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Autore: Carlos Olivera    30/11/2009    1 recensioni
Cosa può spingere un uomo a rinnegare tutto ciò che ha sempre creduto, abbandonare i precetti che hanno governato la sua esistenza e rendersi partecipe di crimini innominabili?
Dolore, rabbia, frustrazione, odio, invidia. Tutto ciò può condurre all'abisso del male, e una volta che vi si è entrati la caduta è inesorabile.
Anno 1124
Due giovani assassini vengono incaricati dal loro maestro ormai morente di compiere un'ultima missione per le affollate strade di Baghdad, un paradiso di cultura e di conoscenza su cui alberga però un'ombra minacciosa. Nessuno sarà risparmiato, e l'unica cosa che attende loro, come molti altri, è il dolore, il dolore in tutte le sue più crudeli e terribili forme.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Kahled si svegliò di soprassalto, la fronte imperlata di sudore, il respiro affannoso come dopo una lunga corsa e lo sguardo spento.

            Gli ci vollero parecchi secondi per riuscire a mettere bene a fuoco, e appena fu in grado di vedere con una certa chiarezza la prima cosa di cui si avvide era di avere l’occhio destro bendato con delle garze, ma dopo il colpo che aveva subito la cecità era il minimo che si dovesse aspettare.

            L’ambiente era quello di una casa povera, un seminterrato, a giudicare dalle finestre strette e poste a ridosso del tetto, con un tavolino, uno sgabello e il letto sul quale era disteso a contendersi lo spazio con tavole di legno, attrezzi e ogni altro ciarpame.

            Gli faceva male dappertutto, aveva vari altri bendaggi disseminati su tutto il corpo e la barba decisamente più lunga del normale, segno che dovevano essere passati parecchi giorni dall’ultima volta che si era rasato.

            Era da poco passato mezzogiorno, si capiva dalla luce fortissima che entrava dagli spioncini, e a sentire l’insistente vociare dei muezzin doveva essere proprio l’ora della preghiera del pomeriggio.

            Stava cercando di riprendersi completamente quando la porta si aprì ed entrò suo fratello con in mano un fagotto di tela contenente, dal profumo, il necessario per una cena frugale.

            «Kahled.» disse vedendolo seduto sul letto «Ti sei svegliato.»

            «Fra… fratello.»

            «Avevano detto che avresti impiegato del tempo per svegliarti, ma non immaginavo così tanto. Stavo cominciando a preoccuparmi seriamente.»

            «Cosa… che giorno è oggi?»

            «Oggi è il secondo giorno del terzo mese.»

            «Il secondo del terzo mese!? Ma allora…»

            «Hai dormito per quasi venti giorni. Ma con tutte le ferite che ti ritrovavi, il medico reputa già un miracolo che tu sia sopravvissuto.»

            «Dove ci troviamo?»

            «Nello scantinato di un nostro fratello. La casa è disabitata. Dopo quella notte il califfo ha cominciato a setacciare tutti i possibili rifugi, e molti Assassini con le loro famiglie hanno lasciato la città per tornare a Masyaf in attesa che si calmino le acque».

            Ad un certo punto Kahled si ricordò di quello che era successo, e il suo cuore minacciò di fermarsi nel momento in cui l’immagine di Mira che si spegneva dinnanzi a lui gli passò davanti agli occhi. Altair, comprendendo i sentimenti che stava provando, abbassò lo sguardo, mostrandosi triste e addolorato tanto quanto lui. Dopotutto, anche lui era molto legato a Mira, e come il fratello la conosceva fin dai tempi dell’addestramento.

            In una sola notte entrambi avevano perso un maestro ed una cara amica, e la colpa di tutto quel dolore era tutta di un solo uomo. Nonostante ciò, Kahled non riusciva in alcun modo a liberarsi del senso di colpa, che come un pesante macigno seguitava a gravare sul suo cuore e che, probabilmente, non se ne sarebbe mai più andato.

            «Non è stata colpa tua, Kahled.»

            «Io l’ho uccisa…»

            «È Jahal l’unico responsabile di tutto questo. È lui ad avervi messi l’uno contro l’altro.»

            «Io l’ho uccisa!».

            I suoi occhi si riempirono di lacrime, ma a causa di un movimento furioso del braccio nel tentativo di tirare un pugno al muro lo colse un dolore lancinante, che tuttavia servì solo a rendere più forte la sua disperazione.

            Altair lo lasciò in pace, comprendendo a pieno il suo bisogno di sfogarsi.

            «Dov’è ora?» domandò Kahled dopo poco, a denti stretti, come a voler trattenere a stento una incontrollabile furia infernale.

            Altair si morse le labbra, mostrando palesemente il proprio nervosismo.

            «Abbiamo recuperato il suo corpo subito dopo averti salvato. Era qui, in questa casa. Volevo aspettare fino a che ti fossi risvegliato, ma quando il tempo ha cominciato a segnarlo non ho avuto altra scelta che ufficiare il rito del trapasso».

            Di nuovo, Kahled si lasciò andare al pianto, un pianto sommesso e a viso nascosto.

            Non poteva neppure vederla un’ultima volta. Non avrebbe più rivisto il suo viso, carezzato le sue guance, ammirato il disegno dei suoi lunghi capelli neri.

            «Voglio vederla».

            Il fratello minore fece per alzarsi, ma il dolore era troppo forte, così Altair fu costretto a sorreggerlo. Insieme uscirono dal seminterrato e salirono attraverso un’abitazione ormai deserta fino sul tetto: il sole splendeva con tutta la sua forza, e Baghdad risplendeva come una gemma radiosa, un’oasi lussureggiante nel bel mezzo del deserto.

            Al centro, su di un piccolo altare, stava un’urna cinerea piccola e semplice, chiusa con un coperchio di legno sigillato con della cera, e al suo fianco due candele ormai consumate.

            Quello era tutto ciò che restava di Mira, la Tigre d’Oriente, come era scherzosamente soprannominata dagli altri Assassini della città; dalla cenere del mondo era stata generata, e alla cenere sarebbe infine tornata, dopo che i suoi resti mortali fossero stati riportati nel luogo che aveva visto la sua nascita, come imponeva il codice religioso dell’Ordine.

            La morte non era altro che la conclusione naturale della vita terrena, il ritorno alla terra da cui si era stati separati, e, secondo la fede del Buddha, in cui Mira aveva sempre creduto, la prima tappa del passaggio ad una nuova rinascita.

            Ma questo per Kahled non aveva alcuna importanza, e non riusciva ad accettare l’idea di essere stato l’artefice della sua morte.

            Quasi strisciando, e tremante come una foglia, si avvicinò all’urna, prendendola e stringendola con tutte le sue forze, mentre le sue lacrime scendevano inesorabilmente, rigandone la superficie.

            Alzato lo sguardo dopo un pianto che avrebbe spezzato il cuore anche all’uomo più insensibile, vide, in lontananza, il palazzo del califfo, e allora la sua rabbia si fece cento volte più forte. Rimessa l’urna al suo posto, e incurante del dolore, mosse un passo come a voler saltare sul tetto vicino, ma Altair fulmineo gli fu subito addosso, ed afferratolo a stento riuscì a trattenerlo.

            «Lasciami!»

            «Calmati Kahled!»

            «Lo ammazzerò! Ammazzerò quel bastardo, fosse l’ultima cosa che faccio!»

            «Cerca di ragionare, non ti reggi in piedi! Affrontarlo nelle tue condizioni sarebbe un suicidio!»

            «Non mi importa, lo voglio morto!».

            Alla fine Altair fu costretto a mollarli un tremendo diretto allo zigomo per costringerlo a calmarsi.

            «Non capisci?» disse mentre il fratello, stremato e distrutto, si lasciava andare alla disperazione «Se muori anche tu chi vendicherà la morte di Mira!

            Io comprendo benissimo i sentimenti che provi, ma c’è tempo e tempo, e un Assassino che non è neanche in grado di camminare è come un’aquila con le ali spezzate.»

            «Lo… lo so. Però…».

            Vederlo così, in quelle condizioni, fece stare male Altair come mai nella sua vita; impietosito, gli mise una mano sulla spalla, confortandolo come già altre volte aveva fatto; ai tempi dell’addestramento, quando le percosse, la fatica e il dolore erano stati più di una volta sul punto di spingere Kahled a rinunciare.

            «Verrà il momento della vendetta, Kahled. Te lo prometto.»

            «Fratello…» disse lui guardandolo con gli occhi di un leone che, per quanto ferito, non rinuncia all’idea di battersi.

            Altair dovette quasi caricarselo in spalla per riportarlo nel seminterrato e rimetterlo a letto, tanto il corpo gli faceva male da tutte le parti a causa delle ferite.

            «Tieni.» disse poi lanciandogli uno dei due kebab che aveva comprato al mercato «Devi mettere qualcosa sotto ai denti se vuoi tornare presto in forze».

            Mentre stavano mangiando qualcuno bussò alla porta, mettendo i due fratelli sul chi vive; lasciato cadere il proprio panino Altair si appiattì contro l’uscio spada in mano, Kahled invece sfoderò un pugnale, pronto a lanciarlo in caso di pericolo.

            «Sono io.» disse dall’alta parte una voce rassicurante.

            Tirando un sospiro di sollievo Altair rinfodero la spada e aprì leggermente la porta, lasciando entrare un confratello completamente nascosto nella sua veste e nel copricapo che indossava, il quale si limitò a consegnare una lettera prima di scomparire nuovamente.

            Altair la aprì, leggendola, e a guardarlo negl’occhi Kahled capì subito che non erano buone notizie.

            «Che succede?»

            «Jahal è stato convocato dal sultano. Ha ricevuto un elogio e una promozione per l’esecuzione di molti dei nostri fratelli qui a Baghdad. Parte per Isfahan domani mattina.»

            «Che cosa!?»

            «C’era da aspettarselo. Sicuramente gli verrà conferito un incarico di alta fiducia nella corte reale.»

            «Dobbiamo fare qualcosa! Non possiamo permettere che riesca a farla franca!

            Hai una qualche idea di cosa potrebbe fare con la Parola di Allah in una città come Isfahan? Potrebbe asservire al suo volere tutte le più alte cariche dell’impero, o addirittura tutti i suoi abitanti! A quel punto, chi o cosa potrebbe più fermarlo?»

            «Ne sono perfettamente consapevole.»

            «Dobbiamo agire subito! All’istante!».

            Spinto dalla frenesia Kahled fece nuovamente per alzarsi, ma i dolori atroci che ancora lo dilaniavano lo costrinsero a rimettere la testa sul cuscino.

            «Non sfidare i tuoi limiti, fratello.»

            «Ma… dobbiamo fermarlo ora.»

            «Sono d’accordo con te, ma anche se il tempo non ci è amico non possiamo permetterci di lasciarci prendere dalla fretta, né lasciare tutto al caso.

            Al contrario, ora più che mai dobbiamo tenere a mente ciò che è necessario per considerarsi un vero Assassino, e pensare in maniera il più possibile lucida.

            Ora andrò in giro ad investigare, e a parlare con i nostri fratelli ancora in città. Vedrò se riesco in qualche modo a ritardare la partenza del califfo, così avremo il tempo di pianificare con attenzione le nostre prossime mosse.

            In caso contrario, studieremo un modo per colpire prima che arrivi alla capitale. Lungo il viaggio sarà di sicuro più vulnerabile.

            Tu però, promettimi che non farai niente di avventato. Promettimelo».

            Kahled guardò in basso, come un bambino colto in flagrante a commettere una marachella; nonostante tutti i buoni propositi e il suo bruciante desiderio di vendetta era ormai perfettamente consapevole che nelle sue attuali condizioni non avrebbe potuto avere la meglio neppure su un brigante di strada, quindi la raccomandazione di Altair, dettata più che altro da sincera ed ammirevole preoccupazione fraterna, era del tutto inutile.

            «Lo prometto».

            Altair quasi accennò un sorriso di soddisfazione, tirando tra sé e sé un sospiro di sollievo.

            «Tornerò il prima possibile. Tu riposa. Dovrai essere in perfetta forma per quando colpiremo».

            Rimasto solo Kahled si lasciò sprofondare sotto le coperte, piangendo quelle poche lacrime che gli erano rimaste.

            Si sentiva un inetto, un incapace, un fallito: aveva ucciso la donna che amava con le sue stesse mani, aveva permesso che il suo maestro morisse per salvargli la vita e, cosa più grave di tutte, aveva vacillato sulle proprie convinzioni nel momento in cui aveva visto con i suoi occhi gli sterminati poteri della Parola di Allah.

            Infondo, l’uomo in nero che aveva incontrato nel limbo tra la vita e la morte, e che così crudelmente lo aveva giudicato, aveva ragione: in lui c’era un mostro, una bestia selvaggia e sanguinaria, disposta a qualsiasi cosa pur di realizzare il sommo ideale degli Assassini senza però curarsi minimamente dei mezzi con i quali lo perseguiva, né delle vite che per esso sarebbero potute andare perse.

            Ma non l’avrebbe permesso: non avrebbe permesso a quel mostro di uscire. Lui e lui solo era padrone delle sue emozioni, e per nulla al mondo avrebbe tradito i precetti del Credo, quegli stessi precetti che, nel momento di massima oscurità, quando credeva che non valesse più la pena di vivere, gli avevano dato qualcosa di nuovo in cui credere, e una nuova famiglia.

            Quando quell’oggetto blasfemo fosse andato distrutto la tentazione sarebbe scomparsa, e il mostro in lui non avrebbe avuto più alcun mezzo per tentarlo.

            Voleva riportare la pace, ma l’avrebbe fatto secondo il Credo, non secondo i propositi malvagi di quell’essere oscuro, e per nulla al mondo la profezia vaticinatagli prima di fare ritorno nel mondo dei vivi si sarebbe concretizzata: non sarebbe diventato un mostro simile.

            Tuttavia, aggrapparsi con forza ai precetti degli Assassini non serviva a mitigare in lui il desiderio di vendetta: il califfo, quel maledetto tiranno assetato di potere, doveva pagare per ciò che aveva fatto. Mai più si sarebbe arrogato il diritto di giocare con le vite degli altri, di soggiogare la loro mente e costringere le persone a servirlo contro la loro volontà.

            Rialzatosi a fatica, si avvicinò barcollando alla propria veste, appesa al soffitto per mezzo di un gancio, e quasi per caso, mentre vi faceva scorrere la mano sopra, sentì qualcosa all’interno di un risvolto. Appena vide di che si trattava rimase sconvolto, e dentro di lui si scatenò una tremenda tempesta.

            Significava vendere la propria anima, ne era perfettamente consapevole, sempre se ce l’aveva ancora, e un giorno avrebbe dovuto rendere conto di ciò che ora il suo istinto gli diceva di fare.

            Che ne era di tutti quei propositi, di tutte quelle aspirazioni che aveva avuto solo pochi minuti prima?

            Era davvero tutto così privo di significato?

            Però, se era per una buona causa…

            Come diceva sempre Hasan-i Sabbah, a volte il bene nasce dal male. Ma era davvero saggio, e soprattutto giusto, arrivare a tanto?

            Se è vero che a volte il bene nasce dal male, è vero in egual misura che svendere la propria coscienza in quel modo non era esattamente ciò che ci si potrebbe aspettare da un Assassino.

            E poi, per che cosa lo stava facendo? Per la confraternita, per Mira, o solo per sé stesso?

            Voleva credere che in fin dei conti la sua scelta fosse giusta, che stava agendo unicamente nel nome di un nobile ideale, eppure una parte di lui avversava quella scelta, e continuava ad urlargli di non farlo, che una volta intrapreso quel sentiero non avrebbe più avuto modo di tornare indietro.

            Ma era già troppo tardi.

 

Qualche minuto dopo Kahled era tornato al pieno delle forze, e tutte le ferite che fino ad un istante prima devastavano il suo corpo erano completamente scomparse; solo la menomazione all’occhio era rimasta, sottoforma di una pupilla completamente bianca e di un segno obliquo che mai sarebbe dovuto scomparire.

            Sarebbe stato il suo monito: il suo modo di ricordarsi per tutta la vita da dove proveniva, che cosa aveva fatto, e che prima o poi qualcuno, in un giorno anche lontano, sarebbe venuto a presentargli il conto.

            Lentamente, come se fosse stata la prima volta, indossò la propria veste, con le movenze impercettibili e la profusione spirituale tipiche di una preghiera.

            “Io non diventerò un mostro.” disse facendo scattare la lama nascosta “Farò ciò che ritengo giusto, ma non tradirò mai i precetti del Credo. Il Credo è la mia vita. Dio onnipotente. Nelle tue mani ripongo la mia anima. Fa di me ciò che vuoi”.

            Infoderata la spada, uscì all’esterno. Le strade erano affollate di gente, e che se negli ultimi giorni le guardie avevano più volte sollecitato la popolazione a guardarsi da individui sospetti vestiti interamente di bianco nessuno fece caso alla sua presenza, considerandolo unicamente come uno dei tanti volti tra la folla.

            Così era la vita di un Assassino: discreto, distaccato, perennemente anonimo, tranne quando arriva il momento di vibrare il colpo.

            Pensò per un attimo a quando aveva cominciato, a quando il solo camminare tra la gente bastava a fargli venire il batticuore, e aveva paura a fare qualsiasi cosa che potesse anche lontanamente essere considerata fuori dalle righe e potesse farlo smascherare.

            Ora, invece, era davvero una lama tra la folla, un giustiziere silenzioso che aveva il sacro compito di portare la pace e la giustizia ripulendo il mondo dall’oscurità che lo opprimeva, un’oscurità che poteva avere molti nomi: fanatismo, oppressione, crudeltà, avidità.

            Più volte, privando della vita i suoi bersagli, si era interrogato sull’effettiva esistenza di Dio, ma era altresì vero che la fede era una delle poche cose a cui uomini come loro potevano aggrapparsi per riuscire a proseguire la loro incessante camminata attraverso il marciume del mondo, un marciume che stava proprio a loro epurare, affinché tutti gli uomini di buon cuore potessero un giorno godere di una nuova Terra libera dal male e completamente pacificata.

            Prima di uscire aveva rivolto una preghiera a Dio, e questa era la prova che, nonostante tutto, era rimasto padrone del suo cuore, che non aveva dimenticato il Credo, e che mai lo avrebbe fatto.

            Quando giunse in vista del portone del palazzo la rabbia si impadronì nuovamente di lui, spingendolo a desiderare una cosa sola: vendetta. Appartatosi in una zona poco frequentata attese di essere solo per intraprendere la scalata alle mura, ma appena fu sui ballatoi venne inavvertitamente notato da due guardie che facevano il turno di ronda.

            Quelle gli si fecero incontro armi alla mano, ma lui, senza difficoltà, ne trafisse una con un pugnale, l’altra invece, dopo avergli piantato la sua stessa spada nello stomaco, la scaraventò giù dalle mura direttamente in strada, cosa che scatenò inevitabilmente il panico tra i cittadini che stavano transitando in quel momento.

            Liberatosi di quella seccatura, e accertatosi di non avere addosso altri occhi indiscreti, scese nel cortile, rivolgendo quasi subito le sue attenzioni sulla torre che svettava verso l’alto proprio al centro del palazzo; alta più di cento metri e con un raggio di almeno quindici, di forma cilindrica, era una delle grandi meraviglie dell’impero, una costruzione gigantesca, e aveva sulla sommità una sorta di basamento più largo che le dava, da lontano, la forma di un calice.

            Una sensazione gli attraversò il corpo, accompagnata subito dopo da una consapevolezza: era lì che avrebbe trovato il suo nemico.

            Vedendolo avvicinarsi le guardie che sorvegliavano la struttura fecero per fermarlo, ma il ragazzo, sfoderati altri due pugnali, li lanciò contemporaneamente, trafiggendo i poveri malcapitati rispettivamente nella bocca e in mezzo alla fronte, e lasciandoli a terra senza vita.

            Entrato nell’edificio, completamente vuoto all’interno, fatta eccezione per la rampa a chioccia che saliva fino in cima, salì sul montacarichi di servizio, azionando con una leva il meccanismo di contrappesi che lo mise in funzione e salendo così verso l’alto.

            Tanti pensieri attraversarono la sua mente in quel breve viaggio verso il confronto più importante della sua vita: pensava a Mira, a suo fratello, e a cosa avrebbero potuto pensare di lui, ma ormai era troppo tardi per tornare indietro.

            Occorsero una trentina di secondi per arrivare sulla cima della torre, una vasta piazza circolare circondata da un reticolo di alte colonne che sorreggevano un pregiato architrave ad anello, e come i suoi occhi tornarono a scorgere la luce del sole si accorse di essere completamente circondato da un vero esercito di uomini, se così li si poteva chiamare, tutti bene armate e pronte alla battaglia; i loro occhi scintillavano di azzurro, i loro corpi parevano di pietra, e le loro armature ricordavano quelle che Kahled aveva visto indossare a suo tempo da alcuni soldati dei magnifici e in gran parte ancora sconosciuti regni dell’India.

            Non sembrava esservi nulla di umano in loro, e nell’istante in cui si lanciarono all’attacco Kahled mise mano nello stesso tempo alla spada e al pugnale, ingaggiando con lui uno scontro feroce.

            Era come stare nuovamente sognando; non riusciva a capire che cosa gli stesse succedendo, ma ciò che provava era impossibile da descrivere: era… surreale.

            Quel potere sconosciuto gli scorreva nelle vene come un fiume di lava, e sentiva di poter fare qualunque cosa, se solo lo avesse voluto. In pochi minuti ebbe ragione di tutti gli assalitori, per quanto forti, veloci e pericolosi, e come l’ultimo si accasciò a terra trafitto al torace lui e tutti gli altri scomparvero nel nulla consumati da delle fiamme azzurre che di loro non lasciarono neanche la polvere.

            Kahled si guardò un momento intorno, poi nel silenzio riecheggiò una malefica risata.

            «Vieni fuori!» gridò al vento «Chiudiamo questa storia!».

            Davanti a lui si materializzò una vampata di fuoco celeste da cui uscì Jahal, sprezzante e sicuro di sé come non lo era mai stato; indossava una ricca veste blu oltremare sormontata da una leggera armatura d’argento, decorata con alcuni altorilievi. In una mano teneva una pregiata scimitarra con l’impugnatura apparentemente d’oro massiccio, nell’altra la Parola di Allah, che brillava di quel suo bagliore sinistro.

            «Dunque sei tornato.»

            «Non ho la coda di paglia.»

            «E neppure il buon senso, a quanto pare.»

            «Qual è il tuo scopo? Perché fai tutto questo?»

            «Non giudicarmi, Assassino. Ti assicuro che ho le mie buone ragioni.»

            «E quali sarebbero? Schiavizzare gli esseri umani e costringerli a servirti?»

            «È ciò che credi tu, cieco come sei. Io non sono affatto come tu mi dipingi.»

            «Che vuoi dire?»

            «Oro. Potere. Donne. Tutte queste cose le ho già, e se solo lo volessi potrei averne ancora, e senza bisogno di questo. Il mondo è così marcio e corrotto che sono proprio gli uomini come me, quelli che la gente reputa malvagi, quelli che riescono ad arrivare più in alto.

            Voi Assassini, che vi illudete di poter cambiare questa realtà di fatto, non siete altro che degli ingenui.»

            «Se non è l’ambizione a guidarti, allora che cosa?».

            Jahal a quella domanda smise di camminare lentamente avanti e indietro, come aveva preso a fare da che era arrivato, strinse più forte la Parola di Allah e chiuse gli occhi.

            «Questo oggetto. Questa Parola di Allah… è dotata di un grande potere. Un potere che tu non puoi neanche immaginare. Credevo sul serio che con il suo aiuto sarei arrivato a dominare il mondo intero.

            Ma poi, nel momento in cui mi sono guardato attorno, e ho visto che cosa mi circondava, ho capito che cosa volevo davvero.

            Io voglio… il ricordo.»

            «Il ricordo!?»

            «Non capisci? Noi siamo tutti mortali. Prima o dopo tutti moriamo. Sta nell’ordine delle cose. E quando moriamo, inevitabilmente, scompariamo.

            La morte cancella tutto, senza distinzioni, e nel momento in cui anche il ricordo di ciò che sei stato si spegne, di fatto è come se non fossi mai esistito.»

            «È davvero questo a farti paura? Essere dimenticato?»

            «Lo trovi così strano, Assassino?» gridò Jahal quasi piangendo, e con la voce rotta dall’emozione «Io l’ho visto! Ho visto cosa ci attende dall’altra parte!

            Cori angelici, il paradiso terrestre, la beatitudine eterna! Tutte stupidaggini!

            E se non possiamo sperare almeno nel ricordo di chi verrà dopo di noi, che cosa ci resta!».

            Dopo quello sfogo di disperazione il califfo parve calmarsi, e fece un paio di respiri profondi per riguadagnare l’autocontrollo.

            «Io…» disse tenendo lo sguardo a terra «Dominerò ogni cosa. Conquisterò tutto ciò che può essere conquistato, avrò tutti le genti della Terra ai miei piedi, e concentrerò nelle mie mani quanto più potere possibile.

            Lascerò un marchio indelebile nella storia e nel destino di questo mondo, così profondo e radicato che mai potrà essere dimenticato, neppure di fronte all’eternità. Tramite queste mie gesta il mio ricordo sopravvivrà attraverso il tempo, ed io con lui. Allora, e solo allora, potrò davvero esistere.»

            «Sei patetico.» rispose secco Kahled

            «Che cosa!?» ringhiò Jahal rialzando gli occhi

            «Come altro ti si potrebbe definire? La cosa che desideri più di ogni altra potrai ottenerla solo dopo la morte. Quella stessa morte che ti terrorizza tanto.»

«Allora dimmi, visto che sembri tanto sicuro di te, abbastanza da criticare i miei propositi. Per che cosa vivi tu?»

«Io vivo per portare la pace. Io voglio creare un mondo dove non ci sia sofferenza, dove nessuno debba conoscere il dolore che ho dovuto subire io, e dove gli uomini vivano l’uno accanto all’altro senza farsi alcun tipo di guerra.»

«E questa forse, non è la tua di ambizione?».

Kahled rimase un attimo spiazzato, non sapendo cosa rispondere.

«Non sei certo nella posizione per potermi fare la predica, Assassino.»

«Se essere ricordato è tutto ciò a cui aspiri, non è necessario fare tanto. Basta cambiare anche di poco la vita di qualcuno, avere avuto per lui un significato particolare, e avrai la certezza di avere qualcuno che si ricorderà di te.»

            «Stolto. A me non importa niente di vacue memorie. Io voglio essere ricordato per tutta l’eternità.»

            «Beh, in questo mi dispiace distruggere il tuo castello di illusioni, ma sappi questo. Niente, assolutamente niente, dura per sempre.

Mettere tutto sé stessi in ogni cosa che si fa, e impegnarsi costantemente nella costruzione della propria vita nel poco tempo che abbiamo. Questo significa esistere.»

«Che discorso commovente.» rispose Jahal con uno strano sorriso, mentre attorno a lui andava formandosi un alone azzurro che diventava sempre più grande «Se sei davvero convinto di ciò che dici, allora mostrami questo “tutto sé stessi”. E le tue emozioni, e i tuoi sentimenti, e le tue memorie.

Così che possa spazzarli via!».

I due corsero l’uno contro l’altro, e come le loro spade cozzarono si produsse un baccano assordante, oltre ad una vera pioggia di scintille. Jahal dimostrava forza, velocità e destrezza di molto superiori a quelle di un comune essere umano, ma nonostante ciò Kahled riusciva comunque a restargli dietro.

Purtroppo, più l’aura azzurra che lo circondava aumentava di intensità, più le sue capacità aumentavano di efficacia, e ad un certo punto il giovane Assassino cominciò a sentire il peso della differenza di livello. Venne ferito più e più volte, fortunatamente sempre in parti non vitali e solo in modo leggero, ma era un chiaro segnale del fatto che lo scontro non poteva andare avanti per molto tempo.

Una sola cosa poteva salvarlo, e permettergli se non altro di poter combattere ad armi pari, ma farlo voleva dire davvero gettare via tutte le sue convinzioni, e vedendo l’espressione sul volto di Jahal, che di secondo in secondo si faceva sempre più sadica e malvagia, gli veniva da comandarsi se anche lui, se avesse avuto quel potere tra le mani, sarebbe diventato così, preoccupato unicamente di perseguire i propri obiettivi.

«Vedo qualcosa nel tuo sguardo, ragazzo.» disse Jahal vedendo l’espressione di Kahled dinnanzi ai poteri della Parola «Vedo l’ambizione, e l’ingordigia. Questo potere tenta anche te, non è vero?»

«Ti sbagli!»

«Come darti torto. Ma è inevitabile. Quando si vede con i propri occhi qualcosa di simile, si finisce per rimanerne consumati. L’ho provato sulla tua stessa pelle.»

«Io non sono come te!»

«Ah, ma te lo leggo negli occhi. La prospettiva del potere è qualcosa a cui nessuno può essere immune. Nemmeno tu.»

«Te l’ho detto, a me il potere non interessa!»

«Ho i miei dubbi in proposito. Comunque, non ti angustiare. Penserò io a liberarti da questo fardello, e lo farò proprio ora!».

Ad un certo punto il califfo, allontanatosi, puntò la Parola di Allah contro di lui, e quasi subito dal nulla si generò una pira azzurra che bruciava come l’inferno; Kahled, colto alla sprovvista, ebbe a malapena il tempo di spostarsi per evitare di finire carbonizzato, ma quei pochi secondi con la guardia abbassata furono sufficienti a Jahal per arrivargli addosso e piantargli con forza la scimitarra nel torace.

Il ragazzo si piegò in avanti, gemendo per il dolore, e come il nemico ritirò la lama barcollò all’indietro, dando l’idea di essere sul punto di cadere, ma poi, sotto lo sguardo sbigottito di Jahal, piantate bene le gambe a terra rialzò lo sguardo, lasciando intravedere sotto il cappuccio uno sguardo sprezzante e ironico.

Il sangue che sgorgava dalla ferita ritornò magicamente all’interno, e solo allora il califfo si accorse che, arrotolato attorno al bracciale sinistro, Kahled aveva il frammento della Parola che a suo tempo aveva consegnato a Mira per assicurarsi il successo della sua missione, e che quella buona a nulla era riuscita incredibilmente a sprecare.

«Bastardo.» ringhiò, e subito dopo lo scontro riprese.

 

Nello stesso momento Altair, dopo una lunga indagine, aveva raccolto informazioni a sufficienza per studiare un buon piano d’azione che avrebbe permesso di colpire Jahal in un momento preciso del suo viaggio verso Isfahan, ma rientrato nella stanza dove aveva lasciato il fratello trovò solo il letto fatto e una candida piuma bianca appoggiata sulle coperte.

            La raccolse, stringendola fino a distruggerla.

            «Razza di… pazzo incosciente.» disse sotto i denti, e fatta scorta di tutti i pugnali che poteva portarsi dietro raggiunse immediatamente il tetto.

            Come vide in lontananza la cima della torre principale del palazzo solcata da continui bagliori azzurri capì subito che lo scontro era già cominciato, ma fatte solo poche centinaia di metri fra i tetti trovò nuovamente Koromaru a sbarrargli la strada.

            «Così ci rivediamo, alla fine.» disse l’Ombra

            «Se ci fossimo incontrati in un’altra occasione avrei accettato di misurarmi di nuovo con te senza esitazioni. Ma ora sono di fretta, quindi non ho tempo da perdere.»

            «Ne sono consapevole, ma purtroppo non posso permetterti di procedere oltre. Ordini del califfo.»

            «Perché lo segui, Koromaru? Tu sai essere migliore. Tu non sei come lui.»

            «Te l’ho detto. È un debito d’onore. Quando l’avrò saldato sarò libero, ma fino a quel momento la sua parola per me è legge.»

            «È un peccato che il tuo talento sia sprecato al servizio di un uomo simile. Quante cose buone potresti fare sfruttandolo nel modo giusto.»

            «Purtroppo, in questo mondo, la bontà è un concetto superato.»

            «Non è detto. E sta ad uomini come noi fare in modo che le cose possano cambiare.»

            «Il tuo è un nobile proposito, Assassino. Lo condivido, sinceramente. Sfortunatamente, per il momento, non posso seguirti.»

            «E non puoi nemmeno lasciarmi passare.»

            «Sembra che, dopotutto, sistemeremo i nostri conti in sospeso una volta per sempre.»

            «Credo anch’io.»

            «Mi sarebbe piaciuto combattere al tuo fianco, Assassino. Dico davvero».

            Quasi contemporaneamente i due avversari sfoderarono i pugnali, ma piuttosto che cercare lo scontro diretto entrambi presero a muoversi in tutte le direzioni, guardandosi dagli improvvisi movimenti del nemico e cercando il confronto diretto solo di tanto in tanto, ma per non più di un istante.

            Koromaru aveva ancora quell’espressione sicura di sé che aveva ostentato anche nel corso della prima battaglia, ma stavolta Altair, che negli ultimi venti giorni si era allenato furiosamente in vista di un nuovo scontro con l’Ombra, si fece trovare pronto a contrastare tutti i suoi attacchi, riuscendo oltretutto a rispondere in maniera egregia.

            «Sei migliorato. Questo devo riconoscerlo.»

            «Apprezzo il complimento.»

            «Ma non illuderti. Dovrà passare del tempo prima che tu riesca ad eguagliarmi.

            Ricordi quello che ti ho detto? Tu rispetti e comprendi, io rispetto e padroneggio».

            Detto questo l’ombra cinse le mani sul petto, e come l’ultima volta salmodiò per un po’ prima di moltiplicarsi letteralmente in decine di copie perfettamente identiche che presero a saltare in tutte le direzioni. Contrariamente da ciò che aveva fatto l’ultima volta, stavolta Altair rimase perfettamente immobile, ad occhi chiusi e muscoli rilassati, come consapevole di non avere alcun potere sul suo nemico, che al contrario sembrava completamente padrone del campo.

            «È finita, Assassino. Pregherò per te».

            Un nugolo di stellette piovve dal cielo, ma solo quando furono ad un batter di ciglia da lui Altair si decise ad aprire gli occhi; con scioltezza e precisione, impensabili persino per un Assassino del suo rango, senza mai muoversi dalla sua posizione le respinse tutte, o meglio, solo quelle che esistevano davvero. Infatti alcune di esse, che lui non degnava della minima attenzione, invece di colpirlo gli passavano attraverso, per poi scomparire inghiottite dal vento.

            «Che cosa!?» esclamò Koromaru

            «Ti vedo!» gridò Altair lanciando un pugnale.

            La lama centrò in pieno una delle copie, che trafitta alla spalla precipitò sul tetto, e nello spazio di un istante tutte le altre svanirono come fumo lasciando solo il vero Koromaru, che stupito e sconcertato come non mai cercò per quanto possibile di rimettersi in piedi.

            «Co… com’è possibile…»

            «Mi dispiace, ma ho capito il tuo trucco.»

            «Il… il mio trucco!?»

            «All’inizio credevo davvero che le abilità di cui eri dotato fossero frutto di qualche potere misterioso, e che tu fossi realmente in grado di dominare pienamente i segreti del mondo per compiere imprese impensabili per chiunque.

            Ma poi mi sono conto di una cosa, si tratta solo di autosuggestione.»

            «A… autosuggestione?»

            «Tu usi uno stile appariscente, fatto per impressionare, e fai uso di qualcosa che in battaglia può ferire quanto le armi: la paura.

            Sfoggiando abilità apparentemente inumane confondi e disorienti i tuoi nemici, e mostrando doti che potrebbero essere a buon diritto considerate frutto di poteri magici o comunque sovrannaturali fai credere loro di stare affrontando qualcosa di più di un semplice essere umano, una prospettiva che lascerebbe atterrito chiunque, me compreso.

            Ma poi, in definitiva, non si tratta affatto di magia, anche se indubbiamente le tue potenzialità non sono certamente alla portata di tutti.

            Prendiamo la tua presunta abilità di moltiplicarti. Tutto quello che fai è muoverti continuamente e a gran velocità da una parte all’altra tutto intorno al tuo avversario, rimanendo nello stesso posto per non più di mezzo secondo. In questo modo, dai l’illusione di aver creato tante copie di te stesso.

            E vale lo stesso discorso per i tuoi pugnali a forma di stella: l’altra volta credevo che fossero tutte reali, ma la loro velocità e il fatto di lanciarle continuamente e da posti sempre diversi fanno sì che anch’esse sembrino molte di più di quante siano in realtà.

            Per quanto riguarda l’abilità di sputare fuoco, ammetto di non averla ancora capita del tutto, ma sospetto che tu possieda una qualche sostanza infiammabile, forse in bocca o sotto quel bavero, chiusa in piccoli involucri, a cui dai fuoco servendoti del tessuto particolare di cui sembra fatto il tuo abito. Questo stesso tessuto sembra anche in grado di proteggerti dalle alte temperature, e questo, unito alla tua velocità, ti permette di muoverti liberamente tra le fiamme senza subire il minimo danno».

            Koromaru restò a lungo con gli occhi sbarrati, poi parve quasi compiaciuto.

            «Avrei dovuto immaginarlo.» disse togliendosi il pugnale dalla spalla e gettandolo a terra «Voi Assassini siete troppo furbi. Monaci e guerrieri hanno sprecato la loro vita a tentare di svelare i segreti della nostra arte, tu ci sei riuscito dopo averla vista una sola volta».

            A quel punto Altair si avvicinò al suo nemico, avvicinandogli la spada alla gola.

            «Avanti.» disse Koromaru senza apparenti rimpianti «Uccidimi».

            Invece, dopo poco, vide la spada allontanarsi da lui, e il suo avversario che lo guardava in modo enigmatico.

            «Che significa?»

            «Una vita, una vita. Ora siamo pari. L’ultima volta non mi hai ucciso benché ne avessi la possibilità. Dicevi che avevo del potenziale, e che dovevo imparare a sfruttarlo. Ora sono io a risparmiarti, e per lo stesso motivo.

            Verrà il momento in cui sia voi che noi saremo chiamati a garantire il futuro del genere umano, e le tue conoscenze sono troppo preziose per andare perdute.

            Torna dalla tua gente a testa alta, perché hai dimostrato di essere un vero guerriero».

            L’Ombra sgranò nuovamente gli occhi, poi rivolse ad Altair uno sguardo, ricambiato in ugual modo, di ammirazione e profondo rispetto.

            «Per molto tempo ho creduto che non vi fosse più nulla per cui dover continuare a esistere. Servire Jahal mi sembrava l’unica cosa che potessi fare per dire di essere ancora in vita.

            Quando ho incontrato te, però, per la prima volta dopo chissà quanti anni mi sono ricordato cosa volesse dire realmente essere vivi, e questo per me è ben più prezioso di qualsiasi debito di vita.

            Ti sei battuto bene, Assassino. Hai il mio rispetto.»

            «E tu il mio.»

            «Non ho mai saputo il tuo nome.»

            «Altair.»

            «Allora, Altair, possa un giorno il cielo farci rincontrare. Ora va’. Va’ a salvare tuo fratello. La sua vita vale ben più della mia».

            Di colpo Koromaru fu circondato da una nuvola di fuoco, e quando le fiamme si spensero di lui non vi era più traccia. Altair si guardò un momento intorno, quasi a volerlo individuare per rivolgergli un ultimo saluto, poi riprese la via del palazzo.

 

Sulla torre, lo scontro tra Kahled e Jahal era giunto inevitabilmente ad una fase di stallo.

            Potendo contare entrambi sui poteri della Parola di Allah erano di fatto immortali, e per quanto si ferissero reciprocamente in modo anche grave le ferite venivano sempre risanate, e la battaglia proseguiva. La sola cosa che li differenziava era che Kahled, disponendo solo di una parte irrisoria del manufatto, non era in grado di sfoggiare abilità di cui invece il suo avversario faceva largo uso, come generare diverse copie di sé per confonderlo o far emergere dal nulla quelle fiamme azzurre.

            Nessuno dei due dava segno di volersi arrendere, e quando Kahled, con un misto di sarcasmo ed ironia, aveva fatto notare che andando avanti di quel passo il vincitore del duello sarebbe stato stabilito solo dal giorno del giudizio, Jahal aveva risposto con un attacco furioso, urlando che prima o poi quel frammento in suo possesso avrebbe finito per esaurire il suo potere, lasciandolo esposto e vulnerabile.

            Tuttavia, una cosa fu chiara a Kahled fin da subito: più il califfo faceva uso della Parola più la sua sanità mentale sembrava venire meno, completamente offuscata dalla sete di potere che come un morbo si stava impadronendo di lui. Come se non bastasse, anche lui stava cominciando ad avvertire la stessa sensazione, e in più di un’occasione si era lasciato andare a gesti di cui mai si sarebbe detto capace di fare, come infierire più e più volte su un uomo a terra o attaccare in modo furioso consapevole del fatto di avere l’immortalità a proteggerlo.

            Non poteva negare che quel fiume di energia che gli scorreva dentro gli dava una sensazione incredibile, ma doveva fare in fretta a chiudere la questione, o avrebbe finito per impazzire anche lui.

            «Ora basta!» gridò ad un certo punto il califfo, completamente fuori di sé «Mi sono stufato di giocare, Assassino!».

            Intuendo che il tipo aveva in mente qualcosa di molto pericolo Kahled tentò di andargli contro, ma Jahal sollevò la Parola e lo fulminò con un raggio di luce tanto potente da scagliarlo in aria e quasi oltre il parapetto; ovviamente non morì, ma il dolore era tale da fargli pensare per un attimo di non potersi più rialzare.

            «Nessuno può più fermarmi adesso!».

            Vedendo Jahal alzare alta sopra di sé la Parola e circondarsi di un bagliore azzurro che brillava più del sole Kahled ebbe una bruttissima sensazione, e cercò invano di spingere il suo nemico a non fare una cosa tanto folle.

            «Jahal! Non farlo!»

«Ubbidisci al mio volere, Parola di Allah! Donami tutta la forza del creato! Rendimi onnipotente!»

«Fermati! Quel potere ti distruggerà!»

«Se gli esseri umani non hanno un dio, sarò io il loro Dio!».

La luce azzurra divenne in breve una fiamma di grandezza inaudita, e ai vaneggiamenti di Jahal si sostituirono all’improvviso le sue strazianti urla di dolore. Tutto il suo corpo, sollevatosi in aria, cominciò ad essere attraversato da striature luminose, una luce infernale usciva dagli occhi, poi si generò una vera esplosione di luce, che costrinse Kahled a chiudere gli occhi.

Quando il giovane assassino, rialzatosi nel frattempo, fu in grado di guardare cosa era accaduto, ciò che vide lo atterrì: dinnanzi a lui non un uomo, ma un enorme, gigantesco mostro alto più di dieci metri, simile ad un centauro. La pelle era nera come il carbone, solcata da quelle striature brillanti, le mani e le quattro zampe, tutte armate di cinque affilatissimi artigli ricurvi, erano quelle di un demone, e la testa era di forma triangolare, con una bocca attraversata da due file di denti da squalo; gli occhi, piuttosto piccoli per la sua mole, scintillavano di azzurro. La Parola di Allah conficcata nel mezzo del petto, e brillava come mai aveva fatto.

Non sembrava esservi più nulla di umano in quell’essere spaventoso, e l’assordante ruggito che lanciò una volta terminata la sua trasformazione era la chiara dimostrazione che anche il raziocinio era ormai completamente scomparso.

Eppure, ciò nonostante, Kahled non si tirò indietro.

«Non posso fermarmi ora!» urlò facendo mulinare la spada.

Il mostro, forse irritato dal trovarsi di fronte qualcuno che lo sfidava con tanta intraprendenza, ringhiò ancora più forte, poi, alzato il bracciò, colpì con tale forza da provocare un grosso squarcio nel pavimento e il crollo di alcune colonne.

Kahled si trovò quasi subito nella condizione di non poter rispondere, preso com’era a schivare gli attacchi bestiali e micidiali della creatura, che colpiva senza un’apparente logica, ma bensì obbedendo unicamente all’istinto. Tuttavia, nel frattempo, gli veniva anche da porsi una domanda: come si poteva definire divino, o comunque frutto di una conoscenza superiore, un oggetto che permetteva la creazione di un simile abominio?

Come se non bastasse, di quando in quando dalla bocca eruttava nugoli di fiamme incandescenti, e agitando le braccia creava vere e proprie bombe d’aria che avevano l’effetto di produrre crepe un po’ dappertutto, incentivando i crolli.

Kahled cercò in ogni modo di reagire, riuscendo perfino a correre lungo una delle braccia del mostro per raggiungerne il collo e piantargli la spada nella clavicola, ma per quanto riuscisse a danneggiarlo le ferite finivano sempre per risanarsi, senza contare poi che la sua pelle corazzata era incredibilmente dura, e perciò molto difficile da trapassare.

All’improvviso un pezzo di costone franò proprio davanti al ragazzo, impegnato a fuggire all’ennesimo assalto, e giratosi vide una di quelle mani artigliate piombargli contro; istintivamente mise le mani davanti a sé, e all’ultimo il suo frammento della Parola brillò come non aveva mai fatto, creando una sorta di barriera che lo salvò miracolosamente da morte sicura.

Purtroppo per lui la forza infusa dal mostro nel suo attacco risultò eccessiva, e alla fine il frammento andò come in sovraccarico, esplodendo e producendo una piccola onda d’urto che scagliò Kahled oltre le macerie che per poco non lo avevano investito.

Una parte della polvere in cui il monile si era trasformato, lucida e iridescente come polvere d’oro, volò sulla mano della creatura, risultando per lei nociva e corrosiva come un potente acido. Kahled se ne avvide, e capì che era l’unico modo con cui poteva sperare di averla vinta.

Rialzatosi, anche se a fatica, con un balzo scavalcò le macerie, e rotolandosi a terra per sfuggire ad una manata riuscì a ricoprire di polvere la lama della sua spada, che istantaneamente prese a bruciare circondata da quella luce azzurra.

Il mostro, come spaventato, fece qualche passo indietro, ma poi tornò alla carica più inferocito di prima. Kahled evitò parecchi colpi, riuscendo anche a ferire l’assalitore due o tre volte, e più passava il tempo più sentiva vivido e forte il potere proveniente dalle polveri della Parola di Allah: forse era abominevole, forse poteva essere usato per scopi sbagliati, ma quello era davvero il potere in grado di cambiare le cose.

Alla fine, spossata dai continui assalti, la creatura commise l’imprudenza di lasciarsi scoperta, e immediatamente Kahled ne approfittò; spiccato un salto, e urlando con tutta la forza che aveva, gli volò letteralmente contro, piantando la spada proprio nel centro del petto.

La Parola di Allah venne trafitta in pieno, e come il ragazzo ritirò l’arma, saltando all’indietro per portarsi a distanza di sicurezza, il mostro prese a dimenarsi e ad agitarsi in modo furioso; dalle scanalature del suo corpo prese ad uscire, fortissima la luce azzurra, e nel giro di pochi secondi esplose letteralmente dall’interno, producendo una seconda, fortissima esplosione di luce.

Stremato e senza forze, Kahled cadde in ginocchio quasi svenuto, mentre la polvere sulla spada, avendo forse consumato tutto il suo potere, diventava niente più di semplice cenere, e dai resti della creatura uscì Jahal, ritornato alle sue vere sembianze; anche lui era visibilmente esausto, e anche se sembrava tornato padrone almeno di parte del proprio raziocinio la rabbia che provava gliela si leggeva in viso: era furioso, furioso come non mai. Poco distante, la Parola di Allah, completamente ricoperta di crepe, e sul punto, all’apparenza, di sbriciolarsi in mille pezzi.

«Tu… dannato Assassino.» disse alzandosi; stava in piedi per miracolo, e probabilmente era proprio la rabbia la sola cosa a permettergli di non crollare svenuto «Hai… hai rovinato tutto».

Barcollando, si avvicinò a Kahled, che al contrario aveva a malapena la forza di sollevarsi sulle braccia, e quando gli fu abbastanza vicino sollevò la spada per infliggergli il colpo di grazia.

«Muori!».

All’improvviso, proprio quando era sul punto di colpire, Altair, comparso dal nulla, gli saltò addosso alle spalle, buttandolo a terra e trapassandolo alla schiena con la sua lama nascosta.

«Fratello!» esclamò Kahled.

Altair corse da lui, aiutandolo a rialzarsi, ma pur essendo visibilmente sollevato nel saperlo vivo non mancò di rivolgergli un’occhiataccia degna di un padre che ha colto il figlio a giocare con la sua spada.

«Che cosa non hai capito della frase “non fare niente di avventato”?»

«Io… mi dispiace. Sul serio».

Trafitto in un punto vitale, a Jahal rimaneva molto poco da vivere: alzata la testa, guardò i due fratelli come se volesse incenerirli.

«Come… come è potuto succedere? Io… battuto… da un moccioso…»

«È finita.» disse Altair «Le tue ambizioni, come te, sono alla fine.»

«No. No. Non può finire così. Io… io non posso scomparire…».

Poi, la sua espressione di rabbia si trasformò in una sadica risata, mescolata ad rantolo di agonia.

«Ma certo. È naturale. Avrei dovuto farlo fin dall’inizio.» quindi, girato lo guardo, si volse verso quanto restava del suo prezioso tesoro «Parola di Allah! Esaudisci il mio ultimo desiderio! Distruggi! Distruggi tutto!».

Immediatamente il monile si circondò di nuovo della sua aura azzurra, fasci di luce presero a schizzare in tutte le direzione e il terreno cominciò a tremare con forza sempre maggiore.

«Dannato pazzoide!» esclamò Altair

«Se non posso essere ricordato da questo mondo, allora questo mondo non ha motivo di esistere! Distruggi questo mondo, e questi sciocchi esseri umani!».

Quelle furono le sue ultime parole, e fu così che, con lo sguardo segnato dalla follia e la bocca spalancata in una sorta di malvagio sorriso, Jahal Ali Falahda, califfo di Baghdad, morì.

La scossa si fece rapidamente sempre più forte, e le colonne tutto intorno presero a crollare una dopo l’altra.

«Dobbiamo andarcene di qui, alla svelta!» disse Altair.

No!

Non poteva! Non poteva permettere che la Parola di Allah andasse perduta! Quella era la chiave per realizzare il mondo perfetto! Doveva essere salvata, ad ogni costo! Con quella, il sogno degli Assassini di un mondo unito sotto la vera Pace sarebbe potuto diventare realtà!

«Kahled, che stai facendo!» gridò Altair vedendo il fratello correre verso il monile, una corsa ostacolata dalle raffiche di vento glaciale generate che gli soffiavano contro.

Subito lo rincorse, e quando vide che una colonna stava crollandogli proprio addosso non ebbe esitazioni.

«Attento!» esclamò gettandosi su di lui e buttandolo lontano.

Kahled rotolò più volte, e quando risollevò lo sguardo il suo fu vero terrore.

«Fratello!».

Pur essendo riuscito a salvarlo dal crollo Altair non era riuscito a spostarsi in tempo, e ora giaceva semisvenuto con la colonna crollata a schiacciargli le gambe. Gli corse incontro, cercando di aiutarlo: era ancora cosciente, ma appena cercò di muoversi dovette stringere i denti per non gridare.

«Fratello…»

«Stai… stai bene?»

«Aspetta, ora ti libero!»

«È… è inutile. Sono rotte».

Invano, forse credendo di avere ancora dentro di sé una parte di quel potere, Kahled cercò con tutte le sue forze di sollevare la colonna, ma mai come in quel momento fu costretto a confrontarsi con la propria umanità.

«Lascia perdere.» disse il fratello quando lui, affranto e sfinito, cadde in ginocchio «Vattene. Mettiti in salvo.»

«Che cosa!?»

«Devi farlo Kahled. Almeno tu devi riuscire a tornare. Racconta quello che hai visto ai nostri fratelli. Che non tentino mai più di giocare con poteri simili, e che fermino tutti coloro che tenteranno di farlo.»

«Non posso, fratello! Non posso abbandonarti! Non puoi chiedermi questo!»

«Vai!» urlò con forza Altair, e afferrato il fratello lo spinse con forza oltre il parapetto, certo che si sarebbe salvato, giusto in tempo per evitare che l’ultimo ricordo che Kahled avesse avuto di lui fosse quello di un Assassino in lacrime.

Kahled riuscì effettivamente ad evitare di precipitare al suolo conficcando la spada in uno dei tanti stendardi di tessuto rosso che pendevano all’esterno e usandolo per attutire quasi completamente la propria caduta, ma quando era circa a metà strada un fascio di luce squarciò il muro proprio di fronte a lui, scaraventandolo oltre il muro di cinta e direttamente sul tetto di uno dei palazzi che si trovavano a ridosso del palazzo.

Ebbe a malapena il tempo di alzarsi e di alzare lo sguardo, e subito dopo la parte alta della torre esplose con forza inaudita, spargendo macerie per tutta Baghdad e illuminando la città di una luce azzurra più forte del sole.

No! No!

Anche quello no! Che cosa aveva fatto!

Prima Mira, ora Altair! Aveva ucciso con le sue mani le due persone a cui teneva di più!

Che razza di uomo era diventato? Aveva dato importanza ad un oggetto diabolico, al maledetto frutto della mente perversa di una qualche divinità malvagia, sempre se di una divinità si trattava, e per questo suo fratello era morto.

Quel potere lo aveva davvero consumato? Allora Jahal aveva ragione!

Anche lui aveva finito per soccombere di fronte al miraggio di un tale potere. In quell’istante di follia aveva desiderato di possedere quel potere solo per sé, e per questa sua follia Altair aveva pagato con la vita.

Perché? Perché era stato così cieco?

Rabbia, dolore, disperazione. Tutti questi sentimenti si agitavano dentro di lui come un mare in tempesta, resi ancor più amari dalla consapevolezza di essere stato lui l’artefice di tutto quel dolore.

Caduto in ginocchio, di nuovo urlò, urlò con tutta la sua voce, gridando il proprio odio verso quegli dèi vigliacchi dalla mentalità malata che avevano creato un mondo in cui gli uomini erano destinati a provare dolore e sofferenza per poi andare inesorabilmente incontro alla morte.

Di un Dio del genere l’umanità che poteva mai farsene?

  
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