanti segreti suo padre stesse nascondendo a
lui come a tutta la sua famiglia, segreti pericolosi e sconvolgenti legati al
suo ruolo nella corte del palazzo.
«Te lo
ricordi, vero?» disse l’uomo in nero «Ti ricordi
quanto era semplice la vita a quell’epoca. Sarebbe stato bello continuare a
vivere così, vero? Ti saresti sposato, avresti avuto una famiglia, dei figli, e
una casetta tutta per te.
Ma già
allora eri ambizioso. Guardavi i bambini più ricchi e
quelli più forti con indicibile invidia, e anelavi i loro privilegi. Eri pronto
a cogliere qualsiasi occasione pur di poter diventare come loro.»
«Questo non è vero. A me quella vita andava benissimo, e
ricordo bene la felicità che provavo.»
«Dici davvero? E credi davvero che in questa vita possa
esistere la vera felicità?»
«Che cosa
vuoi dire?»
«La felicità non esiste. E non esisterà mai fino a quando
gli uomini continueranno a camminare lungo questa strada. Non possono vivere
senza farsi male l’un l’altro, e tu lo sai. L’umanità è marcia, è sudicia, e
indegna. E tu ti illudi di poterti costruire il tuo
piccolo eden in un mondo tanto corrotto? Pensavi sul serio che rinunciando a
tutto per Mira avresti ottenuto la felicità?»
«Tutto è
possibile, se solo lo si vuole. Niente è reale. Tutto
è lecito.»
«Hai bisogno
di ricordare quanto possa essere dolorosa la vita».
L’uomo in
nero indicò la porta, e in quell’istante tre uomini armati fecero
irruzione in casa.
Sicuramente
si trattava di tagliagole, assoldati da qualcuno di quei dignitari corrotti che
Yusuf aveva denunciato per restituire il favore.
Il
capofamiglia, colto alla sprovvista, ebbe a malapena il tempo di impugnare un
coltello e di avventarsi su uni dei tre, riuscendo anche a ferirlo ma venendo ucciso subito dopo.
«No!»
urlò Kahled lanciandosi in avanti spada alla mano, ma
quando tentò di prevenire l’affondo mortale il suo corpo passò incredibilmente
attraverso a quelli del padre e del sicario, e lui si ritrovò buttato per
terra, impossibilitato a fare alcunché.
Sarebbero
sicuramente morti anche la moglie e i figli, ma in quello stesso momento due
Assassini entrarono a loro volta in casa; essendo un
collaboratore e un informatore Yusuf godeva della protezione dell’ordine,
pertanto c’era sempre qualcuno che teneva d’occhio la sua abitazione e che lo
seguiva nei suoi spostamenti per la città.
I tre
tagliagole vennero immediatamente e facilmente annientati, e
appena la situazione si fu acquietata i due fratelli, sopravvissuti
miracolosamente, restarono a lungo immobili ad osservare pieni di stupore la
grandiosità degli uomini che li avevano salvati.
Kahled
d’un tratto sentì riaffiorare le emozioni e i pensieri che avevano attraversato
la sua mente trovandosi di fronte quegli Assassini, e la consapevolezza che in
fin dei conti l’uomo in nero aveva ragione a dire che la prospettiva di un
simile potere lo aveva allettato fin dal primo istante si impadronì
della sua mente.
Era così
scosso che quasi non si accorse che uno degli assalitori, ferito e riverso ma
ancora vivo, aveva sfoderato il pugnale, e l’unica cosa che vide fu Selima che, avvedutasi del pericolo, si alzò da terra,
frapponendosi tra i suoi figli e la morte certa.
«No!»
gridò vedendo la madre cadere all’indietro trafitta al petto, ma prima che
potesse prenderlo tra le braccia il suo corpo e tutto
il resto svanirono come fumo, restituendo alla casa la sua aria tetra e
malandata.
Il
ragazzo restò a lungo inginocchiato sulla pietra, singhiozzando, e i suoi occhi
si riempirono di lacrime. Al contrario, l’uomo in nero seguitava a rimanere
impassibile, e anzi la sua espressione sembrava di gelida presunzione, come a
voler riaffermare la veridicità delle proprie affermazioni.
«Che ti avevo detto? La felicità non è una cosa che
appartenga a questo mondo, e non lo sarà mai.»
«No!»
gridò Kahled, un urlo così forte da fendere il cielo, ma che rapidamente si
spense, soffocato dal silenzio
«Guardati. Sei tormentato dai sensi di colpa. Proprio come
quel giorno. Tuttavia, al comprensibile dolore iniziale, in
te si sostituita la consapevolezza. La consapevolezza che la ragione sta
dalla parte del più forte, non del più virtuoso. Che l’unico mezzo per portare
la giustizia correva sulla punta della spada. E sono questi i propositi con i
quali ti sei unito alla confraternita.»
«No! Questo non è vero!» replicò Kahled voltandosi verso di
lui «Io credevo nei precetti degli Assassini! Io credevo nella pace!»
«Sì sì, ci credevi, questo non lo
metto in dubbio. Il problema è che ci credevi a modo tuo.»
«Cosa!?»
«Tuo padre credeva nella giustizia e nella pace, proprio
come gli Assassini. Credeva che il mondo sarebbe stato più giusto, che
mostrando agli uomini la via della giustizia l’avrebbero seguita. E dove l’ha
portato questa convinzione, l’hai scoperto da solo: tradito da coloro che reputava suoi amici.
È stato
questo che ti ha fatto capire la massima che regola ad
oggi tutto il tuo esistere: l’umanità è malvagia per definizione, e l’unico
modo per portare la pace tra questi esseri violenti e ipocriti è imporla con la
forza. E chi si oppone a questo, deve morire.»
«No. Io non ho mai pensato che uccidere indiscriminatamente
potesse favorire la causa della pace.»
«Davvero?».
Di nuovo
il panorama mutò, questa volta radicalmente, e in un batter di ciglia Kahled e
l’uomo in nero si ritrovarono nel cortile della fortezza di Masyaf,
circondato da centinaia di persone.
Alcuni
giovani Assassini stavano in piedi e in riga sulla sommità della terrazza che
stava dirimpetto al palazzo, dando le spalle alla folla, e tra di essi Kahled
riconobbe il sé stesso di molti anni prima.
Ricordava
bene quel giorno: il giorno della sua investitura, il
giorno del suo passaggio da Novizio ad Assassino vero e proprio dopo molti anni
di duro apprendistato. Arrivare fin lì era stato duro, molto duro:
gli allenamenti, le privazioni, le percosse. Molte volte era stato sul punto di
mollare, ma poi, in un modo o nell’altro, aveva sempre trovato la forza per
andare avanti, e ora i suoi sforzi stavano per essere premiati.
«Il
giorno più importante della tua vita, ho ragione?» disse l’uomo in nero,
perennemente accanto a lui.
Le porte
della fortezza si aprirono, e da dentro uscì il gran maestro Hasan-i Sabbah,
accompagnato da Altair, che già da un anno aveva ottenuto l’investitura ad
Assassino. Il maestro impugnava la sua spada, un’arma tanto magnifica da essere
di per sé un mito; secondo la leggenda molti grandi uomini del passato
l’avevano impugnata, da Alessandro Magno a Giulio Cesare, fino al Profeta, e
ognuno di essi l’aveva pervasa con un po’ della sua essenza divina.
Hasan-i
Sabbah l’aveva ricevuta in dono dal califfo del Cairo per i suoi servigi e la
sua lungimiranza, ma si diceva che il vero motivo risiedesse nelle parole di un
grande veggente, molto stimato e rispettato in Egitto, il quale ricevette in
sogno la visita di un arcangelo che gli ordinava di persuadere il califfo
consegnare la spada al futuro maestro, in quanto egli,
in un futuro non lontano, si sarebbe fatto portavoce della causa del cielo. Fin
dalla fondazione dell’ordine era uno degli oggetti più sacri per gli Assassini,
e Hasan-i Sabbah aveva già fatto sapere che ne avrebbe fatto
lascito per il suo successore.
I sei
adepti, tutti ragazzi tra i sedici e i diciannove anni, chinarono il capo,
porgendo la mano sinistra, e ad ognuno di loro il
maestro recise di netto l’anulare, sancendo in questo modo il loro ingresso
definitivo nelle file del sacro ordine.
Il vero
Kahled sentì un dolore lancinante alla mano destra nell’istante in cui quel
supplizio toccò al sé stesso di quel giorno ormai
lontano, tanto forte che strinse i denti con tutta la forza che aveva per
evitare di gridare.
«Da questo momento» disse Hasan-i
Sabbah ai suoi nuovi discepoli, che come ulteriore
prova di nobiltà e rettitudine non potevano in alcun modo manifestare il dolore
rimanendo assolutamente immobili «Voi diventate qualcosa di più di semplici
esseri umani. Con fede e onore avete sfidato i vostri limiti, ed oggi siete qui per raccogliere il frutto delle vostre
fatiche. La conoscenza illumina i vostri animi, la fede dimora nei vostri
cuori, la ragione guida le vostre lame.
Da oggi
in poi ogni vostra azione dovrà essere finalizzata ad
un unico scopo: la pace. In ogni cosa.
È per questo che voi lotterete. Per cui
ucciderete.
Voi
siete… Assassini».
La folla
chinò il capo in segno di rispetto, e Kahled, non visto, si scambiò un’occhiata
con Altair, il quale sorrise leggermente, come a volersi silenziosamente
congratulare con il fratello.
«Tuttavia»
proseguì il maestro alzando l’indice «Ricordatevi una
cosa. Benché vi siate elevati ad una condizione di
vita superiore tutti voi, nel profondo, restate pur sempre esseri umani. Tutti
noi lo siamo, e questo è un dogma al quale nessuno può sottrarsi.
La natura
e tutto ciò che ci circonda sono parte di un grande
disegno, e anche noi lo siamo. Un disegno divine che
sfugge anche alla nostra comprensione. E questa è una cosa che non dovrete mai
dimenticare. Siate umili, figlioli.
E,
soprattutto, non vacillate mai sui dettami che da ora
in poi regoleranno la vostra intera esistenza. Il Credo è unico e sacro, e non
sarete niente senza di esso».
Kahled,
il vero Kahled, sentì un colpo al cuore.
Ricordava
bene cosa aveva pensato quando il maestro aveva pronunciato quelle parole: il
Credo era sacro, senza alcun dubbio, ma sarebbe stato
molto difficile portare la pace in un mondo popolato di uomini che sembravano
provare un sadico piacere nel massacrarsi l’un l’altro.
Cosa poteva esserci di divino nel disegno che sembrava opera
di una mente perversa? Se gli dèi erano così superiori, così immensamente
perfetti, perché inserire nella creazione un essere così basso e meschino come
l’uomo, dotandolo oltretutto di un intelletto capace di produrre i pensieri e i
propositi più oscuri che si potessero immaginare?
Più di
una volta si era chiesto se in un tale panorama di desolazione potesse davvero
esserci spazio per la fede, ma se c’era una cosa che sapeva per certo nel
momento in cui il fratello gli metteva tra le mani il
bracciale con la lama nascosta era che ora, come Assassino, aveva il potere di
migliorare le cose, di costruire un mondo migliore, e poco importava se per
riuscirci avrebbe dovuto camminare sui corpi di innumerevoli persone: il fine
ultimo,
«Devo
ammettere che non fa una piega.» disse l’uomo in nero leggendogli nella mente
«No. Io… non lo pensavo davvero.»
«Oh sì, che lo pensavi. E lasciatelo dire. Non è esattamente
il tipo di ideologia che mi aspetterei da un
Assassino.
Ma suppongo di non poterti dare torto. I mattoni per
costruire un ideale il più delle volte sono i cadaveri di coloro che la pensano
diversamente.»
«Non volevo che fosse così. Io volevo solo portare
«Questo non lo metto in dubbio. Ma
per creare la pace è necessario apprenderne il significato, e una specie tanto
sciocca e barbara come l’uomo non riuscirà mai neppure a concepirla questa
parola.
Non
credi?»
«L’uomo può cambiare. Gli uomini possono imparare a
diventare migliori.»
«Tuo padre diceva la stessa cosa. E guarda la fine che ha
fatto. Con il tempo hai soffocato quei pensieri, preso com’eri ad impegnarti per raggiungere i vertici, ma gli obiettivi
che ti eri professato in questo giorno non sono mai completamente scomparsi».
Ad un nuovo urlo straziante di Kahled tutte le persone
scomparvero, lasciandolo da solo con l’uomo in nero, e la bella mattina di sole
lasciò lo spazio ad un tetro cielo plumbeo, solcato dalle nuvole come le rughe
su di un corpo consumato dalla vecchiaia.
Il
giovane assassino si girò verso il suo interlocutore, guardandolo con occhi di
fuoco.
«Chi sei tu per parlarmi così? Cosa credi
di sapere tu di me? Io non sono come tu mi descrivi!
Ho abbandonato quei propositi!»
«No.»
rispose calmo quello «È l’esatto contrario. Li hai
riscoperti. E questo grazie alla situazione che stai vivendo, oltre
naturalmente a quello straordinario tesoro.»
«Straordinario
tesoro!? È un oggetto infernale! Da distruggere, come
diceva Altair!»
«È esattamente ciò di cui hai bisogno. Hai visto il suo
potere con i tuoi occhi, mi pare».
Un vento
gelido attraversò la piazza; l’uomo in nero guardò sarcastico a sinistra, e
Kahled fece altrettanto, scorgendo il corpo senza vita di Mira riverso sulla
schiena a pochi passi da loro.
«Mira!»
urlò correndogli incontro.
Il suo
corpo era gelido, i suoi lineamenti immobili, e la pelle già andava tingendosi
del pallore della morte. Kahled pianse, pianse come
mai nella sua vita, accarezzando quelle guance fredde e dure come il ghiaccio,
e intanto l’uomo in nero continuava a guardarlo, sfoggiando quel suo malvagio
sorriso.
«Non è
stata tua la colpa.»
«Io… io
l’ho uccisa.»
«No. Tu hai fatto il tuo dovere. Lei ha cercato di
aggredirti, e tu ti sei difeso.»
«Io l’ho
uccisa!»
«Capisci adesso? Quante altre persone dovranno morire prima
che tu capisca che è giunto il momento di fare la cosa giusta? È morta la tua
famiglia, è morta la donna che amavi, e di chi è la
colpa? Non tua. La colpa è degli uomini, e della loro mente malata.
Quell’oggetto,
«Il mondo
non ha bisogno di una cosa simile.» rispose singhiozzando Kahled e senza
staccare gli occhi dal volto di Mira
«Ma tu sì. E il modo in cui quel califfo lo sta usando è stata la prova definitiva, mi pare. L’uomo è malvagio per
definizione. C’è un solo modo per dare agli uomini la pace. Imporgliela.»
«No! La pace è una cosa da comprendere. Da accettare. Non
può essere imposta.»
«Non con metodi convenzionali. Perché vedi, gli uomini hanno
una cosa chiamata libero arbitrio, ed è in assoluto la più terribile delle
maledizioni. Fino a che ne saranno dotati non
conosceranno mai la pace, perché è proprio nel libero arbitrio che risiede il
fulcro della loro malvagità.
Tuttavia,
come hai visto tu stesso, il potere della Parola di Allah consiste
nell’annichilire questa follia razionalizzata. Possedere quel potere significa
possedere la chiave per portare la pace e la giustizia sulla Terra.»
«Questa…»
disse Kahled sfiorando gli occhi chiusi di Mira «Questa sarebbe giustizia?»
«Te l’ho detto. La strada verso un mondo migliore dovrà
essere lastricata con i corpi e il sangue di molte persone, e tu lo sai.
Nemici, ma anche alleati. Persone che con la loro morte serviranno a favorire
la causa che vuoi portare a termine.
La morte
di Mira è stata terribile, ma non sarà stata vana se
farai la scelta giusta.
Devi
compiere il tuo destino. Il sogno è lì ad un passo.»
«Io… io non voglio. Non voglio
diventare un mostro.»
Di colpo,
il corpo di Mira prese come a sgretolarsi, e sotto gli occhi disperati di
Kahled non divenne nulla più che un mucchio di cenere. Il ragazzo cercò di
tenerla insieme, ma fu tutto inutile, e di nuovo alla tristezza fece seguito la rabbia, una rabbia ceca ed incontrollabile.
«Perdi di
vista il tuo obiettivo, e tutto andrà irrimediabilmente in cenere.»
«Tu… maledetto. Non voglio più sentirti.»
«Ora che ci penso, non ti pare strana questa missione?
Indubbiamente
il maestro sapeva dei grandi poteri di cui era dotata
Kahled
esitò, colto alla sprovvista. Quello che diceva l’uomo in nero era vero: sia
lui che Altair avevano notato questa stranezza, e
trovarvi una spiegazione plausibile era molto difficile.
«Se ci pensi bene, è parecchio strano. Del resto però, è già
da un po’ che nutri dei dubbi sulla sanità mentale del vecchio, oltre che sulla
sua rettitudine.
Non
dimentichiamoci che quell’uomo ha compiuto atti ignobili, e che inizialmente
aveva fondato l’ordine degli Hasisiyyun solo per
farne dei sicari con cui togliere di mezzo personaggi scomodi.
Fossi in te non mi fiderei di una persona simile. Però, cieco e
stolto come sei, non ci si poteva aspettare niente di diverso.»
«Basta.»
disse Kahled a denti stretti
«Anche se
i sospetti sulla sua rettitudine si rivelassero infondati, quel vecchio ormai
ha perso la ragione.»
«Taci.»
«Deve essere fermato prima che provochi altro dolore. E
qualcuno deve prendere il suo posto.»
«Ti ho
detto di tacere.»
«Ovviamente,
questo solleva la spinosa questione della successione, ma del resto tu sai di
meritare il titolo di maestro ben più di tuo fratello.»
«Basta!».
Con la
rabbia in corpo Kahled si alzò di scatto, e giratosi trapassò con la spada
l’uomo in nero da parte a parte; quello si piegò in avanti, gemendo un attimo,
ma poi, rialzato il volto, lanciò al ragazzo il suo sorrisetto malefico.
«Quanta rabbia. Quanto odio. È questo l’agire di un uomo
giusto?».
Kahled
rimase immobile per lo sconcerto, poi davanti ai suoi occhi il corpo dell’uomo
in nero prese letteralmente a sciogliersi come neve al sole.
«Non puoi
mutare il corso della corrente, Kahled».
A causa
del contraccolpo il cappuccio dell’uomo in nero scivolò all’indietro non appena
il ragazzo ritirò la spada, e ciò che apparve era tanto orribile e spaventoso
da non poter essere descritto a parole. Non un volto umano, ma le orribili,
agghiaccianti fattezze di un demone infernale: la pelle, di un colore terreo,
era secca come il fango e segnata da profonde rughe,
gli occhi erano giallo e i pochi capelli, lunghi e ispidi, erano secchi come la
paglia; le labbra, bellissime fino ad un attimo prima, erano tutte tagliate, e
i denti, marci all’inverosimile, sporgevano in tutte le direzione.
«Chi…»
domandò Kahled indietreggiando terrorizzato «Che cosa sei
tu!».
Rapidamente
anche la faccia cominciò a sciogliersi, e quando l’uomo in nero la risollevò
tutto quello che rimaneva era uno spaventoso teschio
grigio fumo; fiamme azzurre scintillavano nel buio delle orbite, e i denti,
tornati all’apparenza sanissimi, erano piegati in un’espressione malvagia.
«Quello
che tu diventerai».
Kahled
urlò con tutta la sua voce, il panorama tutto intorno scomparve in pochi
istanti, un lampo lo investì e di nuovo tutto divenne nero.
Nota dell’Autore
Eccomi qua!
Che bello, mi sento
libero come non mi capitava da tempo.
Oltretutto, ho
scoperto che dalla seconda settimana di dicembre e fino a natale
dovrò andare in università solo una volta ogni tanto, perché a noi studenti del
vecchio ordinamento viene fatto uno sconto sulle ore da seguire del corso di
inglese.
Il brutto è che,
oltre all’esame di inglese, ne ho altri due da
preparare prima di natale, Linguistica mercoledì e Grammatica Spagnola il 21,
ma niente di impossibile.
Questo è il penultimo
capitolo, ora mancano solo l’ultimo e l’epilogo. Lo so che è più corto rispetto
agli altri, ma questo genere di capitoli non sono mai stato molto bravo a
scriverli, e mi servirà un po’ di tempo per affinare la tecnica.
Ringrazio Elika per la sua
recensione
A presto!^_^
Carlos Olivera