6
Kahled si svegliò di soprassalto, la fronte imperlata di
sudore, il respiro affannoso come dopo una lunga corsa e lo sguardo spento.
Gli ci
vollero parecchi secondi per riuscire a mettere bene a fuoco, e appena fu in
grado di vedere con una certa chiarezza la prima cosa di cui si avvide era di
avere l’occhio destro bendato con delle garze, ma dopo il colpo che aveva
subito la cecità era il minimo che si dovesse aspettare.
L’ambiente
era quello di una casa povera, un seminterrato, a giudicare dalle finestre
strette e poste a ridosso del tetto, con un tavolino, uno sgabello e il letto
sul quale era disteso a contendersi lo spazio con tavole di legno, attrezzi e
ogni altro ciarpame.
Gli
faceva male dappertutto, aveva vari altri bendaggi disseminati su tutto il
corpo e la barba decisamente più lunga del normale, segno che dovevano essere
passati parecchi giorni dall’ultima volta che si era rasato.
Era da
poco passato mezzogiorno, si capiva dalla luce fortissima che entrava dagli
spioncini, e a sentire l’insistente vociare dei muezzin doveva essere proprio
l’ora della preghiera del pomeriggio.
Stava
cercando di riprendersi completamente quando la porta si aprì ed entrò suo
fratello con in mano un fagotto di tela contenente, dal profumo, il necessario
per una cena frugale.
«Kahled.»
disse vedendolo seduto sul letto «Ti sei svegliato.»
«Fra…
fratello.»
«Avevano
detto che avresti impiegato del tempo per svegliarti, ma non immaginavo così
tanto. Stavo cominciando a preoccuparmi seriamente.»
«Cosa…
che giorno è oggi?»
«Oggi è
il secondo giorno del terzo mese.»
«Il
secondo del terzo mese!? Ma allora…»
«Hai
dormito per quasi venti giorni. Ma con tutte le ferite che ti ritrovavi, il
medico reputa già un miracolo che tu sia sopravvissuto.»
«Dove ci
troviamo?»
«Nello
scantinato di un nostro fratello. La casa è disabitata. Dopo quella notte il
califfo ha cominciato a setacciare tutti i possibili rifugi, e molti Assassini
con le loro famiglie hanno lasciato la città per tornare a Masyaf in attesa che
si calmino le acque».
Ad un
certo punto Kahled si ricordò di quello che era successo, e il suo cuore
minacciò di fermarsi nel momento in cui l’immagine di Mira che si spegneva
dinnanzi a lui gli passò davanti agli occhi. Altair, comprendendo i sentimenti
che stava provando, abbassò lo sguardo, mostrandosi triste e addolorato tanto
quanto lui. Dopotutto, anche lui era molto legato a Mira, e come il fratello la
conosceva fin dai tempi dell’addestramento.
In una
sola notte entrambi avevano perso un maestro ed una cara amica, e la colpa di
tutto quel dolore era tutta di un solo uomo. Nonostante ciò, Kahled non
riusciva in alcun modo a liberarsi del senso di colpa, che come un pesante
macigno seguitava a gravare sul suo cuore e che, probabilmente, non se ne
sarebbe mai più andato.
«Non è
stata colpa tua, Kahled.»
«Io l’ho
uccisa…»
«È Jahal
l’unico responsabile di tutto questo. È lui ad avervi messi l’uno contro
l’altro.»
«Io l’ho
uccisa!».
I suoi
occhi si riempirono di lacrime, ma a causa di un movimento furioso del braccio
nel tentativo di tirare un pugno al muro lo colse un dolore lancinante, che
tuttavia servì solo a rendere più forte la sua disperazione.
Altair lo
lasciò in pace, comprendendo a pieno il suo bisogno di sfogarsi.
«Dov’è
ora?» domandò Kahled dopo poco, a denti stretti, come a voler trattenere a
stento una incontrollabile furia infernale.
Altair si
morse le labbra, mostrando palesemente il proprio nervosismo.
«Abbiamo
recuperato il suo corpo subito dopo averti salvato. Era qui, in questa casa.
Volevo aspettare fino a che ti fossi risvegliato, ma quando il tempo ha
cominciato a segnarlo non ho avuto altra scelta che ufficiare il rito del
trapasso».
Di nuovo,
Kahled si lasciò andare al pianto, un pianto sommesso e a viso nascosto.
Non
poteva neppure vederla un’ultima volta. Non avrebbe più rivisto il suo viso,
carezzato le sue guance, ammirato il disegno dei suoi lunghi capelli neri.
«Voglio
vederla».
Il
fratello minore fece per alzarsi, ma il dolore era troppo forte, così Altair fu
costretto a sorreggerlo. Insieme uscirono dal seminterrato e salirono
attraverso un’abitazione ormai deserta fino sul tetto: il sole splendeva con
tutta la sua forza, e Baghdad risplendeva come una gemma radiosa, un’oasi
lussureggiante nel bel mezzo del deserto.
Al
centro, su di un piccolo altare, stava un’urna cinerea piccola e semplice,
chiusa con un coperchio di legno sigillato con della cera, e al suo fianco due
candele ormai consumate.
Quello
era tutto ciò che restava di Mira,
La morte
non era altro che la conclusione naturale della vita terrena, il ritorno alla
terra da cui si era stati separati, e, secondo la fede del Buddha, in cui Mira
aveva sempre creduto, la prima tappa del passaggio ad una nuova rinascita.
Ma questo
per Kahled non aveva alcuna importanza, e non riusciva ad accettare l’idea di
essere stato l’artefice della sua morte.
Quasi
strisciando, e tremante come una foglia, si avvicinò all’urna, prendendola e
stringendola con tutte le sue forze, mentre le sue lacrime scendevano inesorabilmente,
rigandone la superficie.
Alzato lo
sguardo dopo un pianto che avrebbe spezzato il cuore anche all’uomo più
insensibile, vide, in lontananza, il palazzo del califfo, e allora la sua
rabbia si fece cento volte più forte. Rimessa l’urna al suo posto, e incurante
del dolore, mosse un passo come a voler saltare sul tetto vicino, ma Altair
fulmineo gli fu subito addosso, ed afferratolo a stento riuscì a trattenerlo.
«Lasciami!»
«Calmati
Kahled!»
«Lo
ammazzerò! Ammazzerò quel bastardo, fosse l’ultima cosa che faccio!»
«Cerca di
ragionare, non ti reggi in piedi! Affrontarlo nelle tue condizioni sarebbe un
suicidio!»
«Non mi
importa, lo voglio morto!».
Alla fine
Altair fu costretto a mollarli un tremendo diretto allo zigomo per costringerlo
a calmarsi.
«Non
capisci?» disse mentre il fratello, stremato e distrutto, si lasciava andare
alla disperazione «Se muori anche tu chi vendicherà la morte di Mira!
Io
comprendo benissimo i sentimenti che provi, ma c’è tempo e tempo, e un
Assassino che non è neanche in grado di camminare è come un’aquila con le ali
spezzate.»
«Lo… lo
so. Però…».
Vederlo
così, in quelle condizioni, fece stare male Altair come mai nella sua vita;
impietosito, gli mise una mano sulla spalla, confortandolo come già altre volte
aveva fatto; ai tempi dell’addestramento, quando le percosse, la fatica e il
dolore erano stati più di una volta sul punto di spingere Kahled a rinunciare.
«Verrà il
momento della vendetta, Kahled. Te lo prometto.»
«Fratello…»
disse lui guardandolo con gli occhi di un leone che, per quanto ferito, non
rinuncia all’idea di battersi.
Altair
dovette quasi caricarselo in spalla per riportarlo nel seminterrato e
rimetterlo a letto, tanto il corpo gli faceva male da tutte le parti a causa
delle ferite.
«Tieni.»
disse poi lanciandogli uno dei due kebab che aveva comprato al mercato «Devi
mettere qualcosa sotto ai denti se vuoi tornare presto in forze».
Mentre
stavano mangiando qualcuno bussò alla porta, mettendo i due fratelli sul chi
vive; lasciato cadere il proprio panino Altair si appiattì contro l’uscio spada
in mano, Kahled invece sfoderò un pugnale, pronto a lanciarlo in caso di
pericolo.
«Sono
io.» disse dall’alta parte una voce rassicurante.
Tirando
un sospiro di sollievo Altair rinfodero la spada e aprì leggermente la porta,
lasciando entrare un confratello completamente nascosto nella sua veste e nel
copricapo che indossava, il quale si limitò a consegnare una lettera prima di
scomparire nuovamente.
Altair la
aprì, leggendola, e a guardarlo negl’occhi Kahled capì subito che non erano
buone notizie.
«Che
succede?»
«Jahal è
stato convocato dal sultano. Ha ricevuto un elogio e una promozione per
l’esecuzione di molti dei nostri fratelli qui a Baghdad. Parte per Isfahan
domani mattina.»
«Che
cosa!?»
«C’era da
aspettarselo. Sicuramente gli verrà conferito un incarico di alta fiducia nella
corte reale.»
«Dobbiamo
fare qualcosa! Non possiamo permettere che riesca a farla franca!
Hai una
qualche idea di cosa potrebbe fare con
«Ne sono
perfettamente consapevole.»
«Dobbiamo
agire subito! All’istante!».
Spinto
dalla frenesia Kahled fece nuovamente per alzarsi, ma i dolori atroci che
ancora lo dilaniavano lo costrinsero a rimettere la testa sul cuscino.
«Non
sfidare i tuoi limiti, fratello.»
«Ma…
dobbiamo fermarlo ora.»
«Sono
d’accordo con te, ma anche se il tempo non ci è amico non possiamo permetterci
di lasciarci prendere dalla fretta, né lasciare tutto al caso.
Al
contrario, ora più che mai dobbiamo tenere a mente ciò che è necessario per
considerarsi un vero Assassino, e pensare in maniera il più possibile lucida.
Ora andrò
in giro ad investigare, e a parlare con i nostri fratelli ancora in città.
Vedrò se riesco in qualche modo a ritardare la partenza del califfo, così
avremo il tempo di pianificare con attenzione le nostre prossime mosse.
In caso
contrario, studieremo un modo per colpire prima che arrivi alla capitale. Lungo
il viaggio sarà di sicuro più vulnerabile.
Tu però,
promettimi che non farai niente di avventato. Promettimelo».
Kahled
guardò in basso, come un bambino colto in flagrante a commettere una
marachella; nonostante tutti i buoni propositi e il suo bruciante desiderio di
vendetta era ormai perfettamente consapevole che nelle sue attuali condizioni
non avrebbe potuto avere la meglio neppure su un brigante di strada, quindi la
raccomandazione di Altair, dettata più che altro da sincera ed ammirevole
preoccupazione fraterna, era del tutto inutile.
«Lo
prometto».
Altair
quasi accennò un sorriso di soddisfazione, tirando tra sé e sé un sospiro di
sollievo.
«Tornerò
il prima possibile. Tu riposa. Dovrai essere in perfetta forma per quando
colpiremo».
Rimasto
solo Kahled si lasciò sprofondare sotto le coperte, piangendo quelle poche
lacrime che gli erano rimaste.
Si
sentiva un inetto, un incapace, un fallito: aveva ucciso la donna che amava con
le sue stesse mani, aveva permesso che il suo maestro morisse per salvargli la
vita e, cosa più grave di tutte, aveva vacillato sulle proprie convinzioni nel
momento in cui aveva visto con i suoi occhi gli sterminati poteri della Parola
di Allah.
Infondo,
l’uomo in nero che aveva incontrato nel limbo tra la vita e la morte, e che
così crudelmente lo aveva giudicato, aveva ragione: in lui c’era un mostro, una
bestia selvaggia e sanguinaria, disposta a qualsiasi cosa pur di realizzare il
sommo ideale degli Assassini senza però curarsi minimamente dei mezzi con i
quali lo perseguiva, né delle vite che per esso sarebbero potute andare perse.
Ma non
l’avrebbe permesso: non avrebbe permesso a quel mostro di uscire. Lui e lui
solo era padrone delle sue emozioni, e per nulla al mondo avrebbe tradito i
precetti del Credo, quegli stessi precetti che, nel momento di massima
oscurità, quando credeva che non valesse più la pena di vivere, gli avevano
dato qualcosa di nuovo in cui credere, e una nuova famiglia.
Quando
quell’oggetto blasfemo fosse andato distrutto la tentazione sarebbe scomparsa,
e il mostro in lui non avrebbe avuto più alcun mezzo per tentarlo.
Voleva
riportare la pace, ma l’avrebbe fatto secondo il Credo, non secondo i propositi
malvagi di quell’essere oscuro, e per nulla al mondo la profezia vaticinatagli
prima di fare ritorno nel mondo dei vivi si sarebbe concretizzata: non sarebbe
diventato un mostro simile.
Tuttavia,
aggrapparsi con forza ai precetti degli Assassini non serviva a mitigare in lui
il desiderio di vendetta: il califfo, quel maledetto tiranno assetato di
potere, doveva pagare per ciò che aveva fatto. Mai più si sarebbe arrogato il
diritto di giocare con le vite degli altri, di soggiogare la loro mente e
costringere le persone a servirlo contro la loro volontà.
Rialzatosi
a fatica, si avvicinò barcollando alla propria veste, appesa al soffitto per
mezzo di un gancio, e quasi per caso, mentre vi faceva scorrere la mano sopra,
sentì qualcosa all’interno di un risvolto. Appena vide di che si trattava
rimase sconvolto, e dentro di lui si scatenò una tremenda tempesta.
Significava
vendere la propria anima, ne era perfettamente consapevole, sempre se ce
l’aveva ancora, e un giorno avrebbe dovuto rendere conto di ciò che ora il suo istinto
gli diceva di fare.
Che ne
era di tutti quei propositi, di tutte quelle aspirazioni che aveva avuto solo
pochi minuti prima?
Era
davvero tutto così privo di significato?
Però, se
era per una buona causa…
Come
diceva sempre Hasan-i Sabbah, a volte il bene nasce dal male. Ma era davvero
saggio, e soprattutto giusto, arrivare a tanto?
Se è vero
che a volte il bene nasce dal male, è vero in egual misura che svendere la
propria coscienza in quel modo non era esattamente ciò che ci si potrebbe
aspettare da un Assassino.
E poi,
per che cosa lo stava facendo? Per la confraternita, per Mira, o solo per sé
stesso?
Voleva
credere che in fin dei conti la sua scelta fosse giusta, che stava agendo
unicamente nel nome di un nobile ideale, eppure una parte di lui avversava
quella scelta, e continuava ad urlargli di non farlo, che una volta intrapreso
quel sentiero non avrebbe più avuto modo di tornare indietro.
Ma era
già troppo tardi.
Qualche minuto dopo Kahled era tornato al pieno delle
forze, e tutte le ferite che fino ad un istante prima devastavano il suo corpo
erano completamente scomparse; solo la menomazione all’occhio era rimasta,
sottoforma di una pupilla completamente bianca e di un segno obliquo che mai
sarebbe dovuto scomparire.
Sarebbe
stato il suo monito: il suo modo di ricordarsi per tutta la vita da dove
proveniva, che cosa aveva fatto, e che prima o poi qualcuno, in un giorno anche
lontano, sarebbe venuto a presentargli il conto.
Lentamente,
come se fosse stata la prima volta, indossò la propria veste, con le movenze
impercettibili e la profusione spirituale tipiche di una preghiera.
“Io non
diventerò un mostro.” disse facendo scattare la lama nascosta “Farò ciò che
ritengo giusto, ma non tradirò mai i precetti del Credo. Il Credo è la mia vita.
Dio onnipotente. Nelle tue mani ripongo la mia anima. Fa di me ciò che vuoi”.
Infoderata
la spada, uscì all’esterno. Le strade erano affollate di gente, e che se negli
ultimi giorni le guardie avevano più volte sollecitato la popolazione a
guardarsi da individui sospetti vestiti interamente di bianco nessuno fece caso
alla sua presenza, considerandolo unicamente come uno dei tanti volti tra la
folla.
Così era
la vita di un Assassino: discreto, distaccato, perennemente anonimo, tranne
quando arriva il momento di vibrare il colpo.
Pensò per
un attimo a quando aveva cominciato, a quando il solo camminare tra la gente
bastava a fargli venire il batticuore, e aveva paura a fare qualsiasi cosa che
potesse anche lontanamente essere considerata fuori dalle righe e potesse farlo
smascherare.
Ora,
invece, era davvero una lama tra la folla, un giustiziere silenzioso che aveva
il sacro compito di portare la pace e la giustizia ripulendo il mondo
dall’oscurità che lo opprimeva, un’oscurità che poteva avere molti nomi:
fanatismo, oppressione, crudeltà, avidità.
Più
volte, privando della vita i suoi bersagli, si era interrogato sull’effettiva
esistenza di Dio, ma era altresì vero che la fede era una delle poche cose a
cui uomini come loro potevano aggrapparsi per riuscire a proseguire la loro
incessante camminata attraverso il marciume del mondo, un marciume che stava
proprio a loro epurare, affinché tutti gli uomini di buon cuore potessero un
giorno godere di una nuova Terra libera dal male e completamente pacificata.
Prima di
uscire aveva rivolto una preghiera a Dio, e questa era la prova che, nonostante
tutto, era rimasto padrone del suo cuore, che non aveva dimenticato il Credo, e
che mai lo avrebbe fatto.
Quando
giunse in vista del portone del palazzo la rabbia si impadronì nuovamente di
lui, spingendolo a desiderare una cosa sola: vendetta. Appartatosi in una zona
poco frequentata attese di essere solo per intraprendere la scalata alle mura,
ma appena fu sui ballatoi venne inavvertitamente notato da due guardie che
facevano il turno di ronda.
Quelle
gli si fecero incontro armi alla mano, ma lui, senza difficoltà, ne trafisse
una con un pugnale, l’altra invece, dopo avergli piantato la sua stessa spada
nello stomaco, la scaraventò giù dalle mura direttamente in strada, cosa che
scatenò inevitabilmente il panico tra i cittadini che stavano transitando in
quel momento.
Liberatosi
di quella seccatura, e accertatosi di non avere addosso altri occhi indiscreti,
scese nel cortile, rivolgendo quasi subito le sue attenzioni sulla torre che
svettava verso l’alto proprio al centro del palazzo; alta più di cento metri e
con un raggio di almeno quindici, di forma cilindrica, era una delle grandi
meraviglie dell’impero, una costruzione gigantesca, e aveva sulla sommità una sorta
di basamento più largo che le dava, da lontano, la forma di un calice.
Una
sensazione gli attraversò il corpo, accompagnata subito dopo da una
consapevolezza: era lì che avrebbe trovato il suo nemico.
Vedendolo
avvicinarsi le guardie che sorvegliavano la struttura fecero per fermarlo, ma
il ragazzo, sfoderati altri due pugnali, li lanciò contemporaneamente,
trafiggendo i poveri malcapitati rispettivamente nella bocca e in mezzo alla
fronte, e lasciandoli a terra senza vita.
Entrato
nell’edificio, completamente vuoto all’interno, fatta eccezione per la rampa a
chioccia che saliva fino in cima, salì sul montacarichi di servizio, azionando
con una leva il meccanismo di contrappesi che lo mise in funzione e salendo
così verso l’alto.
Tanti
pensieri attraversarono la sua mente in quel breve viaggio verso il confronto
più importante della sua vita: pensava a Mira, a suo fratello, e a cosa
avrebbero potuto pensare di lui, ma ormai era troppo tardi per tornare
indietro.
Occorsero
una trentina di secondi per arrivare sulla cima della torre, una vasta piazza
circolare circondata da un reticolo di alte colonne che sorreggevano un
pregiato architrave ad anello, e come i suoi occhi tornarono a scorgere la luce
del sole si accorse di essere completamente circondato da un vero esercito di
uomini, se così li si poteva chiamare, tutti bene armate e pronte alla
battaglia; i loro occhi scintillavano di azzurro, i loro corpi parevano di
pietra, e le loro armature ricordavano quelle che Kahled aveva visto indossare
a suo tempo da alcuni soldati dei magnifici e in gran parte ancora sconosciuti
regni dell’India.
Non
sembrava esservi nulla di umano in loro, e nell’istante in cui si lanciarono
all’attacco Kahled mise mano nello stesso tempo alla spada e al pugnale,
ingaggiando con lui uno scontro feroce.
Era come
stare nuovamente sognando; non riusciva a capire che cosa gli stesse
succedendo, ma ciò che provava era impossibile da descrivere: era… surreale.
Quel
potere sconosciuto gli scorreva nelle vene come un fiume di lava, e sentiva di
poter fare qualunque cosa, se solo lo avesse voluto. In pochi minuti ebbe
ragione di tutti gli assalitori, per quanto forti, veloci e pericolosi, e come
l’ultimo si accasciò a terra trafitto al torace lui e tutti gli altri
scomparvero nel nulla consumati da delle fiamme azzurre che di loro non
lasciarono neanche la polvere.
Kahled si
guardò un momento intorno, poi nel silenzio riecheggiò una malefica risata.
«Vieni
fuori!» gridò al vento «Chiudiamo questa storia!».
Davanti a
lui si materializzò una vampata di fuoco celeste da cui uscì Jahal, sprezzante
e sicuro di sé come non lo era mai stato; indossava una ricca veste blu
oltremare sormontata da una leggera armatura d’argento, decorata con alcuni
altorilievi. In una mano teneva una pregiata scimitarra con l’impugnatura
apparentemente d’oro massiccio, nell’altra
«Dunque
sei tornato.»
«Non ho
la coda di paglia.»
«E
neppure il buon senso, a quanto pare.»
«Qual è
il tuo scopo? Perché fai tutto questo?»
«Non
giudicarmi, Assassino. Ti assicuro che ho le mie buone ragioni.»
«E quali
sarebbero? Schiavizzare gli esseri umani e costringerli a servirti?»
«È ciò
che credi tu, cieco come sei. Io non sono affatto come tu mi dipingi.»
«Che vuoi
dire?»
«Oro.
Potere. Donne. Tutte queste cose le ho già, e se solo lo volessi potrei averne
ancora, e senza bisogno di questo. Il mondo è così marcio e corrotto che sono
proprio gli uomini come me, quelli che la gente reputa malvagi, quelli che
riescono ad arrivare più in alto.
Voi
Assassini, che vi illudete di poter cambiare questa realtà di fatto, non siete
altro che degli ingenui.»
«Se non è
l’ambizione a guidarti, allora che cosa?».
Jahal a
quella domanda smise di camminare lentamente avanti e indietro, come aveva
preso a fare da che era arrivato, strinse più forte
«Questo
oggetto. Questa Parola di Allah… è dotata di un grande potere. Un potere che tu
non puoi neanche immaginare. Credevo sul serio che con il suo aiuto sarei
arrivato a dominare il mondo intero.
Ma poi,
nel momento in cui mi sono guardato attorno, e ho visto che cosa mi circondava,
ho capito che cosa volevo davvero.
Io
voglio… il ricordo.»
«Il
ricordo!?»
«Non
capisci? Noi siamo tutti mortali. Prima o dopo tutti moriamo. Sta nell’ordine
delle cose. E quando moriamo, inevitabilmente, scompariamo.
La morte
cancella tutto, senza distinzioni, e nel momento in cui anche il ricordo di ciò
che sei stato si spegne, di fatto è come se non fossi mai esistito.»
«È
davvero questo a farti paura? Essere dimenticato?»
«Lo trovi
così strano, Assassino?» gridò Jahal quasi piangendo, e con la voce rotta
dall’emozione «Io l’ho visto! Ho visto cosa ci attende dall’altra parte!
Cori
angelici, il paradiso terrestre, la beatitudine eterna! Tutte stupidaggini!
E se non
possiamo sperare almeno nel ricordo di chi verrà dopo di noi, che cosa ci
resta!».
Dopo
quello sfogo di disperazione il califfo parve calmarsi, e fece un paio di
respiri profondi per riguadagnare l’autocontrollo.
«Io…»
disse tenendo lo sguardo a terra «Dominerò ogni cosa. Conquisterò tutto ciò che
può essere conquistato, avrò tutti le genti della Terra ai miei piedi, e concentrerò
nelle mie mani quanto più potere possibile.
Lascerò
un marchio indelebile nella storia e nel destino di questo mondo, così profondo
e radicato che mai potrà essere dimenticato, neppure di fronte all’eternità.
Tramite queste mie gesta il mio ricordo sopravvivrà attraverso il tempo, ed io
con lui. Allora, e solo allora, potrò davvero esistere.»
«Sei
patetico.» rispose secco Kahled
«Che
cosa!?» ringhiò Jahal rialzando gli occhi
«Come
altro ti si potrebbe definire? La cosa che desideri più di ogni altra potrai
ottenerla solo dopo la morte. Quella stessa morte che ti terrorizza tanto.»
«Allora dimmi, visto che sembri
tanto sicuro di te, abbastanza da criticare i miei propositi. Per che cosa vivi
tu?»
«Io vivo per portare la pace. Io
voglio creare un mondo dove non ci sia sofferenza, dove nessuno debba conoscere
il dolore che ho dovuto subire io, e dove gli uomini vivano l’uno accanto
all’altro senza farsi alcun tipo di guerra.»
«E questa forse, non è la tua di
ambizione?».
Kahled rimase un attimo spiazzato,
non sapendo cosa rispondere.
«Non sei certo nella posizione per
potermi fare la predica, Assassino.»
«Se essere ricordato è tutto ciò a
cui aspiri, non è necessario fare tanto. Basta cambiare anche di poco la vita
di qualcuno, avere avuto per lui un significato particolare, e avrai la
certezza di avere qualcuno che si ricorderà di te.»
«Stolto.
A me non importa niente di vacue memorie. Io voglio essere ricordato per tutta
l’eternità.»
«Beh, in
questo mi dispiace distruggere il tuo castello di illusioni, ma sappi questo.
Niente, assolutamente niente, dura per sempre.
Mettere tutto sé stessi in ogni
cosa che si fa, e impegnarsi costantemente nella costruzione della propria vita
nel poco tempo che abbiamo. Questo significa esistere.»
«Che discorso commovente.» rispose
Jahal con uno strano sorriso, mentre attorno a lui andava formandosi un alone
azzurro che diventava sempre più grande «Se sei davvero convinto di ciò che
dici, allora mostrami questo “tutto sé stessi”. E le tue emozioni, e i tuoi
sentimenti, e le tue memorie.
Così che possa spazzarli via!».
I due corsero l’uno contro l’altro,
e come le loro spade cozzarono si produsse un baccano assordante, oltre ad una
vera pioggia di scintille. Jahal dimostrava forza, velocità e destrezza di
molto superiori a quelle di un comune essere umano, ma nonostante ciò Kahled riusciva
comunque a restargli dietro.
Purtroppo, più l’aura azzurra che
lo circondava aumentava di intensità, più le sue capacità aumentavano di
efficacia, e ad un certo punto il giovane Assassino cominciò a sentire il peso
della differenza di livello. Venne ferito più e più volte, fortunatamente
sempre in parti non vitali e solo in modo leggero, ma era un chiaro segnale del
fatto che lo scontro non poteva andare avanti per molto tempo.
Una sola cosa poteva salvarlo, e
permettergli se non altro di poter combattere ad armi pari, ma farlo voleva
dire davvero gettare via tutte le sue convinzioni, e vedendo l’espressione sul
volto di Jahal, che di secondo in secondo si faceva sempre più sadica e
malvagia, gli veniva da comandarsi se anche lui, se avesse avuto quel potere
tra le mani, sarebbe diventato così, preoccupato unicamente di perseguire i
propri obiettivi.
«Vedo qualcosa nel tuo sguardo,
ragazzo.» disse Jahal vedendo l’espressione di Kahled dinnanzi ai poteri della
Parola «Vedo l’ambizione, e l’ingordigia. Questo potere tenta anche te, non è
vero?»
«Ti sbagli!»
«Come darti torto. Ma è
inevitabile. Quando si vede con i propri occhi qualcosa di simile, si finisce
per rimanerne consumati. L’ho provato sulla tua stessa pelle.»
«Io non sono come te!»
«Ah, ma te lo leggo negli occhi. La
prospettiva del potere è qualcosa a cui nessuno può essere immune. Nemmeno tu.»
«Te l’ho detto, a me il potere non
interessa!»
«Ho i miei dubbi in proposito.
Comunque, non ti angustiare. Penserò io a liberarti da questo fardello, e lo farò
proprio ora!».
Ad un certo punto il califfo,
allontanatosi, puntò
Il ragazzo si piegò in avanti,
gemendo per il dolore, e come il nemico ritirò la lama barcollò all’indietro,
dando l’idea di essere sul punto di cadere, ma poi, sotto lo sguardo sbigottito
di Jahal, piantate bene le gambe a terra rialzò lo sguardo, lasciando
intravedere sotto il cappuccio uno sguardo sprezzante e ironico.
Il sangue che sgorgava dalla ferita
ritornò magicamente all’interno, e solo allora il califfo si accorse che,
arrotolato attorno al bracciale sinistro, Kahled aveva il frammento della
Parola che a suo tempo aveva consegnato a Mira per assicurarsi il successo della
sua missione, e che quella buona a nulla era riuscita incredibilmente a
sprecare.
«Bastardo.» ringhiò, e subito dopo
lo scontro riprese.
Nello stesso momento Altair, dopo una lunga indagine,
aveva raccolto informazioni a sufficienza per studiare un buon piano d’azione
che avrebbe permesso di colpire Jahal in un momento preciso del suo viaggio
verso Isfahan, ma rientrato nella stanza dove aveva lasciato il fratello trovò
solo il letto fatto e una candida piuma bianca appoggiata sulle coperte.
La
raccolse, stringendola fino a distruggerla.
«Razza
di… pazzo incosciente.» disse sotto i denti, e fatta scorta di tutti i pugnali
che poteva portarsi dietro raggiunse immediatamente il tetto.
Come vide
in lontananza la cima della torre principale del palazzo solcata da continui
bagliori azzurri capì subito che lo scontro era già cominciato, ma fatte solo
poche centinaia di metri fra i tetti trovò nuovamente Koromaru a sbarrargli la
strada.
«Così ci
rivediamo, alla fine.» disse l’Ombra
«Se ci
fossimo incontrati in un’altra occasione avrei accettato di misurarmi di nuovo
con te senza esitazioni. Ma ora sono di fretta, quindi non ho tempo da
perdere.»
«Ne sono
consapevole, ma purtroppo non posso permetterti di procedere oltre. Ordini del
califfo.»
«Perché
lo segui, Koromaru? Tu sai essere migliore. Tu non sei come lui.»
«Te l’ho
detto. È un debito d’onore. Quando l’avrò saldato sarò libero, ma fino a quel
momento la sua parola per me è legge.»
«È un
peccato che il tuo talento sia sprecato al servizio di un uomo simile. Quante
cose buone potresti fare sfruttandolo nel modo giusto.»
«Purtroppo,
in questo mondo, la bontà è un concetto superato.»
«Non è
detto. E sta ad uomini come noi fare in modo che le cose possano cambiare.»
«Il tuo è
un nobile proposito, Assassino. Lo condivido, sinceramente. Sfortunatamente,
per il momento, non posso seguirti.»
«E non
puoi nemmeno lasciarmi passare.»
«Sembra
che, dopotutto, sistemeremo i nostri conti in sospeso una volta per sempre.»
«Credo
anch’io.»
«Mi
sarebbe piaciuto combattere al tuo fianco, Assassino. Dico davvero».
Quasi
contemporaneamente i due avversari sfoderarono i pugnali, ma piuttosto che
cercare lo scontro diretto entrambi presero a muoversi in tutte le direzioni,
guardandosi dagli improvvisi movimenti del nemico e cercando il confronto
diretto solo di tanto in tanto, ma per non più di un istante.
Koromaru
aveva ancora quell’espressione sicura di sé che aveva ostentato anche nel corso
della prima battaglia, ma stavolta Altair, che negli ultimi venti giorni si era
allenato furiosamente in vista di un nuovo scontro con l’Ombra, si fece trovare
pronto a contrastare tutti i suoi attacchi, riuscendo oltretutto a rispondere
in maniera egregia.
«Sei
migliorato. Questo devo riconoscerlo.»
«Apprezzo
il complimento.»
«Ma non
illuderti. Dovrà passare del tempo prima che tu riesca ad eguagliarmi.
Ricordi
quello che ti ho detto? Tu rispetti e comprendi, io rispetto e padroneggio».
Detto
questo l’ombra cinse le mani sul petto, e come l’ultima volta salmodiò per un
po’ prima di moltiplicarsi letteralmente in decine di copie perfettamente
identiche che presero a saltare in tutte le direzioni. Contrariamente da ciò
che aveva fatto l’ultima volta, stavolta Altair rimase perfettamente immobile,
ad occhi chiusi e muscoli rilassati, come consapevole di non avere alcun potere
sul suo nemico, che al contrario sembrava completamente padrone del campo.
«È
finita, Assassino. Pregherò per te».
Un nugolo
di stellette piovve dal cielo, ma solo quando furono ad un batter di ciglia da
lui Altair si decise ad aprire gli occhi; con scioltezza e precisione,
impensabili persino per un Assassino del suo rango, senza mai muoversi dalla
sua posizione le respinse tutte, o meglio, solo quelle che esistevano davvero.
Infatti alcune di esse, che lui non degnava della minima attenzione, invece di
colpirlo gli passavano attraverso, per poi scomparire inghiottite dal vento.
«Che
cosa!?» esclamò Koromaru
«Ti
vedo!» gridò Altair lanciando un pugnale.
La lama
centrò in pieno una delle copie, che trafitta alla spalla precipitò sul tetto,
e nello spazio di un istante tutte le altre svanirono come fumo lasciando solo
il vero Koromaru, che stupito e sconcertato come non mai cercò per quanto
possibile di rimettersi in piedi.
«Co…
com’è possibile…»
«Mi dispiace,
ma ho capito il tuo trucco.»
«Il… il
mio trucco!?»
«All’inizio
credevo davvero che le abilità di cui eri dotato fossero frutto di qualche
potere misterioso, e che tu fossi realmente in grado di dominare pienamente i
segreti del mondo per compiere imprese impensabili per chiunque.
Ma poi mi
sono conto di una cosa, si tratta solo di autosuggestione.»
«A…
autosuggestione?»
«Tu usi
uno stile appariscente, fatto per impressionare, e fai uso di qualcosa che in
battaglia può ferire quanto le armi: la paura.
Sfoggiando
abilità apparentemente inumane confondi e disorienti i tuoi nemici, e mostrando
doti che potrebbero essere a buon diritto considerate frutto di poteri magici o
comunque sovrannaturali fai credere loro di stare affrontando qualcosa di più di
un semplice essere umano, una prospettiva che lascerebbe atterrito chiunque, me
compreso.
Ma poi,
in definitiva, non si tratta affatto di magia, anche se indubbiamente le tue
potenzialità non sono certamente alla portata di tutti.
Prendiamo
la tua presunta abilità di moltiplicarti. Tutto quello che fai è muoverti
continuamente e a gran velocità da una parte all’altra tutto intorno al tuo
avversario, rimanendo nello stesso posto per non più di mezzo secondo. In
questo modo, dai l’illusione di aver creato tante copie di te stesso.
E vale lo
stesso discorso per i tuoi pugnali a forma di stella: l’altra volta credevo che
fossero tutte reali, ma la loro velocità e il fatto di lanciarle continuamente
e da posti sempre diversi fanno sì che anch’esse sembrino molte di più di
quante siano in realtà.
Per
quanto riguarda l’abilità di sputare fuoco, ammetto di non averla ancora capita
del tutto, ma sospetto che tu possieda una qualche sostanza infiammabile, forse
in bocca o sotto quel bavero, chiusa in piccoli involucri, a cui dai fuoco
servendoti del tessuto particolare di cui sembra fatto il tuo abito. Questo
stesso tessuto sembra anche in grado di proteggerti dalle alte temperature, e
questo, unito alla tua velocità, ti permette di muoverti liberamente tra le fiamme
senza subire il minimo danno».
Koromaru
restò a lungo con gli occhi sbarrati, poi parve quasi compiaciuto.
«Avrei
dovuto immaginarlo.» disse togliendosi il pugnale dalla spalla e gettandolo a
terra «Voi Assassini siete troppo furbi. Monaci e guerrieri hanno sprecato la
loro vita a tentare di svelare i segreti della nostra arte, tu ci sei riuscito
dopo averla vista una sola volta».
A quel
punto Altair si avvicinò al suo nemico, avvicinandogli la spada alla gola.
«Avanti.»
disse Koromaru senza apparenti rimpianti «Uccidimi».
Invece,
dopo poco, vide la spada allontanarsi da lui, e il suo avversario che lo
guardava in modo enigmatico.
«Che
significa?»
«Una
vita, una vita. Ora siamo pari. L’ultima volta non mi hai ucciso benché ne
avessi la possibilità. Dicevi che avevo del potenziale, e che dovevo imparare a
sfruttarlo. Ora sono io a risparmiarti, e per lo stesso motivo.
Verrà il
momento in cui sia voi che noi saremo chiamati a garantire il futuro del genere
umano, e le tue conoscenze sono troppo preziose per andare perdute.
Torna
dalla tua gente a testa alta, perché hai dimostrato di essere un vero
guerriero».
L’Ombra
sgranò nuovamente gli occhi, poi rivolse ad Altair uno sguardo, ricambiato in
ugual modo, di ammirazione e profondo rispetto.
«Per molto
tempo ho creduto che non vi fosse più nulla per cui dover continuare a
esistere. Servire Jahal mi sembrava l’unica cosa che potessi fare per dire di
essere ancora in vita.
Quando ho
incontrato te, però, per la prima volta dopo chissà quanti anni mi sono
ricordato cosa volesse dire realmente essere vivi, e questo per me è ben più
prezioso di qualsiasi debito di vita.
Ti sei
battuto bene, Assassino. Hai il mio rispetto.»
«E tu il
mio.»
«Non ho
mai saputo il tuo nome.»
«Altair.»
«Allora,
Altair, possa un giorno il cielo farci rincontrare. Ora va’. Va’ a salvare tuo
fratello. La sua vita vale ben più della mia».
Di colpo
Koromaru fu circondato da una nuvola di fuoco, e quando le fiamme si spensero
di lui non vi era più traccia. Altair si guardò un momento intorno, quasi a
volerlo individuare per rivolgergli un ultimo saluto, poi riprese la via del
palazzo.
Sulla torre, lo scontro tra Kahled e Jahal era giunto
inevitabilmente ad una fase di stallo.
Potendo
contare entrambi sui poteri della Parola di Allah erano di fatto immortali, e
per quanto si ferissero reciprocamente in modo anche grave le ferite venivano
sempre risanate, e la battaglia proseguiva. La sola cosa che li differenziava
era che Kahled, disponendo solo di una parte irrisoria del manufatto, non era
in grado di sfoggiare abilità di cui invece il suo avversario faceva largo uso,
come generare diverse copie di sé per confonderlo o far emergere dal nulla
quelle fiamme azzurre.
Nessuno
dei due dava segno di volersi arrendere, e quando Kahled, con un misto di
sarcasmo ed ironia, aveva fatto notare che andando avanti di quel passo il
vincitore del duello sarebbe stato stabilito solo dal giorno del giudizio,
Jahal aveva risposto con un attacco furioso, urlando che prima o poi quel
frammento in suo possesso avrebbe finito per esaurire il suo potere,
lasciandolo esposto e vulnerabile.
Tuttavia,
una cosa fu chiara a Kahled fin da subito: più il califfo faceva uso della
Parola più la sua sanità mentale sembrava venire meno, completamente offuscata
dalla sete di potere che come un morbo si stava impadronendo di lui. Come se
non bastasse, anche lui stava cominciando ad avvertire la stessa sensazione, e
in più di un’occasione si era lasciato andare a gesti di cui mai si sarebbe
detto capace di fare, come infierire più e più volte su un uomo a terra o
attaccare in modo furioso consapevole del fatto di avere l’immortalità a
proteggerlo.
Non
poteva negare che quel fiume di energia che gli scorreva dentro gli dava una
sensazione incredibile, ma doveva fare in fretta a chiudere la questione, o
avrebbe finito per impazzire anche lui.
«Ora
basta!» gridò ad un certo punto il califfo, completamente fuori di sé «Mi sono
stufato di giocare, Assassino!».
Intuendo
che il tipo aveva in mente qualcosa di molto pericolo Kahled tentò di andargli
contro, ma Jahal sollevò
«Nessuno
può più fermarmi adesso!».
Vedendo
Jahal alzare alta sopra di sé
«Jahal!
Non farlo!»
«Ubbidisci al mio volere, Parola di
Allah! Donami tutta la forza del creato! Rendimi onnipotente!»
«Fermati! Quel potere ti
distruggerà!»
«Se gli esseri umani non hanno un
dio, sarò io il loro Dio!».
La luce azzurra divenne in breve
una fiamma di grandezza inaudita, e ai vaneggiamenti di Jahal si sostituirono
all’improvviso le sue strazianti urla di dolore. Tutto il suo corpo,
sollevatosi in aria, cominciò ad essere attraversato da striature luminose, una
luce infernale usciva dagli occhi, poi si generò una vera esplosione di luce,
che costrinse Kahled a chiudere gli occhi.
Quando il giovane assassino,
rialzatosi nel frattempo, fu in grado di guardare cosa era accaduto, ciò che
vide lo atterrì: dinnanzi a lui non un uomo, ma un enorme, gigantesco mostro
alto più di dieci metri, simile ad un centauro. La pelle era nera come il
carbone, solcata da quelle striature brillanti, le mani e le quattro zampe,
tutte armate di cinque affilatissimi artigli ricurvi, erano quelle di un demone,
e la testa era di forma triangolare, con una bocca attraversata da due file di
denti da squalo; gli occhi, piuttosto piccoli per la sua mole, scintillavano di
azzurro.
Non sembrava esservi più nulla di
umano in quell’essere spaventoso, e l’assordante ruggito che lanciò una volta
terminata la sua trasformazione era la chiara dimostrazione che anche il
raziocinio era ormai completamente scomparso.
Eppure, ciò nonostante, Kahled non
si tirò indietro.
«Non posso fermarmi ora!» urlò
facendo mulinare la spada.
Il mostro, forse irritato dal
trovarsi di fronte qualcuno che lo sfidava con tanta intraprendenza, ringhiò
ancora più forte, poi, alzato il bracciò, colpì con tale forza da provocare un
grosso squarcio nel pavimento e il crollo di alcune colonne.
Kahled si trovò quasi subito nella
condizione di non poter rispondere, preso com’era a schivare gli attacchi
bestiali e micidiali della creatura, che colpiva senza un’apparente logica, ma
bensì obbedendo unicamente all’istinto. Tuttavia, nel frattempo, gli veniva
anche da porsi una domanda: come si poteva definire divino, o comunque frutto
di una conoscenza superiore, un oggetto che permetteva la creazione di un
simile abominio?
Come se non bastasse, di quando in
quando dalla bocca eruttava nugoli di fiamme incandescenti, e agitando le
braccia creava vere e proprie bombe d’aria che avevano l’effetto di produrre
crepe un po’ dappertutto, incentivando i crolli.
Kahled cercò in ogni modo di
reagire, riuscendo perfino a correre lungo una delle braccia del mostro per
raggiungerne il collo e piantargli la spada nella clavicola, ma per quanto
riuscisse a danneggiarlo le ferite finivano sempre per risanarsi, senza contare
poi che la sua pelle corazzata era incredibilmente dura, e perciò molto
difficile da trapassare.
All’improvviso un pezzo di costone
franò proprio davanti al ragazzo, impegnato a fuggire all’ennesimo assalto, e
giratosi vide una di quelle mani artigliate piombargli contro; istintivamente
mise le mani davanti a sé, e all’ultimo il suo frammento della Parola brillò
come non aveva mai fatto, creando una sorta di barriera che lo salvò
miracolosamente da morte sicura.
Purtroppo per lui la forza infusa
dal mostro nel suo attacco risultò eccessiva, e alla fine il frammento andò
come in sovraccarico, esplodendo e producendo una piccola onda d’urto che
scagliò Kahled oltre le macerie che per poco non lo avevano investito.
Una parte della polvere in cui il monile
si era trasformato, lucida e iridescente come polvere d’oro, volò sulla mano
della creatura, risultando per lei nociva e corrosiva come un potente acido.
Kahled se ne avvide, e capì che era l’unico modo con cui poteva sperare di
averla vinta.
Rialzatosi, anche se a fatica, con
un balzo scavalcò le macerie, e rotolandosi a terra per sfuggire ad una manata
riuscì a ricoprire di polvere la lama della sua spada, che istantaneamente
prese a bruciare circondata da quella luce azzurra.
Il mostro, come spaventato, fece
qualche passo indietro, ma poi tornò alla carica più inferocito di prima.
Kahled evitò parecchi colpi, riuscendo anche a ferire l’assalitore due o tre
volte, e più passava il tempo più sentiva vivido e forte il potere proveniente
dalle polveri della Parola di Allah: forse era abominevole, forse poteva essere
usato per scopi sbagliati, ma quello era davvero il potere in grado di cambiare
le cose.
Alla fine, spossata dai continui
assalti, la creatura commise l’imprudenza di lasciarsi scoperta, e
immediatamente Kahled ne approfittò; spiccato un salto, e urlando con tutta la
forza che aveva, gli volò letteralmente contro, piantando la spada proprio nel
centro del petto.
Stremato e senza forze, Kahled
cadde in ginocchio quasi svenuto, mentre la polvere sulla spada, avendo forse
consumato tutto il suo potere, diventava niente più di semplice cenere, e dai
resti della creatura uscì Jahal, ritornato alle sue vere sembianze; anche lui
era visibilmente esausto, e anche se sembrava tornato padrone almeno di parte
del proprio raziocinio la rabbia che provava gliela si leggeva in viso: era
furioso, furioso come non mai. Poco distante,
«Tu… dannato Assassino.» disse
alzandosi; stava in piedi per miracolo, e probabilmente era proprio la rabbia
la sola cosa a permettergli di non crollare svenuto «Hai… hai rovinato tutto».
Barcollando, si avvicinò a Kahled,
che al contrario aveva a malapena la forza di sollevarsi sulle braccia, e
quando gli fu abbastanza vicino sollevò la spada per infliggergli il colpo di
grazia.
«Muori!».
All’improvviso, proprio quando era
sul punto di colpire, Altair, comparso dal nulla, gli saltò addosso alle
spalle, buttandolo a terra e trapassandolo alla schiena con la sua lama
nascosta.
«Fratello!» esclamò Kahled.
Altair corse da lui, aiutandolo a
rialzarsi, ma pur essendo visibilmente sollevato nel saperlo vivo non mancò di
rivolgergli un’occhiataccia degna di un padre che ha colto il figlio a giocare
con la sua spada.
«Che cosa non hai capito della
frase “non fare niente di avventato”?»
«Io… mi dispiace. Sul serio».
Trafitto in un punto vitale, a
Jahal rimaneva molto poco da vivere: alzata la testa, guardò i due fratelli
come se volesse incenerirli.
«Come… come è potuto succedere? Io…
battuto… da un moccioso…»
«È finita.» disse Altair «Le tue
ambizioni, come te, sono alla fine.»
«No. No. Non può finire così. Io…
io non posso scomparire…».
Poi, la sua espressione di rabbia
si trasformò in una sadica risata, mescolata ad rantolo di agonia.
«Ma certo. È naturale. Avrei dovuto
farlo fin dall’inizio.» quindi, girato lo guardo, si volse verso quanto restava
del suo prezioso tesoro «Parola di Allah! Esaudisci il mio ultimo desiderio!
Distruggi! Distruggi tutto!».
Immediatamente il monile si
circondò di nuovo della sua aura azzurra, fasci di luce presero a schizzare in
tutte le direzione e il terreno cominciò a tremare con forza sempre maggiore.
«Dannato pazzoide!» esclamò Altair
«Se non posso essere ricordato da
questo mondo, allora questo mondo non ha motivo di esistere! Distruggi questo
mondo, e questi sciocchi esseri umani!».
Quelle furono le sue ultime parole,
e fu così che, con lo sguardo segnato dalla follia e la bocca spalancata in una
sorta di malvagio sorriso, Jahal Ali Falahda, califfo di Baghdad, morì.
La scossa si fece rapidamente
sempre più forte, e le colonne tutto intorno presero a crollare una dopo
l’altra.
«Dobbiamo andarcene di qui, alla
svelta!» disse Altair.
No!
Non poteva! Non poteva permettere
che
«Kahled, che stai facendo!» gridò
Altair vedendo il fratello correre verso il monile, una corsa ostacolata dalle
raffiche di vento glaciale generate che gli soffiavano contro.
Subito lo rincorse, e quando vide
che una colonna stava crollandogli proprio addosso non ebbe esitazioni.
«Attento!» esclamò gettandosi su di
lui e buttandolo lontano.
Kahled rotolò più volte, e quando
risollevò lo sguardo il suo fu vero terrore.
«Fratello!».
Pur essendo riuscito a salvarlo dal
crollo Altair non era riuscito a spostarsi in tempo, e ora giaceva semisvenuto
con la colonna crollata a schiacciargli le gambe. Gli corse incontro, cercando
di aiutarlo: era ancora cosciente, ma appena cercò di muoversi dovette
stringere i denti per non gridare.
«Fratello…»
«Stai… stai bene?»
«Aspetta, ora ti libero!»
«È… è inutile. Sono rotte».
Invano, forse credendo di avere
ancora dentro di sé una parte di quel potere, Kahled cercò con tutte le sue
forze di sollevare la colonna, ma mai come in quel momento fu costretto a
confrontarsi con la propria umanità.
«Lascia perdere.» disse il fratello
quando lui, affranto e sfinito, cadde in ginocchio «Vattene. Mettiti in salvo.»
«Che cosa!?»
«Devi farlo Kahled. Almeno tu devi
riuscire a tornare. Racconta quello che hai visto ai nostri fratelli. Che non
tentino mai più di giocare con poteri simili, e che fermino tutti coloro che
tenteranno di farlo.»
«Non posso, fratello! Non posso
abbandonarti! Non puoi chiedermi questo!»
«Vai!» urlò con forza Altair, e
afferrato il fratello lo spinse con forza oltre il parapetto, certo che si
sarebbe salvato, giusto in tempo per evitare che l’ultimo ricordo che Kahled
avesse avuto di lui fosse quello di un Assassino in lacrime.
Kahled riuscì effettivamente ad
evitare di precipitare al suolo conficcando la spada in uno dei tanti stendardi
di tessuto rosso che pendevano all’esterno e usandolo per attutire quasi
completamente la propria caduta, ma quando era circa a metà strada un fascio di
luce squarciò il muro proprio di fronte a lui, scaraventandolo oltre il muro di
cinta e direttamente sul tetto di uno dei palazzi che si trovavano a ridosso
del palazzo.
Ebbe a malapena il tempo di alzarsi
e di alzare lo sguardo, e subito dopo la parte alta della torre esplose con
forza inaudita, spargendo macerie per tutta Baghdad e illuminando la città di
una luce azzurra più forte del sole.
No! No!
Anche quello no! Che cosa aveva
fatto!
Prima Mira, ora Altair! Aveva ucciso
con le sue mani le due persone a cui teneva di più!
Che razza di uomo era diventato?
Aveva dato importanza ad un oggetto diabolico, al maledetto frutto della mente
perversa di una qualche divinità malvagia, sempre se di una divinità si
trattava, e per questo suo fratello era morto.
Quel potere lo aveva davvero
consumato? Allora Jahal aveva ragione!
Anche lui aveva finito per
soccombere di fronte al miraggio di un tale potere. In quell’istante di follia
aveva desiderato di possedere quel potere solo per sé, e per questa sua follia
Altair aveva pagato con la vita.
Perché? Perché era stato così
cieco?
Rabbia, dolore, disperazione. Tutti
questi sentimenti si agitavano dentro di lui come un mare in tempesta, resi
ancor più amari dalla consapevolezza di essere stato lui l’artefice di tutto
quel dolore.
Caduto in ginocchio, di nuovo urlò,
urlò con tutta la sua voce, gridando il proprio odio verso quegli dèi
vigliacchi dalla mentalità malata che avevano creato un mondo in cui gli uomini
erano destinati a provare dolore e sofferenza per poi andare inesorabilmente
incontro alla morte.
Di un Dio del genere l’umanità che
poteva mai farsene?