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Autore: The Corpse Bride    01/12/2009    7 recensioni
-Bianca, per favore, smettila con questa storia. Non cederò mai. Devo ripetertelo? Sono il tuo professore; non sarò mai il tuo amante.
La ragazzina sbuffò. Sedici anni, capelli rosso fuoco freschi di cotonatura, un trucco nero pesantissimo sfumato dal giorno prima.
Aveva una scollatura così profonda, e una minigonna così corta, e degli stivali così alti, che non si poteva fare a meno di guardarla, a prescindere dagli istinti sessuali che poteva o non poteva provocare.
'Provocare': ecco cosa faceva.
Non chiedeva solo sesso. Chiedeva anche l'altrui disapprovazione. E chiedeva che le parlassero alle spalle, sicuramente. In fin dei conti, per come la vedeva Emanuele, quello che chiedeva era semplicemente attenzione.
-Professore, lei non può sapere per certo che non cederà mai. Chi lo sa cosa potrebbe passarle per la testa domani, o il mese prossimo, o l'anno prossimo?
-Lo so io, cosa mi passerà per la testa: la mia fidanzata, il mio lavoro, i compiti da correggere, le cene fuori coi miei amici. Il mio cane, al massimo. Ma non il sesso con te. Non mi induci in tentazione, Bianca, mettitelo in testa.
-Ma davvero? - lei sorrise malignamente, alzò un sopracciglio, accavallò le gambe e si stese bene sullo schienale; si comportava come una spogliarellista trentenne. - Allora perché ha usato il termine 'cedere'? È alle tentazioni che si 'cede', o sbaglio? Altrimenti avrebbe detto 'non mi piacerai mai'. È già più vicino al concetto del quale lei cercava di convincermi.-Bianca...
-O di convincere se stesso.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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L'aveva lasciata a casa, dopo aver bevuto assieme una tazza di the; aveva cercato di parlarle d'altro, per distoglierla da quei pensieri nei quali l'aveva costretta a immergersi, ma aveva l'impressione che in realtà l'accompagnassero tutto il tempo.
Ne parlò a Camilla; doveva farlo. La salutò abbracciandola teneramente, le disse di sedersi, di preparare un the – un altro the, non importava. Si riunirono in cucina davanti a due tazze con dentro gli infusi di frutti di bosco, rinchiusi nei rispettivi cucchiaini, pronti a liberare i propri sapori nell'acqua che stava bollendo.
A casa sua, quando c'era Camilla, sentiva in continuazione il rumore dell'acqua che bolliva.
E poi il fruscio delizioso dell'acqua che scrosciava nella tazza, assorbendo gli aromi.
-Mi ha raccontato delle cose – spiegò, conciliante – Bianca ha dei seri problemi a casa.
-Il padre che la picchia – annuì Camilla – e la madre.
-Già. Sì, beh. Mi ha detto dell'altro. Pare che la madre non sia completamente a posto con la testa. Prende il valium.
-Lo immaginavo. È sempre nevrotica. È sovraccarica di lavoro e quel municipio è un covo di vipere.
-Aggredisce spesso Bianca, con violenza, la copre di accuse. Il padre le picchia entrambe.
Emanuele abbassò gli occhi. Iniziò a giocherellare con il centrotavola.
-C'è dell'altro...? - chiese Camilla, che lo conosceva molto bene.
-Sì, Camilla, c'è dell'altro – rispose, lentamente – c'è dell'altro. Ma faccio fatica a ripeterlo. Hai presente quelle cose che non vorresti mai sentir dire a un tuo studente...?
-Purtroppo no – mormorò lei, sorseggiando il suo the.
-Già. Naturale. In realtà è perché pensi che non esistano davvero. Pensi che non succeda a una tua alunna che vive ad Altichiero con mamma e papà e può permettersi un iPod nuovo e una PSP.
-Che cos'è successo?
Camilla sembrava solo molto stanca. Sembrava che ascoltasse la storia di Bianca perché lui ci teneva a raccontargliela, ma che in realtà avrebbe preferito fare tutt'altro.
-Il padre usa molestie sessuali su di lei – mormorò – e la confonde così tanto che le fa pensare di essersi inventata tutto.
Questa volta Camilla alzò gli occhi. Nonostante sembrasse odiare Bianca e tutto ciò che la riguardava, questa volta non poté non interessarsi al discorso.
-Ha avuto una crisi di panico, quando sono andato lì – raccontò – mi ha detto che le capita spesso. Che passa intere giornate a piangere, e che a volte non ha nemmeno la forza di fare quello; sta a letto immobile senza pensare a niente, in stato catatonico.
Lei lo guardò, in attesa di ulteriori informazioni. Proseguì.
-Dice che per un certo periodo riesce a dimenticare... ad accantonare. Che per un po' riesce a distrarsi con altre cose. Ma che poi, a volte, le torna in mente tutto ciò che c'è di negativo nella sua vita. E in quei momenti io incomincio a vederla piangere in classe, e chiedermi di andare a casa a dormire.
Camilla aspettò che dicesse dell'altro, ma Emanuele tacque e prese a fissare la fruttiera. Lei prese la parola.
-Succede perché il padre la molesta...? - chiese, con voce roca.
-Succede perché dice di non sentirsi amata. Dice che i genitori non la sopportano, che i coetanei la odiano, che tutto ciò che fa è vuoto e senza significato.
-Capisco – mormorò Camilla. Emanuele si accigliò.
-
Capisco? - ripeté, adirato.
-Capisco perché voleva morire – precisò Camilla – so che non si dovrebbe nemmeno pensarlo, ma... si può darle torto? Chi vorrebbe vivere una vita così?
-Alla sua età potrebbe ancora rimediare. Cambiare tutto, andarsene da qui, smetterla di farsi del male da sola. Può fare moltissime cose.
-Non finché ha sedici anni, abita coi genitori ed è iscritta a quella scuola – osservò la sua ragazza, razionale – in questo momento, è bloccata lì dov'è almeno per un altro paio d'anni.
-Devono sembrarle un tempo lunghissimo.
-Perché in effetti lo sono.
Camilla aveva un tono così freddo e distaccato che Emanuele si chiese se stesse davvero parlando con la sua fidanzata; quella dolce, comprensiva, che si preoccupava per lui e per Bianca.
-Ce l'hai con lei? - le chiese all'improvviso – Ce l'hai con lei perché occupa il mio tempo e una parte dei miei pensieri?
Lei abbassò gli occhi.
-Camilla, è così?
-Non posso negarlo – ammise lei, guardandosi le mani.
-Lo sai che ha sedici anni.
-Sì.
-E lo sai che è l'alunna che mi sta più a cuore. Sta a cuore a molti altri, oltre a me. Siamo tutti preoccupati per lei.
-Lo so. Ma oggi era il nostro anniversario. Non dico che non avresti dovuto andare a trovare Bianca, o che avresti dovuto chiedere un permesso e venire a prendermi al lavoro, con un mazzo di rose, per portarmi via in un posto speciale dove saremmo stati soli io e te lontani dal mondo. Mi bastava un bacio questa mattina, e “auguri”. Stasera, magari, un brindisi alla nostra.
Emanuele impallidì. Fece per aprir bocca, ma Camilla continuò.
-Dispiace anche a me per quella ragazzina. Davvero. Mi dispiace. Ma in questo momento non riesco a far altro che pensare alla nostra storia che viene logorata poco alla volta da questa bambina e dai suoi problemi.
-Non sta logorando la nostra storia. Tra di noi va tutto bene. Abbiamo forse mai litigato? Ho avuto delle mancanze nei tuoi confronti?
-No – fece stancamente Camilla – non dico questo. Dico che pensi a lei molto più di quanto pensi a me. Ti sei innamorato di quella ragazzina...?
-Cristo, Camilla,
no – sbottò indignato, scattando in piedi – stai per caso scherzando? Non sono come quel pedofilo di suo padre. Non sono innamorato di una bambina che potrebbe essere mia figlia.
-No, non potrebbe. Al massimo potresti essere suo fratello.
-Ma di cosa mi stai accusando?! Mi credi capace di una cosa simile? E tu saresti quella che mi ama...?
-Lo vedi? Ora stiamo litigando. E tutto a causa di Bianca.
-Camilla, mi ci hai intrappolato tu, in questo giochetto!
-No, ti ci ha intrappolato lei. È questo che tu non hai capito. Lei ha intuito che tu la seguirai ovunque, e quindi ti porta dove vuole. Hai delle prove, che suo padre l'abbia molestata...?
Emanuele spalancò gli occhi.
-Camilla,
stai scherzando? Mi meraviglio che tu, come donna, faccia un'insinuazione del genere.
-Sono solo molto stanca. - Sugli occhi di Camilla spuntarono due grosse lacrime brillanti. - Sono stanca di questa storia. E ora sto anche facendo la parte della cattiva. Tutto quello che voglio è che quella ragazza stia lontana da te e la smetta di tormentarti, vorrei solo la vita tranquilla che avevo prima, e invece... invece finisco col recitare il ruolo della strega. Eppure – si asciugò le lacrime, ma ne nacquero di nuove sugli angoli dei suoi occhi – eppure ho sempre cercato di capirci qualcosa. Di dare una mano. Di starti vicino senza lamentarmi. E ora guarda,
guarda cos'è successo.
Emanuele si alzò e si avvicinò a lei; l'abbracciò, dispiaciuto.
-Non volevo dire che sei cattiva – sussurrò – non lo penso. Ero solo agitato.
-Sono agitata anch'io – gemette Camilla – ho paura. Ho paura che rovini la vita che abbiamo creato assieme, che tu dedichi a lei le tue giornate e i tuoi pensieri, e ti faccia trascinare da tutta quella tristezza. Io rivoglio il mio fidanzato. Rivoglio la mia felicità, rivoglio anche la tua – iniziò a singhiozzare, con la stessa spontaneità di una bambina sperduta. L'abbracciò ancora più forte.
Due donne durante quel pomeriggio aveva abbracciato piangendo. Entrambe lo tiravano dalla propria parte, chiedendogli di rinunciare all'altra, sostenendo che fosse l'unico modo per porre finalmente fine alle loro sofferenze.
Non voleva abbandonare nessuna delle due, ma sapeva che, un giorno o l'altro, si sarebbe trovato di fronte a una scelta, e che tutto il tempo in cui avrebbe temporeggiato sarebbe stato costellato di liti, lacrime e abbracci colmi di struggente disperazione.

Comunque, per quel weekend decise di fare un reset mentale. Bevve un caffè doppio, si rinfrancò con una fetta del dolce che Camilla aveva preparato per l'occasione e decise che, per liberarsi da una corda troppo stretta, era necessario dare uno strattone altrettanto forte.
-Ok; mettiti il cappotto – disse ad un tratto a Camilla.
-Il cappotto? Perché?
-Perché noi usciamo.
-E dove andiamo?
-A Parigi – sbottò, senza sapere bene nemmeno lui cosa stesse dicendo.
-A Parigi? - fece Camilla, sbalordita – Ma... a Parigi?! Perché?
-Perché è la città degli innamorati, dicono. Be', lo è anche Venezia, ma Venezia possiamo vederla quando vogliamo. Parigi no.
-Ma... ma come facciamo? Non abbiamo i biglietti.
-Tu non preoccuparti.
-Ma Ema, sono le quattro del pomeriggio, ormai.
-E quindi? - Le sorrise, accattivante. - Non ti piacerebbe che ti portassi a cena a Parigi, e passeggiare con me lungo la Senna dopo aver gustato
les champignons e il Dom Pérignon in un delizioso ristorantino del centro, e farci una foto sulla terrazza che dà sulla Tour Eiffel?
-Sei impazzito – mormorò Camilla, ma i suoi occhi erano luccicanti e sulle sue labbra iniziava ad incresparsi un luminoso sorriso.
-No – precisò lui –
ero impazzito, ma chérie, ma adesso ho recuperato la raison, e ho voglia di festeggiare l'anniversario assieme a toi.
Allargò il suo sorriso. Camilla fece lo stesso.
-
Alors? - la incitò.
-
Mais oui! - fu la gioiosa risposta, Camilla si gettò tra le sue braccia e si precipitarono in macchina con direzione Marco Polo.

Passò un dolcissimo weekend.
Durante il viaggio d'andata in macchina, Camilla telefonò all'aeroporto, riuscirono a scovare due posti in un last minute e sfrecciarono lungo la A4 ridendo come due ragazzini.
Al Marco Polo acquistarono i biglietti d'andata e quelli di ritorno, e, nell'attesa, collegarono il portatile alla connessione via chiavetta; in un'ora, tempo che arrivasse l'aereo, avevano già scelto e prenotato il loro hotel. Camilla era raggiante.
-Non avrei mai pensato che avresti fatto una cosa del genere – trillava, eccitata – pensavo che... cioè...
-Pensavi che avrei lasciato tutto com'era – sospirò Emanuele, e scosse scherzosamente la testa – quanta, quanta malafede in questa signorina. - Le scompigliò i capelli, lei rise e gli diede un colpetto leggero sulla mano. - Ehi, io, se faccio un errore, vi pongo rimedio. Ho ben salde nelle mani le redini del cavallo bianco,
chérie.
-Avevo paura che ne fossi sceso per sempre – ammise lei. Ma lo disse con quell'aria serena, pacifica di cui lui si era innamorato.
Aveva solo bisogno di essere rassicurata, ma lui non se n'era mai accorto. Non aveva dovuto fare poi molto per farle recuperare la tranquillità, come aveva potuto non pensarci? Certo, con quel weekend si era giocato quasi mezzo stipendio, ma cosa valevano i soldi, quando il sorriso era tornato sulle labbra di Camilla?
-Cami, in questo periodo ho fatto troppo affidamento su di te. Siccome tu sei comprensiva e disponibile e non mi fai pesare i tuoi problemi, allora io ho focalizzato tutta la mia attenzione sui miei. E anche la
tua attenzione. Non mi ero mai reso conto che la situazione ti pesasse così tanto.
-Avrei dovuto dirtelo – confessò lei – la colpa è anche mia. Mi sono tenuta tutto dentro, cercando di fare la fidanzata perfetta, perché non volevo riempirti di lamentele la sera quando tu arrivavi a casa stanco dal lavoro. Cercavo di non essere la solita moglie o fidanzata pedante che dimentica sempre che anche il suo compagno ha dei grattacapi.
-Tu puoi parlarmi quando vuoi – l'assicurò – altrimenti, cosa te l'ho dato a fare, quell'anello che hai al dito? Quell'anello è una promessa. E non è solo la promessa che il 18 aprile andremo in chiesa vestiti come due bamboline a sorridere davanti agli obiettivi e baciare le guance ai parenti. È la promessa di starti vicino qualunque cosa accada, di asciugare le tue lacrime, proteggerti dalle tue paure, dalle ipocondrie... dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via...
Camilla sorrise.
-Dalle giustizie e dagli inganni del tuo tempo – continuò, intonando con voce flebile – dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai...
-
Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d'umore – cantò, a voce bassa – dalle ossessioni, dalle tue manie... - Lei si unì alla sua voce – Supererò le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare...

E guarirai
Da tutte le malattie
Perché sei un essere speciale
Ed io
Avrò cura di te.*

Non conclusero con il ritornello, stavano abbracciati tanto stretti che non sarebbero mai riusciti a parlare.
Quella canzone gli era venuta in mente per caso, tra le tante che conosceva e a cui non aveva mai prestato particolare attenzione. Da quel giorno, ogni volta che la sentirono per radio o in qualche locale, si guardarono quel sorriso appena accennato tipico di chi condivide un ricordo che nessuno può afferrare o anche solo sfiorare.
Il ricordo di una canzone di Battiato illuminata all'improvviso da un caldo raggio d'amore, cantata in aeroporto tra il brusio di migliaia di persone che si affannavano senza riuscire a toccare quel momento, svanendo lentamente in un silenzio astratto.
Il ricordo dell'amore che lasciava fuori tutto il resto.

-E dire che il momento romantico era previsto per la passeggiata lungo la Senna – gemette Emanuele – e adesso come faccio? La proposta di matrimonio te l'ho anche già fatta, e ho esaurito gli assi nella manica.
Camilla rise e afferrò un guscio di lumaca. Lei aveva lo stomaco abbastanza forte da mangiarle, Emanuele invece aveva optato per una zuppa di cipolle. Insieme avevano ordinato la fonduta.
-Ce la tiriamo da degustatori? - aveva proposto Emanuele.
-Ma non è un po' snob intellettual-chic?
-Certo che lo è, ma ricorda che qui siamo in territorio nemico. Loro sono in maggioranza, cerchiamo di mimetizzarci. - Afferrò il suo bicchiere di vino d'annata. - Vedi? Faccio dondolare il vino nel bicchiere con aria scettica e gli occhi socchiusi.
-Ricorda di annusarlo storcendo il naso.
-Mi infilo una baguette sotto l'ascella?
-
Parbleu, non senza un completo a righe verticali.
-Avverto inoltre la tragica mancanza di una tavolozza.
-E di un basco.
-E di un bidet.
-Oh, non fare l'italiano,
je vous en prie.**
Ma gli andava bene, in fondo, parlare di sciocchezze e ridere di Camilla che trangugiava tranquillamente lumache come fossero state caramelle. Gli andava bene, fintanto che poteva vederla allegra e sorridente, felice assieme a lui, come lo erano sempre stati.
-Ti prometto che non servirà più venire a Parigi per essere sereni – asserì all'improvviso, sorprendendo Camilla che fece cadere il pane nel formaggio fuso, annegandolo nella fonduta.
-Cosa? - fece lei, tentanto di recuperare la fetta di baguette perduta con la forchettina.
-Sarà così
ogni giorno, com'è sempre stato. Non avrò più bisogno di portarti lontana da Padova, per vederti felice. Lo sarai anche nella nostra casa, nella nostra vita di tutti i giorni. Senza dover fuggire per un weekend.
Lei sorrise.
-Ema, prima mi dicevi che non avevi più assi nella manica per la passeggiata romantica lungo la Senna – incominciò – beh, volevo dirti una cosa. La Senna è solo un fiume, la torre Eiffel è solo una costruzione di ferro, e le lumache potrei cucinartele anch'io, se non ti venisse uno scompenso solo a guardarle da lontano. Ma il fatto è che tu hai visto che ero triste e hai deciso di rimediare, costi quel che costi, e dal mio punto di vista, ecco, questa è la mia cena francese e la foto davanti alla torre e la passeggiata romantica sul lungofiume. Io sono
già felice. Non ho bisogno che tu faccia altro.
Sorrisero entrambi.
Si sentiva così sereno e appagato che pensò, al di là di questo non c'è nient'altro. Oltre a questa felicità non potrò mai andare.

Ebbero la loro passeggiata lungo la Senna, tenendosi per mano; le luci della città, la notte blu chiara di stelle e le nuvolette soffici dei loro respiri crearono un'atmosfera tale che in realtà parlarono molto poco. Si fermarono spessissimo ad abbracciarsi, a lungo, stringendosi forte e dimenticando che erano a Parigi, che erano nel mondo reale. Per quella sera avevano deciso di essere altrove.

Il giorno dopo si svegliarono quasi all'ora di pranzo; la sera prima avevano fatto l'amore fino a notte fonda. Fecero la doccia assieme, infilarono i vestiti del giorno prima nello zaino ed uscirono, silenziosi ma sorridenti, nel corridoio ricoperto di moquette del piccolo albergo di Montmartre.
Nelle ore che gli rimanevano, salirono sulla collina e passeggiarono tra i ritrattisti; pranzarono con un panino che mangiarono passeggiando, poi presero la metropolitana diretti verso l'aeroporto, con in mano un ritratto.
Un ritratto solo, non due, che li ritraeva entrambi, due volti felici nel sole tiepido e dorato della Francia.


*


-Credi di riuscire ad affrontare la giornata? - gli chiese Camilla, premurosa.
Sembrava che il weekend l'avesse tranquillizzata, che si fosse convinta di essere ancora la priorità di Emanuele. Ora che si era rassicurata, sembrava più disposta ad affrontare l'argomento 'Bianca'.
-Ci provo – fu la pacifica risposta – provarci è l'unica cosa che posso fare.
-Ti sono vicino.
-Anch'io sono vicino a te.
Si salutarono con un bacio, ed Emanuele le accarezzò una guancia. Lei sorrise e per un momento gli sembrò una bambina, più piccola ancora di Bianca.
Mentre s'incamminava verso la stazione, si sentì come se avesse avuto lo scudo in una mano e una lancia nell'altra.
E sotto le gambe un solido e veloce cavallo bianco.

Come si aspettava, Bianca era uguale a come l'aveva lasciata sabato. Era strano rivederla, dopo quel fine settimana di fuga. Gli era sembrato strano anche prendere il solito treno e attraversare la solita città; era stato a Parigi solo per ventiquattr'ore, ma si sentiva come se fosse stata Padova la città straniera.
-Buongiorno – esordì in classe; i suoi alunni lo salutarono con calore.
-Prof, che aria allegra – commentò Francesca. Sapeva che stava cercando di farlo chiacchierare per rimandare la lezione, ma per quella volta poteva anche andargli bene.
-Davvero? - replicò – Beh, ci hai visto giusto. Oggi è una bella giornata.
-Perché, prof? - fece Benetazzo, che, per qualche oscuro motivo, gli si era affezionato.
-Ho passato un bel weekend con la mia fidanzata – confessò – e oggi sono particolarmente felice.
-Woo, il prof ha una fidanzata! - esclamò Francesca – Non lo sapevamo!
-Ebbene sì, con tanto di anello al dito.
-Vi sposate?!
-Ad aprile. Siete tutti invitati – sorrise, poi si accorse che Bianca aveva un'espressione tutt'altro che rassicurante.
Forse avrebbe dovuto evitare quei discorsi, ma non era riuscito a farne a meno; era poi così sbagliato voler gridare al mondo quanto si era felici, specialmente dopo che si avevano passati momenti tanto bui?
-Congratulazioni, prof – esclamò Giulia – raga, dobbiamo organizzarci per fare il regalo al prof.
-Ma no, non ce n'è bisogno.
-Come no – fece Benetazzo – una bella spada medievale intarsiata. Qualsiasi salotto dovrebbe averne una.
-Sì, vabè, PeneCazzo, e dopo? Una cotta di maglia al posto del completo?
-Sarebbe veramente il massimo – mormorò incantato Benetazzo, con gli occhi luccicanti.
-Ragazzi, davvero, non vi preoccupate...
-Ma no, prof, guardi che non diamo mica retta a PeneCazzo – intervenne Crivellaro – oh, ho l'idea! Regaliamo al prof una bella festa d'addio al celibato! Spogliarelliste, alcool, follia...
-
Crivellaro! - lo riprese Giulia – Non approfittare del matrimonio del prof per imbucarti a un locale di strip, testa di cazzo.
-Allora non ho altre idee, mi arrendo.
-Una batteria di pentole in acciaio Inox1810? - fece dubbiosa Valeria – I novelli sposi vogliono sempre cose di questo genere. Cose per la casa.
-Non siamo mica tutti così noiosi – protestò Emanuele – e se invece io vi dicessi che voglio l'Action Figure di Re Leonida...?
-GLIELA REGALEREI IO – gridò Benetazzo – SPARTANI! Qual è il vostro mestiere?! - Al che tutti i maschi della classe urlarono in coro “A-HU! A-HU! A-HU!”, e fu lì che Emanuele decise di chiudere il discorso.
Durante tutto quel tempo, Bianca era rimasta muta e immobile, guardando fuori dalla finestra con aria assente.

Bianca passò così tutta la settimana, ed Emanuele cercò di non farci caso. Mercoledì non venne da lui. Passava le ore di lezione prendendo svogliatamente appunti, e, arrivati verso la fine della settimana, smise di fare anche quello. Guardava il banco e basta. Ogni tanto apriva e chiudeva la bocca, come se volesse mormorare qualcosa.
Sabato osservò una scena piuttosto tenera a ricreazione, ma osservò soltanto, attento a non farsi vedere.
-Cos'è che hai? - continuava a ripeterle Cappelletto, con aria preoccupata – Perché stai così? Sei triste per qualcosa?
Bianca lo lasciò parlare per un po', prima di rispondere un fievole “lasciami stare”.
-No che non ti lascio stare, se prima non mi dici cos'hai.
Lei lo guardò, con aria spenta.
-Non capiresti – si limitò ad apostrofarlo, con tono lugubre.
-Beh, senti, non fare tanto la superiore. Magari invece capisco.
Scosse la testa. Lui si accigliò.
-Ehi – la afferrò per le spalle – senti, tu dimmelo. Anche se poi non posso fare niente, cosa ci perdi?
-Non voglio parlare a te degli affari miei.
-Ma perché? - fece Cappelletto, sinceramente dispiaciuto.
A quel punto, all'improvviso, Bianca iniziò a piangere.
-Ecco, vedi che sei triste? Cos'hai? Cos'è successo?
-Lasciami stare – singhiozzò, sottovoce.
-Ma non voglio lasciarti stare.
-
Per favore – lo implorò lei, e lui, a malincuore, dovette allontanarsi.
Bianca si accorse di Emanuele sulla porta, ma si limitò ad incrociare le braccia sul banco e appoggiarvi la testa, abbandonandosi ai singhiozzi.
Gli metteva addosso un'enorme tristezza, ma sapeva ormai di non poter fare niente.

Con febbraio se ne andò anche Bianca.
I primi di marzo iniziarono le sue assenze. Gli ultimi giorni in cui aveva frequentato erano passati immersi nelle sue lacrime silenziose. Faceva male vederla, perché piangeva senza rumore; si limitava a guardare fuori dalla finestra, o il banco, o un punto nel vuoto di fronte alla lavagna, inespressiva; solo che le lacrime le rigavano il viso, costantemente, lente, ma continue.
Emanuele non ebbe il coraggio di chiedere sue notizie.
Non ebbe nemmeno il coraggio di pensarci.
Si limitò a fare lezione con il solito brio, con la solita passione, e la sera parlava a Camilla dei progressi dei suoi alunni peggiori, delle soddisfazioni che stava avendo con loro, dell'affetto che gli dimostravano.
Avevano recuperato la loro serenità, anche se Emanuele aveva uno spillo appoggiato al cuore che, a ogni minimo movimento, pungeva e spingeva sempre più nel profondo, riaprendo continuamente quella piccola ferita che gli aveva inflitto.
Dopo una settimana di assenza da parte di Bianca, però, Cappelletto e Valeria si presentarono alla sua ora di ricevimento. Emanuele sapeva già perché fossero venuti a cercarlo.
-Vorremmo parlare con lei – esordì imbarazzata Valeria, tormentandosi i guantini di rete.
-Su Bianca – spiegò Cappelletto, con più decisione.
Sospirò e fece loro cenno di accomodarsi.
In quel momento, in aula insegnanti era presente anche Sonia, che lanciò loro uno dei suoi sguardi penetranti. Una sola occhiata, veloce e indecifrabile, e poi tornò ai suoi compiti da correggere.
-Ditemi, ragazzi. Di cosa volevate parlare?
-Delle sue assenze – rispose pronto Cappelletto – volevamo chiederle se lei ne sappia qualcosa.
-Anche se lo sapessi, non sarei autorizzato a comunicarvelo – fu tutto ciò che riuscì a rispondere.
-Ascolti, prof, a me non è di certo simpatica, ma il suo comportamento mi è sempre sembrato strano – intervenne Valeria, un po' nervosa – non è
normale. Tutti noi abbiamo periodi brutti e periodi belli, ma capitano una volta l'anno, tutt'al più. Lei, invece... è sempre estrema.
-Tutti quanti la giudicano male perché si comporta da stupida – riprese concitato Cappelletto – e, ok, è vero, fa la stupida. Però ha fatto comodo a tutti che lei si comportasse così.
-Ma più che altro, anche se spesso le darei una botta in testa perché fa un casino della Madonna, devo ammettere che sono un po' preoccupata. Secondo me, sta male per qualche motivo. Ha reazioni troppo... come posso dire...
-Estreme – ripeté Emanuele, che trovava l'aggettivo perfettamente calzante. Valeria annuì.
-So che lei è preoccupato come noi – insistette Cappelletto – e gli altri non si rendono conto.
-O non vogliono rendersi conto – rincarò Valeria.
-Quindi, se non ci aiuta lei, non sappiamo da dove iniziare.
-Beh – Emanuele ci ragionò un momento – beh, potreste iniziare voi stessi. Perché non andate a trovarla? Sapete dove abita?
-Ho il suo indirizzo – borbottò Valeria – se sta ancora ad Altichiero.
-Credo abiti ancora lì.
-Andiamo? - propose Cappelletto, in direzione della sua compagna. Quella tirò un gran respiro, ma alla fine cedette.
-E andiamoci – decretò; Cappelletto le sorrise.
-Ma allora non sei una strega malefica – la punzecchiò – tutta croci e bare, e poi invece sotto sotto sei una tenerooona!
-Ma chi ha mai detto che sono malefica? Siete voi che mi chiamate Morticia, manica di cretini. Dai, andiamo e lasciamo stare il prof – sbuffò Valeria, afferrando Cappelletto per la manica. Mentre quello lo salutava con una mano, ad Emanuele sfrecciò in testa un pensiero.
-Ehi, voi due – li chiamò. Valeria si fermò e si voltò a guardarlo; Cappelletto rimase in attesa. - Sono orgoglioso di voi. E adesso sparite – li cacciò con un gesto della mano, ma, un attimo prima di abbassare lo sguardo sulle sue cartelle, notò che entrambi sorridevano.
Quando furono usciti, incontrò lo sguardo di Sonia.
-Devo dirti la verità? Anch'io – affermò lei, poi ritornò ai suoi compiti senza più voltarsi verso di lui.
Fu il turno di Emanuele di sorridere.

I due tornarono a scuola il giorno dopo carichi di notizie. Non appena lui entrò in classe presero a gesticolare e a parlargli in labiale; li liquidò con un uno scuotimento di testa, e i due furono irrequieti fino a ricreazione.
Suonata la campanella, la strana coppia – lui con la felpa Hydrogen e le Hogan, lei con la gonna che spazzava terra e il corsetto – si precipitò al piano di sotto, nell'aula professori. Emanuele, nel vederli, si stupì che due individui tanto diversi si fossero presi a cuore la stessa persona.
-Allucinante, prof – esordì Valeria, agitata – no, le giuro, è preoccupante. Bisogna fare qualcosa.
-E pensi che sua mamma non voleva neanche che la vedessimo. Ma noi abbiamo rotto le palle. Sono un
maestro se si tratta di fracassare i coglioni, e ha visto? Stavolta è servito a qualcosa.
-D'accordo. Ok. Calmatevi. Cos'è successo?
-Eh, praticamente...
-Allora, prof, in pratica...
-Uno alla volta. Valeria.
-Perché Valeria?!
-Perché non infila una bestemmia ogni due parole. Dimmi tutto, Valeria.
-Allora – riprese, torcendosi le mani – siamo arrivati lì. Sua mamma ci apre. Mi guarda tipo stramale, ma vabé, guardasse sua figlia come viene vestita a scuola. Ci chiede chi siamo.
-E gli diciamo, siamo compagni di Bianca. E lei non è che dice: oh, entrate, che gentili, siete venuti a trovarla. No. Ci chiede di cos'abbiamo bisogno.
-Con quel
sorrisino falso come una moneta da trecento lire – sbottò Valeria – comunque, le abbiamo detto che eravamo venuti a trovarla, a vedere come stava. E lei fa: è molto malata, non se la sente di alzarsi dal letto. Vabé, le diciamo, solo per farle un saluto. E lei: sta molto male, non vorrei che si stancasse troppo.
-E io le faccio, vabé, signora, andiamo via subito, la salutiamo, le portiamo i compiti e poi andiamo via. Vede, prof? Ci eravamo anche preparati la scusa.
-E insomma, dai e dai, ci ha fatti entrare, continuando a ripeterci che stava molto male, che aveva la febbre alta, che non riusciva ad alzarsi dal letto né a parlare. Va bene, le dicevamo noi ogni volta, ok, nessun problema, tanto restiamo poco. E quella che insisteva, Bianca sta male, sta molto male, è molto debilitata. Alla fine siamo entrati in camera sua; c'era la persiana abbassata, tutto buio, e lei sotto la trapunta, che neanche la vedevi in faccia.
-Siamo andati vicino al letto e lei era sdraiata di fianco e guardava nel vuoto, con la bocca aperta, così – Cappelletto l'imitò: occhi fissi spalancati, bocca socchiusa, sguardo perso. - E non si è accorta di noi. Continuava a guardare chissà cosa.
-Io mi sono preoccupata, così le sono andata davanti, le faccio: Bianca, sono io, Valeria. Stai bene? E lei non rispondeva, non mi ha neanche guardata. Allora è venuto anche Cappelletto, tra l'altro il romanticone le ha fatto una carezza sulla guancia... - Valeria sorrise; l'altro arrossì e le diede una botta sul braccio. - Ahia. Comunque, prof, lei a quel punto ha alzato gli occhi e ci ha visti, ma aveva una faccia...
-Sembrava tristissima – intervenne Cappelletto – non so come spiegarglielo. Era completamente triste.
-Ci ha guardati, ha aperto la bocca... poi ha chiuso gli occhi, le sono scese due lacrime dagli occhi e si è voltata dall'altra parte.
-E allora noi siamo andati dall'altra parte, anche se sua mamma ha allungato un braccio come per fermarci. Ma noi siamo stati più veloci. E così le abbiamo parlato un po'; le abbiamo detto che avevamo i compiti per lei, che lei la salutava, prof, che l'altro ieri Tognon di quarta C ha dato fuoco ai capelli della Miotto... ma niente.
-Noi parlavamo e lei ci guardava e taceva. Sembrava che non capisse neanche una parola. Aveva una faccia confusa, ci guardava con gli occhi spalancati e muoveva le labbra al passo con le nostre, ha presente come fanno gli anziani quando iniziano a non capire più cosa gli dici? Ecco.
-E dopo un po', a discorso finito, ha parlato. Sempre guardandoci con quella faccia.
-Sbalordita, incantata... non saprei come spiegarle.
-E fa...
-Con voce roca, prof, come se non parlasse da giorni. Ha mormorato: “il prof ti saluta...” e poi ha guardato da un'altra parte. Al che le faccio, no, il prof saluta
te. E sua mamma è arrivata d'un tratto e fa, scusate, ragazzi, Bianca non si sente bene, forse è il caso che si riposi un po'. E lei non ha battuto ciglio. Ha continuato a guardare per aria.
-Le giuro, prof, mi sono spaventato. Nel senso che proprio ho preso paura.
-Cioè, sua mamma non ha neanche avuto bisogno di spedirci fuori, siamo proprio scappati via, senza quasi salutarla, le facciamo, torna presto, e poi siamo andati via di fretta. E mentre eravamo sulla soglia l'abbiamo sentita dalla camera che diceva “torna presto” e sua mamma che diceva, sssh, stai calma, dormi.
Emanuele deglutì.
Valeria e Cappelletto lo guardavano in attesa di una risposta:i loro occhi chiedevano di sentirsi dire una bugia rassicurante.
-Probabilmente aveva la febbre molto alta – stabilì Emanuele – in quei casi, non è raro che uno non sia molto presente.
-Può essere – mormorò Valeria, sollevata da quella spiegazione quanto mai pretestuosa.
L'altro non disse nulla, ma s'incupì. Si allontanò senza dire nulla, e, dopo qualche attimo di silenzio imbarazzato, anche Valeria lo salutò ad occhi bassi e se ne andò.

Camilla ascoltò attentamente il suo resoconto, ma anche lei non sapeva bene che dire di fronte a un racconto del genere.
-Sono sempre più sicura che si tratti di depressione – ragionò – una depressione molto grave. Forse suo padre le ha messo le mani addosso un'altra volta.
-Mi aveva promesso che me l'avrebbe detto – ribatté Emanuele – ma forse non ci è riuscita. Non le sono stato molto vicino, in effetti. È che non sapevo come aiutarla – si giustificò.
-Credo sia normale. Non è facile stare accanto a una persona che periodicamente sprofonda in una tristezza così annientante.
-Ho mandato due ragazzini a parlarle, al posto mio – mormorò, deluso – avrei dovuto andarci io.
Ma subito cambiò discorso, perché non voleva riprendere a tormentare Camilla con i problemi di Bianca. E neanche a tormentare se stesso.
-Ad ogni modo, per ora posso solo aspettare – concluse – staremo a vedere. E tu, tesoro? Com'è andata oggi?
-Ti dirò, ora che mi ci fai pensare, la Milanesi ultimamente sembra molto affaticata. Ultimamente ci ha delegato diversi compiti dei quali prima insisteva ad occuparsi personalmente, nonostante fosse sufficiente la sua supervisione.
-Probabilmente sua figlia la sta preoccupando molto.
-Sicuramente è così. Magari, in fondo, ci tiene.
-O forse è troppo occupata a nascondere al mondo che nel suo mondo perfetto ci sono diverse macchioline di sporcizia.
-Non lo escludo. Quella donna vive sempre in alta tensione. Deve sempre essere all'altezza, sempre fare tutto alla perfezione ed entro i tempi, sempre essere inattaccabile. E se per caso ti azzardi a contestarla, lei trova sempre la parola che tu hai detto in mezzo a un discorso e te la contestualizza in modo da dimostrare che
lei ha ragione, e tu invece hai torto. È sempre attenta ad ogni dettaglio, perché non vuole mai essere colta in fallo: vuole coglierci te. E in questo modo diventa ogni giorno più nervosa. E odiata.
-Se accettasse di essere umana e fallibile, forse vivrebbe un po' più tranquillamente. E anche la sua famiglia vivrebbe più tranquillamente.
-Il punto è che lei, per come la vedo, ha fatto voto con se stessa di diventare infallibile.
-Dev'essere uno shock per lei rendersi conto che sua figlia, il suo prolungamento, il suo bambolotto, sta crescendo diversamente da come lei l'aveva progettata. Fuori dal suo controllo, e per di più così
criticabile.
-Lo credo anch'io. Bianca ti aveva detto che il marito la picchia? Credo che in quella famiglia nessuno sia molto stabile emotivamente. Non c'è da sorprendersi che la figlia sia cresciuta così.
-Ma che cos'ha la gente? - sbuffò Emanuele – Perché non riescono a star tranquilli? Perché non si comprano una Playstation con una serie di picchiaduro e non sfogano le loro frustrazioni lavorative?
Camilla rise, e per quella sera decisero di sfogarsi con una sessione di Tekken, per prevenire la possibilità di diventare dei cinquantenni frustrati o di mettersi a insultare Gengis perché quel mese non avevano avuto l'aumento.

Bianca rimase assente un'altra settimana.
I commenti della classe erano ogni giorno più velenosi, ma gli insegnanti avevano deciso di scoraggiare i pettegolezzi. Rimproverarono ad alta voce tutti coloro che si ritennero in dovere di criticare pubblicamente Bianca. Ma questo non fece che inasprire le antipatie nei suoi confronti, e nessuno ne poteva più di sentirsi chiedere perché la Ferreri avesse sempre un trattamento di favore.
-Ma insomma, fatevi gli affari vostri – sbottò un giorno Emanuele – volete spiegarmi perché perdete così tanto tempo a chiedervi perché Bianca riceva un ipotetico trattamento di favore, e non ne perdiate neanche un po' per pensare che magari avete voi per primi delle mancanze scolastiche?
-Alle mie mancanze ci penso separatamente – sibilò Monica Miotto – ma non capisco perché le
mie, di mancanze, non passano, mentre sulle sue si chiude sempre un occhio in qualche modo.
-Ma è un problema tuo, Monica? Ti riguarda in qualche modo?
-Sì che mi riguarda, perché io penso sempre per me prima di tutto, ma pretendo di essere trattata come gli altri. O che gli altri vengano trattati come me, in questo caso.
Il suo discorso in effetti aveva senso, ed Emanuele non sapeva bene come replicare. Fortunatamente, Cappelletto decise di intervenire proprio in quell'istante.
-Senti, Miotto – sbottò, minaccioso – se non chiudi quella bocca ti avverto che ti spacco il naso un'altra volta.
-Lo sente, prof?! - strillò Monica – Vede? Qua ci sono delle
preferenze!
-Che preferenze ci sono?! Non ti ho neanche toccata, cretina. Ma faccio presto a toccarti se continui con i tuoi discorsi del cazzo.
-Uuuh! - fece qualcuno dal fondo della classe; Cappelletto si voltò, con sguardo truce.
-Sia ben chiaro che io, la Miotto, non la toccherei
mai in quel senso. Solo con un pugno o con le tenaglie – precisò, rabbioso.
-Lo sente, prof?!
-Ragazzi, veramente,
piantatela – Emanuele si stava seccando – e va bene, dedichiamo quest'ora alla discussione sul fatto che Bianca secondo voi viene trattata meglio di tutti gli altri. Ci perdo volentieri un'ora di lezione. In cambio, però, voglio sentire da voi argomentazioni sensate. È chiaro? Voglio che mi facciate capire come mai avete così a cuore questa faccenda delle assenze, e in quale modo queste assenze influiscano sulla vostra vita scolastica.
La classe si zittì velocemente. Tutti lo guardarono, ma nessuno aprì bocca.
-Allora? - insistette – Nessuno che mi sappia spiegare quali danni irreparabili sono stati inflitti sulla vostra persona dalle assenze di Bianca?
-Se io stessi assente per tutti questi mesi, mi boccerebbero – grugnì Valentina Tessari, dal fondo della classe. Era una che passava metà della sua vita sui libri, e aveva sempre odiato Bianca perché a lei i buoni risultati uscivano senza sforzo.
-Forse ti boccerebbero perché hai cinque materie sotto e il resto con un sei tirato, Valentina, non tanto per le assenze – specificò Emanuele.
-E allora solo perché quella è brava a scuola può stare a casa tutti i giorni che vuole?!
-Scusa, noi dovremmo bocciare una studentessa valida, che per di più dopo le assenze recupera con le interrogazioni tutto il programma, che di solito si studia da sola, perché ogni tanto si ammala e ha problemi a venire a scuola? Ma che discorsi stai facendo, Valentina? Ragazzi, che ragionamenti fate, voi, nella vostra testa?
-Vede? - esclamò Monica, sbarrando gli occhi e puntando un pugno sul banco – Fate le preferenze perché ha voti alti!
-Non siete altro che un branco di vipere! - si esasperò Cappelletto, scattando in piedi e fissando torvo Monica – Se una è brava a scuola e quando torna dalle assenze dimostra di sapere il programma, che motivo c'è di bocciarla?!
Questo ti sta dicendo il prof, stronza pettegola del cazzo! - guardò Emanuele, nervosamente – Giusto...?
-Giusto – confermò Emanuele – ma vediamo di mantenere un linguaggio decoroso.
-Il mio linguaggio
è decoroso!
-Non parlava con te, serpe. Parlava con me.
-Non ti permettere di chiamarmi “serpe”!
-Beh,
sei una serpe, e serpi siete tutte quante – diede uno sguardo accusatorio in giro – beh, a parte Morticia, lei si salva. Voi non sapete niente, però pretendete di parlare. Giudicate, e criticate, e rompete sempre le palle. Ma una vostra vita di cui occuparvi non ce l'avete mica...? Dovete per forza parlare tutto il tempo di quella di Bianca?
-Non è colpa nostra se lei si mette in mostra!
-Monica, Dio santo, come fa a mettersi in mostra se è assente?! - intervenne finalmente Valeria, sbuffando. Valeria parlava spesso sbuffando e borbottando, ma stavolta sbuffò più forte del solito. - Per favore, facciamoci gli affari nostri. È vero che rompeva le palle quando c'era. Ma adesso che non c'è, non vedo il bisogno di stare qui a farle la festa alle spalle.
-Io le direi le stesse cose esattamente in faccia!
-E allora digliele quando torna, no? Invece che farci perdere ore di lezione per queste stronzate.
-Non sono ore perse. È
giusto discutere di queste cose.
-Ma fammi il piacere. Tu ti sei vista troppo
Gossip Girl.
-Bianca non ha niente a che vedere con Serena Van Der...
-Ragazzi, non vi ho lasciato un'ora di discussione per parlare di Serena Van Der Woodsen.
-Non l'ho tirata fuori io – si inasprì Monica.
-Per favore, piantiamola – borbottò Valeria, con un sospiro, alzando gli occhi al cielo.
-Avete qualcos'altro da dire? - invitò Emanuele – Prego. Ormai l'ora è stata dedicata al dibattito. Proteste? Suggerimenti? Veleno gratuito-ops, scusate, mi è sfuggita?
-Lei sta dalla sua parte come tutti gli altri – sputò Valentina – l'ha data anche a lei, per caso?
La classe ammutolì. Perfino Monica guardò Valentina con stupore. Quella si guardò attorno, nervosa.
-Beh? Cosa c'è? Lo pensate tutti, no?
-Ma solo tu puoi essere così cretina da dirlo – mormorò nella sua direzione Crivellaro, scuotendo la testa.
-Lo sai che potrei prendere seri provvedimenti per questa insinuazione? - le fece notare, con calma, Emanuele – Non puoi muovere simili accuse a un professore. È molto grave. Potrei denunciarti per diffamazione, se non fossi un po' più umano di molti colleghi e non prendessi le tue parole per ciò che sono, ovvero gli sfoghi di una ragazzina di sedici anni infuriata.
-Dica pure
frustrata e imbecille – borbottò Cappelletto, lanciandole un'occhiataccia.
-Vi prego, piantiamola – gemette Valeria, con aria estremamente seccata, reggendosi la tempia con una mano – vi giuro, siete deprimenti.
-Detto dalla regina dei depressi...! - sibilò Valentina, ma Valeria si limitò a sospirare e a scivolare sempre di più verso il banco – E a proposito di depressi, lo so benissimo come fa a ottenere quel che vuole ogni volta. Buu-huu, lacrimucce di coccodrillo. Poverina, quanto mi dispiace per lei, buu-huu-huu.
Cappelletto si alzò e iniziò a marciare verso il banco di Valentina, ma fu prontamente fermato dalla mano di Valeria, che si sporse dal banco ad afferrare il lembo della sua felpa. Questa sospirò ancora, guardando davanti a sé con aria tremendamente annoiata.
-Spero che il resto della classe serbi delle argomentazioni più serie a sostegno delle proprie accuse – riprese Emanuele – ma prima che me le esponiate, lasciatemi dire una cosa. So che è molto facile fermarsi alle apparenze e puntare il dito contro qualcuno, e so anche che creare un capro espiatorio da caricare di tutte le nostre frustrazioni è ancora più semplice. Ma la verità è che non sappiamo niente di quello che provano gli altri. Un vecchio proverbio indiano dice: prima di giudicare un uomo, cammina per tre lune nei suoi mocassini.
Ci fu un attimo di silenzio.
Poi Valentina fece schioccare la lingua con sprezzo.
-Sono tre anni, non tre
lune, che ce l'ho in classe. Giunti a questo punto credo di avere il diritto di giudicarla.
Emanuele si passò una mano sugli occhi.
-Allora io ho diritto, dopo tre anni, a giudicarti una vipera pettegola come la tua amichetta Miotto – insorse Cappelletto, instancabile.
-Io me ne vado – fece Valeria, alzandosi e incamminandosi verso la porta – prof, aspetto qua fuori in corridoio con l'iPod. Mi fa un chiamo quando riprendiamo con la lezione?
-Aspetta – la chiamò Emanuele; lei si fermò sull'uscio. Tornò a rivolgersi alla classe. - Sinceramente, mi aspettavo qualcosa di più da voi – incominciò, con un tono calmo che li fece ammutolire. Continuò. - Quantomeno che aveste la decenza di zittirvi, dopo che vi è stato spiegato che non c'è nessun trattamento di favore. Sto ancora cercando di capire cosa vi sia stato tolto, cos'è che vi rode così profondamente il culo, ma proprio non ci arrivo. - Scosse la testa. - Perdonatemi. Non riesco a mettermi nei vostri panni.

Detto ciò, chiuse la Divina Commedia e si abbandonò beatamente sulla sedia.
-Fate quello che volete, per quest'ora – li esortò – tanto, la lezione era comunque andata persa.
Ma nessuno osò più aprire bocca. Valeria rimase ferma sulla soglia fino alla fine dell'ora, tormentandosi i guantini di pizzo, Cappelletto fissò rabbiosamente quel punto fuori dalla finestra su cui Bianca era solita posare lo sguardo, e il resto della classe rimase solennemente in silenzio finché non suonò la campanella della sesta ora; ma anche in quel momento, fino a che Emanuele non ebbe recuperato la ventiquattrore ed ebbe varcato la porta con un noncurante “a domani”, non volò una mosca in tutto lo spazio dell'aula.
Mariolina, più tardi in corridoio, gli chiese cos'avesse mai fatto per farle trovare la classe muta e perfettamente immobile al temibile cambio della quinta ora.

Camilla fu scandalizzata dal comportamento della classe, e prese apertamente le difese di Bianca.
-Com'è possibile che non si siano accorte dei suoi problemi? - fu il suo commento – C'erano anche loro, quando lei piangeva.
-Ma per loro era buu-huu-huu. Questi sono i livelli della terza A. E io che speravo di avergli insegnato qualcosa; non la
Divina Commedia, per carità... ma un po' di comprensione umana. E anche un po' di sana voglia di farsi gli affari propri.
-Non ho veramente parole – mormorò Camilla, scuotendo la testa – che ragazzini crudeli. Una loro compagna è assente da due settimane, e loro non pensano ad altro che a sparlare di lei quando è assente.
-Per la verità, non ci vanno leggeri nemmeno quando è presente – le rammentò – però è orribile da parte loro fare questi paragoni. Se non fosse evidente che ha dei problemi, potrei forse capirli. Ma è talmente
lampante.
-Questo succede quando uno non vuole vedere – osservò Camilla – se si togliessero le mani dagli occhi, sarebbero costretti a guardare, e a prendere atto di quelle che sono le ragioni di Bianca. È più semplice coprirsi la visuale e sostenere pervicacemente le proprie idee, per miopi che siano.
-Precisamente. So che come insegnante dovrei mantenere la neutralità, ma non riesco a stare calmo e cercare di conciliare. Se mi fanno infuriare, io li tratto da stupidi. Non dovrei, ma non riesco a fare altrimenti.
Camilla sorrise e gli accarezzò dolcemente un braccio.
-Se servisse a qualcosa, poi – continuò, imbronciato – se trattarli da idioti servisse a farli crescere, a farli rendere conto. Ma poi li guardo e mi rendo conto che non è servito a niente, che ci ho solo rimesso un pezzo di fegato per avere come risultato un muro di ottusità che si alza di giorno in giorno. Capisci? Tu pensi di averlo abbattuto, poi alzi gli occhi e vedi che è più alto di prima.
-Capisco molto bene.
-Pensi di aver lasciato il segno, di aver significato qualcosa. Di averli
cambiati, almeno un po', di aver indotto una piccola riflessione, almeno. E invece nulla. E sai qual è la cosa peggiore? Non so nemmeno distinguere se sia io, il fallimento, o se lo siano loro.
-Il tuo solito problema – commentò Camilla, seguendo delicatamente il contorno del suo viso con l'indice.
-Sì, è il mio solito problema. Mi do la responsabilità delle mancanze degli altri, pensando che se io davvero valessi qualcosa, sarei riuscito nel mio intento di migliorarli.
-Mi sembra di averla già sentita, questa – sorrise lei.
-Lo so, è storia vecchia. E so che è sbagliato definirmi in base alla misura in cui riesco a scalfire una parete di pietra con una forchetta di plastica. Ma non riesco a farne a meno, capisci. Forse idealizzo troppo il ruolo dell'insegnante. Magari ho sbagliato mestiere.
-E che mestiere vorresti fare? - Camilla era divertita.
-Non so. Forse lo psicologo della scuola – scherzò – o forse semplicemente il papà.
A quell'affermazione seguì un silenzio stupito da parte di Camilla, che boccheggiò per qualche secondo fissandolo con uno sguardo spaesato.
-Ehi – ridacchiò, dandole un pizzicotto su una guancia – Emanuele chiama base. Sei ancora tra noi?
-Io... - fece lei, confusa – cioè... io... cioè... ma tu... cioè. Tu vorresti... davvero?
-E perché no? Sì, direi che una graziosa piccola Camilla che trotta per la casa non mi dispiacerebbe.
Lei lo guardò, a bocca aperta. Emanuele rise. Per un bel po', rimasero così; lei che alzava gli occhi dal piatto e lo guardava sbalordita, lui che incontrava il suo sguardo e rideva.
Sì, pensò. Una piccola Camilla che zampettava attorno al tavolo non gli sarebbe dispiaciuta affatto.

Bianca non si presentò per un'altra settimana di fila.
Emanuele sapeva cosa stava succedendo: Bianca era immobile nel suo letto a piangere. Sapeva che stava andando avanti da una ventina di giorni. Sapeva; e nonostante questo, pensava disprezzandosi, cercava di allontanare l'immagine di Bianca dalla sua mente, riempiendola con qualsiasi cosa gli capitasse sottomano.
Tornando da scuola, il mercoledì, si era fermato alla Feltrinelli ed era tornato a casa con una quindicina di volumi.
-Così tanti? - si era stupita Camilla.
-Troppo pochi – aveva replicato – insegno pur sempre Lettere; questi dovrebbero essere il
minimo.
Non amava mentirle, ma non voleva, a nessun costo, torturarla di nuovo con la figura di quella ragazzina. Preferiva consumarsi dentro e combattere ogni singolo istante coi suoi sensi di colpa, ma farlo rigorosamente
da solo. Aveva promesso a se stesso e a lei che non l'avrebbe mai più coinvolta. Intendeva mantenere.
E fu così che Emanuele decise che era tempo di farsi la tessera d'abbonamento al cinema, e, quella settimana, ci andarono una sera sì e una no.
Nei giorni che rimanevano, si organizzò come meglio poteva: un giorno osservò che era da tanto che non si vedevano con Simonetta e Nicola, e quindi li invitarono a cena; un altro giorno accettò la proposta di un happy hour da parte degli amici del paese, che poi tirò avanti fino a sera tardi; il giorno rimanente era sabato, e il sabato poteva anche prendere e andare via con Camilla in giornata.
Ma Camilla voleva rimanere a casa.
-Come, a casa? - le chiese; ma si rese conto di suonare piuttosto ansioso – Non ti va di fare una piccola gita assieme? Torniamo stasera. Una cosa tranquilla.
-È una bella idea, amore, ma oggi sono un po' stanca. Stasera usciamo, e andiamo dove vuoi, ma oggi posso rilassarmi un poco a casa mia? Solo per oggi – promise, con il suo sorriso dolce.
Ma Emanuele era nervoso. Quando non aveva nulla con cui occuparsi, i pensieri lo assalivano, come un plotone di soldati che attaccasse un forte medievale.
Pranzarono pigramente – si erano alzati piuttosto tardi – e, dopo il caffè, Camilla prese un libro e si sistemò comodamente sul divano. Emanuele fece un po' di zapping, ma non trovò nulla d'interessante – doveva ricordarsi di andare a informarsi sul digitale terrestre.
Propose una sessione di shopping in centro, ma Camilla rispose che per quel mese, per via del weekend a Parigi, avevano già speso parecchio, quindi non era il caso.
-Un giretto? - implorò Emanuele – Solo per uscire di casa.
Lei sollevò due occhi molto sorpresi dal libro che stava leggendo.
-Ema – incominciò, perplessa – è tutta la settimana che siamo in giro.
-Lo so – fece lui, incapace di replicare.
-Stasera usciamo, te l'ho promesso. Non va nemmeno a me di stare chiusa in casa. Andiamo anche a prendere lo spritz prima di cena, se vuoi. Ma lasciami qualche oretta di pace, sii gentile.
Camilla sfoderò uno dei suoi famosi sorrisi, ed Emanuele non poté rispondere nulla. Si rassegnò ad afferrare un libro e ci mise un'ora solo per leggere una decina di pagine. Continuava a perdere il filo, e a riaggrapparcisi con forza non appena il suo pensiero premeva per raggiungere Bianca.
Ad un certo punto, Camilla chiuse il libro e si voltò verso di lui.
-Che cosa c'è? - chiese, pacata, ma decisa.
-Io? Nulla – Emanuele fece una faccia sorpresa; ma mentire era una cosa che non gli riusciva molto bene, specie con la ragazza con cui conviveva da ormai tre anni.
-Mi sembri irrequieto – osservò quest'ultima – lo sei da tutta la settimana.
-Dici? - temporeggiò; tornò ostentatamente al proprio libro.
-Dico – insistette lei – sembra che tu non riesca a stare fermo e in silenzio due minuti.
-Ma va'.
-Allora mi sono sbagliata?
-Amore, è tutto a posto. Davvero.
Camilla tacque per qualche secondo; Emanuele continuò a fissare le pagine del libro, senza però leggere nemmeno una sillaba. Sentiva che lei lo stava guardando, e aveva la brutta sensazione di stare arrossendo.
-Bianca è stata assente, questa settimana? - chiese lei alla fine.
-Eh? - fece lui, guardandola con aria sorpresa.
-Bianca è ancora assente, vero? Sei preoccupato per lei? È per questo che non riesci a tranquillizzarti?
-Ma no – esclamò, con fin troppa enfasi – non c'entra niente. Sì, è assente, ma non è per lei che... cioè...
-Allora ammetti di essere un po' teso.
-Cami...
-È per lei...?
Abbassò la testa, sconfitto.
-Credo di sì – ammise. - Cioè. È per me, più che per lei.
-In che senso? - chiese Camilla. Non sembrava arrabbiata. Ma non sembrava nemmeno partecipe. Quella neutralità un po' lo spaventava.
-Nel senso che lei è a letto a piangere, e io lo so. Ma benché io lo sappia cerco comunque di dimenticarmelo. Cerco di allontanarla dai miei pensieri, e questo non è giusto. È
egoista.
-È per non pensare a lei che stiamo facendo questo
tour de force?
-Camilla, ti prego, non fraintendere. Ti prego.
-Non c'è molto che io possa fraintendere.
-Sì, ma... non fraintendere.
-Ema... - Camilla sospirò, rassegnata. - Non so cosa pensare. Sembra che, qualunque cosa io faccia, quello che fa lei sia sempre più importante. Il tuo umore cambia in base al suo. E io non riesco nemmeno a far qualcosa per riportarlo alla stabilità.
Emanuele ammutolì.
-Sai – continuò Camilla – se lei non avesse sedici anni, penserei che tu te ne sia innamorato.
-
No – esclamò – no. Nel modo più assoluto, no.
-Già. È per questo che è triste. Non ne sei innamorato, eppure riesce a coinvolgerti più di quanto riesca a fare io. Devo dirti la verità? Mi sento molto triste. E insignificante.
Camilla non pianse, non si arrabbiò, non lo guardò nemmeno. Si limitò a mettere il segno al libro che stava leggendo e ad avviarsi su per le scale, con un'espressione amara che non le aveva mai visto.
Emanuele si sentì sprofondare.
Che cosa doveva fare? Cosa doveva fare? Preoccupandosi per Bianca, feriva Camilla. Preoccupandosi per Camilla, doveva trascurare Bianca. Trascurare Bianca significava ferire anche sé stesso. Ma anche ferire Camilla significava ferire sé stesso.
E d'altronde, cosa poteva fare? Andare da Bianca, dirle: “esci da quella stramaledetta depressione, cazzo, mi stai rovinando la vita”? O andare da Camilla e dirle “è mio pieno diritto rovinare la mia esistenza e la tua perché quella ragazzina mi sta divorando anima e corpo”? E a se stesso, cosa poteva dire? Non era nemmeno in grado di reprimere quello che provava. Ma era poi giusto, reprimersi? Sarebbe cambiato qualcosa, anche se avesse finto indifferenza verso Bianca? Ed era davvero una colpa, se si ritrovava a preoccuparsi così tanto per lei? Non l'aveva certo chiesto lui; fosse stato per lui, avrebbe continuato a vivere sereno nella sua casa con la sua fidanzata e la sua vita tranquilla.
Fermo, si disse a un certo punto. Qui siamo a un punto morto.
Aveva evitato di affrontare il problema per tutta la settimana, e, quando l'aveva affrontato, si era ritrovato davanti a un muro. Ma era tempo di porsi una domanda: possibili soluzioni?
Poteva andare a parlare con Bianca. Ma questo non avrebbe risolto molto. Tanto più che non sembrava fosse in grado di parlare con chicchessia.
Oppure poteva parlare con Camilla, rassicurarla, farle un'altra sorpresa magari, ma sapeva che non avrebbe funzionato. Le sorprese funzionano una volta sola. Ed era certo che ormai lei non credesse più alle sue promesse.
Ma poi un pensiero gli attraversò la mente.

Il problema, in fin dei conti, non era suo.

Certo, era anche suo, dato che sia Bianca che Camilla facevano il possibile perché lui avesse ben chiari i loro tormenti e se ne preoccupasse. Ma il vero problema, in fin dei conti, era tra quelle due. Non suo.
Perché doveva perderci
lui il sonno, solo perché Bianca non era in grado di accettare che lui amasse un'altra, e Camilla non era in grado di accettare che lui avesse un legame profondo con un'altra persona?
A quel pensiero si risentì parecchio contro le due, e improvvisamente si sentì di nuovo forte.
Salì le scale a passo di marcia e scovò Camilla seduta sul letto, che leggeva il suo libro con aria profondamente contrariata. Spalancò la porta e la guardò, determinato.
-Vestiti – le disse – per favore. Vorrei portarti in un posto.
-Quale posto? - chiese lei, con distacco. Non si fece scoraggiare.
-Ti porto dalla fonte di tutti i tuoi malesseri.
-Cioè...?
-Ti porto da Bianca – replicò tranquillamente, e, quando lei aprì bocca per protestare, riprese immediatamente. - Ti porto a vedere lo stato in cui versa, e, se siamo fortunati, forse ci potrai anche scambiare due parole. Purtroppo devi arrenderti davanti a un fatto: non intendo smettere di preoccuparmi per lei. Finché lei si rivolgerà a me, io continuerò a risponderle. Per cui, se vuoi che io smetta di pensare a una ragazzina di sedici anni che due mesi fa ha tentato il suicidio e ora sta in un letto a piangere in stato catatonico, dovrai andare lì personalmente e dirle di uscire dalla mia vita. Perché io non ce la butterò
mai fuori di mia volontà, mettitelo bene in testa.
Camilla lo guardò, e nel frattempo iniziò a piangere in silenzio. Ma Emanuele era deciso a proseguire.
-Mi dispiace, Camilla. Mi dispiace davvero per quello che sta succedendo. Ma tu stai comportandoti decisamente da bambina, scusa la franchezza. Tu sei meravigliosa, e dolce, e intelligente, e io ti amo da morire. Ma non puoi pretendere che tutte le mie attenzioni siano per te, in un momento come questo. Sembra che tu non voglia capire una cosa: io
non sto pensando a lei come fa un innamorato. Sto pensando a lei come faresti tu stessa se una tua nipotina di sedici anni si ammalasse di depressione. Tu hai una cuginetta che ha più o meno la sua età, vero? Vittoria. Giusto?
Camilla annuì tra le lacrime.
-Ecco. So che le vuoi molto bene. E so che se tentasse il suicidio ti preoccuperesti molto, sbaglio? Se non la vedessi per quasi un mese, e sapessi che in tutto quel tempo è chiusa in casa a pensare che la vita è una merda e che quindi non vuole più viverla, tu non saresti preoccupata? Cazzo, non ti tormenteresti giorno e notte...?
Annuì ancora, singhiozzando ed asciugandosi il viso.
-Ecco. E allora perché mi costringi a dover far finta di niente? Se una persona a cui tieni versasse in questo stato, non verrei mai da te a pestare i piedi perché non sei perfettamente concentrata su di me e sul nostro rapporto. Penserei che passi un periodo di merda e che sei preoccupata per quella persona. E allora perché tu non puoi fare lo stesso con me?!
Camilla scoppiò a piangere rumorosamente, ed Emanuele le si avvicinò. Si sedette su una sponda del letto.
-Io non ti ho mai trascurata per lei, in fondo – continuò, a bassa voce – non ho mai rifiutato di uscire, o di fare l'amore, o ti ho risposto male. Eppure tu te la prendevi con me, perché spesso ero triste. Avrei preferito che tu mi stessi vicino, anziché... accusarmi.
L'aveva detto.
Quella sensazione che aveva sempre avuto, ma che non era mai riuscito a distinguere chiaramente, ora era uscita a parole senza che lui dovesse cercarla. Era venuta così, naturale.
Era la verità.
-Non volevo fare i capricci – singhiozzò Camilla – io volevo... volevo essere una brava fidanzata, che non ti dà problemi. Però... tu mi dici che devo parlarti, quando qualcosa non va. E allora io ho parlato. Ma tu ti sei arrabbiato. E allora vedi? Dovevo stare zitta – singhiozzò ancora più forte, nascondendo il viso tra le ginocchia. Le accarezzò dolcemente la schiena.
-Hai fatto bene a parlare – le sussurrò – perché, se non avessi parlato, io non avrei potuto dirti che ti preoccupi inutilmente. Non ti sto dicendo che non esprimere le tue sensazioni, né ti sto accusando per il fatto di provarle: se ti sei sentita messa da parte, probabilmente hai avuto le tue ragioni. Ma ci tenevo a spiegarti quel è il mio atteggiamento nei confronti di Bianca, perché tu la stai mettendo sul tuo stesso piano, mentre lei non è affatto sul tuo stesso piano, e non lo sarà mai. - Sospirò. - Io non ti permetterei mai di ucciderti. Non cercherei di dimenticarti solo perché lei me lo chiede. E se tu passassi le giornate a piangere, lo farei anch'io.
Camilla sembrò calmarsi. Lo guardò, sperduta, in attesa che continuasse.
-Però, adesso a trovarsi in difficoltà è lei – spiegò – e quindi devo dedicarle le mie attenzioni, il mio aiuto. Io le voglio bene, Camilla. Mi spezza il cuore vedere come si è ridotta quella ragazzina così giovane, dato che, per quanto tu lo odi, mi ci sono affezionato. Non puoi chiedermi di non essere in pensiero per lei, perché mi ha detto delle cose che mi hanno paralizzato. Cerca di capirmi, ti prego. Cerca di starmi accanto. Perché se ti ho scelto è perché non ritenevo che nessuna ne fosse in grado... a parte te.
Tacque. Posò lo sguardo da qualche parte sulla trapunta colorata, come se le chiedesse cosa fosse più giusto fare. Poi lo spostò sulla finestra, e infine tornò negli occhi di Emanuele.
-Io – iniziò con voce roca – posso accettarlo. Ma lo faccio fidandomi ciecamente di te. È l'unico modo in cui riesco a scendere a patti con una cosa del genere.
-Tu puoi fidarti – esclamò – qualsiasi cosa accada, tu devi sapere che io non me ne andrò mai. Non ti sei fidata di me, fino ad oggi?
-Sì – mormorò lei, abbassando gli occhi.
-Ehi – la chiamò – ti sei sempre fidata di me?
Ma lei non rispondeva.
-Camilla.
Lei sollevò il viso e gli rivolse un'occhiata molto triste. Aprì la bocca, poi la richiuse. Poi sembrò ancora più triste.
-Non ti fidi...?
-N... non è che non mi fidi – incominciò, incerta – è che tu hai sempre avuto decine di ragazze. In paese ti avevano anche chiamato...
-Ok, tralasciamo come mi hanno chiamato.
L'avevano rinominato il maiale del paese, per dirla in termini diplomatici. Una fama che si era decisamente guadagnato.
-Perché ne conquistavi una dietro l'altra. E non sono mai riuscita a capacitarmi che tu avessi scelto proprio me. E
solo me.
-Ma, scusa, Camilla, perché avrei dovuto chiederti di sposarmi, se avessi avuto ancora voglia di fare il coglione?
-Non lo so. In tanti lo fanno perché
a trent'anni è ora di sistemarsi, e poi magari tradiscono la loro compagna, o...
-Senti, ma è questo che pensi di me? No, perché, se questa è l'opinione che ti sei fatta sul sottoscritto, c'è da domandarsi perché tu abbia risposto 'sì'.
-Perché io ti amo.
-Lo dici come se intendessi 'a differenza tua,
io ti amo'.
-Non intendevo questo.
-Davvero...?
-Per favore, basta – gli occhi di Camilla si bagnarono di lacrime – non voglio litigare con te. Voglio solo stare tranquilla. Voglio solo... voglio solo...
Incapace di esprimersi, scoppiò nuovamente in lacrime. Emanuele rimase vicino a lei, guardando la trapunta, inespressivo. Alla fine, molto lentamente, parlò.
-Mi sembra di capire – le disse – che il problema non sia Bianca.
-No – ammise Camilla, tra i singhiozzi.
-Il problema è che tu non ti senti sicura di me.
Lei non rispose, ma pianse più forte. Lo prese come un 'sì'.
-Non che non ce l'abbia con te, ma dev'essere in parte colpa mia, se lo pensi. Ho fatto qualcosa perché tu lo pensassi?
-No – sussurrò lei – mai.
-Ma neanche niente perché tu non lo pensassi, giusto?
-Io ho sempre cercato di fare del mio meglio – fece lei, con voce tremante – perché tu rimanessi vicino a me. Di essere sempre calma e gentile, di non darti pensieri. Perché ho paura che tu te ne vada.
-E da chi dovrei andare...?
-Da... da quelle che ci provano. Da quando ti conosco ce n'è sempre state, in continuazione.
-Ah, beh, sì. Io vado con chiunque me lo chieda. Sicuro.
-Non volevo dire questo!
-Però purtroppo l'hai detto, si vede che ti è sfuggito. Mi spiace che tu lo pensi, ma, no, non sono assetato di sesso al punto di andare con tutte quelle che ci provano. A questo punto, dovrai pensare che la proposta di matrimonio sia stato qualcosa come un pesce d'aprile, dato che comunque io sto con te per finta, vado con le altre e non me ne frega niente di te.
-No! - gridò Camilla, e scoppiò in singhiozzi disperati.
Fantastico, pensò Emanuele. Dovunque si girasse, c'erano donne che piangevano perché l'amavano.
Era un po' arrabbiato, perché anche lui avrebbe voluto urlare che rivoleva la sua vita di prima, quella senza dubbi e problemi e lacrime.
Ma non poteva più accusare Bianca di avergliela rubata.
Bianca non aveva fatto altro che risvegliare delle vocine addormentate sepolte nella parte più profonda di loro stessi; quella parte in cui finora, nonostante dormissero fianco a fianco e respirassero in coro, non avevano ancora avuto modo di scavare.
Modo, oppure volontà. Oppure coraggio.
Perché era pur vero che, in fondo, i timori di Camilla non erano per nulla infondati, e di questo non poteva accusare altri che se stesso.

Quel giorno non andarono da Bianca. Nemmeno Emanuele ci andò, non ce la faceva.
C'era troppa tristezza dentro di lui per riuscire a sostenere anche quella di Bianca. Quelli per ritornare in sella del suo candido destriero non erano stati altro che vani tentativi.
In realtà, quel giorno avrebbe voluto dormire da un'altra parte, lontano da Camilla. Aveva voglia di starle lontano, e ne soffriva enormemente, perché non aveva mai voluto starle lontano nemmeno per un secondo.
Capì che si può perdere l'amore anche quando non sono gli altri a negarcelo: può anche sfuggirci scivolando attraverso le nostre stesse dita, e noi possiamo solo guardarlo andarsene, volando lontano come granelli di sabbia cullati dolcemente dalla brezza che, alla fine del loro viaggio, si disperdono nel mare per sempre.

Quella settimana si parlarono poco, sempre cortesemente, fingendo che qualcosa non si fosse rotto tra di loro; ma era nell'aria, l'avvelenava e la rendeva irrespirabile. Quella gentilezza formale non era ciò a cui erano abituati. Non fecero mai l'amore, quella settimana, e dormirono senza abbracciarsi per qualche giorno. Alla fine si riavvicinarono, ma quando si toccavano sembrava toccassero una superficie rovente. Nessuno disse nulla al riguardo.
Stiamo per sposarsi, pensava Emanuele, ed ecco come siamo ridotti.
E ciò che più gli faceva male era che Camilla aveva un grande peso nel cuore, ma non ne parlava, e probabilmente non ne avrebbe parlato mai più, né di questo né di altro, per paura di causare una nuova rottura.

Un giorno, quando il pensiero di Camilla che soffriva dentro di se in silenzio gli divenne insopportabile, l'abbracciò forte sotto il piumone e versò qualche lacrima tra i suoi capelli.
Lei gli strinse forte le mani e lui circondò la sua schiena tremante.
Entrambi cercarono di mantenere il silenzio, perché sentivano che, se avessero parlato, il momento si sarebbe spezzato. Era un momento così fragile che sembrava ammonirli di non perderlo, poiché poteva essere l'ultimo.


*


Bianca tornò con aprile, con i venti più tiepidi e i primi timidi boccioli.
Emanuele ora riusciva a guardarla con reale distacco. Aveva realizzato che non era lei a costituire la barriera innalzatasi tra lui e Camilla, quindi si sentiva pronto a guardare la situazione non come a un problema che lo affliggeva, ma come a un problema che affliggeva Bianca stessa.
Il due di aprile Emanuele varcò la soglia della terza A e vide Cappelletto e Valeria attorno al banco di Bianca; le parlavano. Sorrise. Quando entrò, Cappelletto lo guardò, e vide negli occhi di quel ragazzino un sincero sollievo. Nel mentre, sembrava che Valeria faticasse molto a parlarle – d'altronde provenivano da due universi totalmente differenti – ma gli sembrò un buon segno che ci stesse provando. Del resto, Valeria era una che parlava poco e aveva un carattere abbastanza scontroso; naturale che si trovasse a disagio con una come Bianca.
Quanto a Bianca, lei era come al solito; i capelli rossi sembravano una vampata di fuoco, l'ombretto nero e l'eyeliner le davano un'aria quasi maledetta che Valeria, nonostante la sua cipria e il suo trucco da dark lady, non riusciva in nessun modo ad emanare. Non si era risparmiata né sulla scollatura, né sulla porzione di gambe scoperte; i primi venticelli caldi l'avevano portata ad eliminare le calze pesanti e a sfoggiarne un paio di quasi trasparenti, tanto che sembrava avesse le gambe nude. Portava un paio di ballerine, questa volta, ma l'effetto totale non ne risultava diminuito di carica sessuale. Benché la disprezzassero, parecchi dei suoi compagni non riuscirono a non guardarle le cosce.
-Buongiorno – esordì sorridendo. I ragazzi lo salutarono, tranquilli. - Come va?
La faceva spesso, questa cosa del chiedere come andasse. Ci teneva a sapere se i suoi alunni fossero scontenti o tristi per qualcosa. E sapeva che questo li faceva sentire considerati anche come esseri umani; bastava così poco per andare incontro ai ragazzi, eppure tanti non se lo sognavano neppure, di domandare loro se andasse tutto bene.
A ben pensarci, era davvero brutto: se avessero incontrato un conoscente per strada, sicuramente come prima cosa gli avrebbero detto 'come stai?'. I suoi colleghi vedevano quei ragazzini ogni giorno, e mai che trovassero la voglia di chiedere se fosse tutto a posto.
-Male, prof – bofonchiò Monica, guardando di sottecchi Bianca. Valeria l'apostrofò con un:
-Chiudi quella fogna, ogni tanto – mentre Cappelletto le mostrava il pugno, alzando un sopracciglio con un'occhiata eloquente.
Bianca aveva trovato due angeli custodi. Gli sembrò di vedere le sue labbra incresparsi in un accenno di sorriso.
Fu nel notare questo che si accorse che, sul suo labbro inferiore, troneggiava un piercing nuovo fiammante a forma di spirale.
E Cappelletto lo fissava con un'aria decisamente più che incuriosita.
Notò anche alcuni segni sotto l'occhio destro, e dalla sciarpina di seta che portava attorno al collo facevano capolino delle macchie bluastre che Emanuele aveva già visto in passato.
Prese un respiro profondo, appoggiò la ventiquattrore e si disse, resisti.
Cedere non avrebbe mai risolto nulla.
Bisognava combattere.

-E con questa direi che posso lasciarvi in pace – asserì, alla fine della spiegazione – siete stati proprio bravi, oggi.
Si trattenne dall'aggiungere 'se solo foste
sempre così', cosa che, sapeva, avrebbe avuto il potere di irritarli enormemente. Tenne per sé questa considerazione, e vide dei sorrisi sulle labbra di alcuni alunni, orgogliosi di sé stessi. Tentavano di trattenerli, ma non erano molto astuti. Se ne rendeva conto ogni volta.
-Questi ultimi cinque minuti sono tutti vostri, fate quel che volete: colazione, iPod, PSP, disegnare draghi e cavalieri... basta che non alziate la voce, io intanto mi leggo il mio libro, ok?
La classe accolse la notizia con entusiasmo e tutti fecero per lanciarsi sulle loro attività di preferenza; chi aprì il libro dell'ora successiva, chi azzannò una merendina, chi, come Valeria e Benetazzo, disegnava furiosamente sulle copertine dei quaderni.
Ad un tratto, però, una ragazza che si chiamava Francesca ebbe un'illuminazione.
-Prof – esordì – ma lei tra due settimane si sposa!
Emanuele alzò gli occhi dal suo
Diario di un vecchio sporcaccione. Non fece in tempo ad aprire la bocca, che un coro di voci iniziò a spargersi nell'aria:
-Ma dai! È vero!
-Il prof si sposa!
-Il nostro scapolo d'oro!
-Ha per caso cambiato idea, su quel discorso della spada...?
Sorrise e lanciò loro un'occhiata, senza però aggiungere altro. Non era certo che a Bianca quel discorso facesse piacere.
-Allora siamo invitati alla cerimonia? - insistette Francesca – Possiamo, prof? Non facciamo casino.
-Posso entrare un attimo prima del bacio urlando 'questo matrimonio non s'ha da fare'? - lo implorò Cappelletto – Posso, posso, prof? È il mio sogno da una vita!
-Semplicemente
ti ammazzerei – replicò tranquillamente, e Cappelletto sospirò, scuotendo la testa – ma se volete venire, prego. Dovete solo prendere un autobus o due e farvi un'oretta di treno. Di domenica. E la cerimonia inizia sul presto. Ricordatevi che la sera precedente è un sabato – ghignò.
I ragazzi si guardarono in giro per un attimo, incerti, e un mormorio percorse l'aula. Ma, alla fine, fu Giulia a prendere una decisione per prima.
-Io vengo – dichiarò decisa – ci sono cinquantadue sabati sera in un anno, ma il prof si sposa una volta sola nella vita. Almeno questo gli si augura – precisò.
-Grazie, eh, Giulia?
-Comunque vengo anch'io – asserì Cappelletto – sicuro. E viene anche Bianca, vero? E anche Morticia.
Valeria alzò un dito verso Cappelletto ma poi guardò Emanuele, scocciata, e annuì.
Bianca, invece, guardava il davanzale e ridacchiava. Accortasi che Emanuele e Cappelletto la guardavano, si affrettò a tornare seria e fece:
-Cosa? Io? Quel giorno temo di avere un impegno. Mi dispiace.
Altra ondata di mormorii, questa volta perfidi. Valeria lanciò in giro delle tali occhiatacce che smisero quasi subito, ma la voce che Bianca, oltre che facile, fosse anche cattiva e maleducata, ormai era partita e difficilmente si sarebbe fermata.
Tuttavia, ora in classe c'era qualcuno che la difendeva; a ricreazione notò che i due le stavano vicini, rinunciando lui alla compagnia dei suoi amici ricchi e griffati, lei ai suoi amici di nero vestiti delle altre sezioni. Probabilmente i tempi non erano ancora maturi per amalgamarla ad altri gruppi, ma il fatto di vederla in compagnia di quei due le giovò molto: Cappelletto, nonostante non fosse granché sveglio, era piuttosto popolare, mentre Valeria non era popolare, ma era rispettata, e, laddove non lo fosse, suscitava comunque una certa inquietudine in coloro che non la conoscevano bene.
Erano davvero uno strano trio, così diversi, ed Emanuele si domandò di che accidenti parlassero, perché erano davvero il gruppetto peggio assortito di tutta la scuola. Eppure forse proprio per quello chiacchierarono fitto fitto per tutta la ricreazione, e vide Cappelletto passarle un braccio attorno alle spalle, e Valeria, che non era altrettanto propensa alle smancerie, le offrì un the alla macchinetta e lanciò insulti e occhiatacce a chiunque facesse battute inopportune, che era il suo modo di dimostrare affetto.
Emanuele decise di azzardarsi a parlarne con Camilla.
-Sai, oggi è tornata Bianca – esordì, timidamente.
Lei annuì, e lo guardò in attesa.
-Ha trovato degli amici – proseguì, con un sorriso incerto – Cappelletto e Valeria. Te ne ho mai parlato?
-Mmh, sì.
-Ecco. Ora girano con lei a ricreazione, la difendono. La situazione è migliorata.
Inaspettatamente, Camilla sorrise.
-Mi fa piacere – disse – davvero. Sono felice per lei.
Allungò una mano verso di lui, e suonò come l'alzata della bandiera bianca.
Emanuele la strinse e chiuse gli occhi, sentendosi un peso scivolare giù dalle spalle come una colata di cemento.

Il giorno dopo, al gruppetto si unì Benetazzo. Si era avvicinato principalmente per parlare a Valeria di un concerto, ma poi rimase a chiacchierare anche con gli altri due. Ad un certo punto, lo sentì esclamare:
-Ferreri, ma tu non sei stupida, cazzo. Fai di tutto per sembrarlo, ma non lo
sei – decretò, mani sui fianchi. Cappelletto gli mise una mano sulla spalla.
-Mi dispiace dirlo, ma PeneCazzo ha ragione – affermò – non dovresti far finta di avere il cervello vuoto, o che dentro ci siano solo enormi cappellotti.
-Così come questa qui non dovrebbe far finta di essere una strega cattiva – soggiunse Benetazzo, guardando Valeria con una certa dolcezza. Lei lanciò un'occhiata eloquente alle borchie e alle catene, sollevò un sopracciglio e lui alzò le mani in segno di resa.
Forse non sarebbero mai stati amici per la pelle, ma non aveva mai visto Cappelletto o uno dei suoi amici rivolgere la parola a Benetazzo o a uno dei suoi amici.
Notò con stupore come Bianca fosse stata capace non solo di separare, ma anche di unire.

I giorni passarono e sempre più spesso, in classe, si parlava del suo matrimonio. Curioso, perché in casa sua non se ne parlava mai, anche se i parenti chiamavano in continuazione per confermare gli inviti all'ultimo minuto, chiedere delucidazioni su una lista nozze che non esisteva nemmeno, parlare delle decorazioni in chiesa e al ristorante. I vestiti erano già stati acquistati, li avevano già provati. Le fedi erano nella loro scatolina, chiuse a chiave in un cassetto.
Con Camilla si era a una specie di armistizio. Non avevano ancora riparlato della questione 'fedeltà', ma sapeva che avrebbero dovuto farlo, prima del venti aprile. E mancavano meno di quindici giorni.
Nel frattempo, a scuola, Bianca era strana.
Come al solito, era irrequieta, non stava mai ferma, faceva la stupida – anche se ora aveva due poliziotti che vigilavano sul suo comportamento. Ma sembrava molto più interessata a quanto accadeva nella sua mente, piuttosto che a ciò che succedeva in classe.
-Bianca? Ci sei? - le chiese un giorno Cappelletto. Lei stava mormorando qualcosa in direzione della finestra.
-Eh? - si risvegliò – Sì, ci sono.
Quella volta andò così, ma la volta successiva Bianca continuò a mormorare a un destinatario sconosciuto.
Un giorno arrivò con due scarpe diverse a scuola. Guardò spaesata coloro che ridevano davanti al tronchetto e alla décolleté mischiati assieme.
Il giorno successivo, alla sesta ora, si mise a piangere e, quando Cappelletto le chiese cosa fosse successo, spiegò che non si ricordava dove fosse casa sua. Lui la rassicurò dicendole che l'avrebbe accompagnata; la prese per mano e la portò fino alla fermata dell'autobus, e poi ci salì sopra con lei e le accarezzò i capelli mentre lei singhiozzava in un modo che stringeva il cuore.
Valeria guardò Emanuele, e in quella ragazzina sempre sicura di sé vide qualcosa che assomigliava molto alla paura, e alla sensazione di non sapere cosa fare.
Lui era molto preoccupato, ma non ne parlò a nessuno, nemmeno a Camilla. Soprattutto, non a Camilla.
E il giorno dopo ancora lui non aveva Bianca, ma lei andò nel suo studio, disperata, chiuse la porta di scatto e lo guardò angosciata, dicendo che tutti la odiavano.
-Ma no che non ti odiano – le disse; ormai sentiva di aver perso la confidenza con lei, ma la sua richiesta d'aiuto la ripristinò immediatamente – hai anche trovato degli amici, hai visto?
Lei scosse la testa.
-A loro faccio pena – spiegò – perché mi hanno vista quand'ero a letto. Ma mi odiano tutti, prof.
Fu mentre parlava che notò una brutta ferita sul punto dove pochi giorni prima c'era il suo piercing. Deglutì.
-Non ti odiano – ripeté – davvero. E a loro non fai pena.
Bianca scosse ancora la testa. Emanuele sapeva che lei aveva ragione, per questo non riusciva a convincerla delle sue parole.
-E lei... - incominciò Bianca; poi s'interruppe – comunque non importa! - continuò, improvvisamente gioviale, asciugandosi le lacrime – Scusi il disturbo! Ora vado!
Scappò fuori dalla porta prima che potesse dirle alcunché.
Antonella più tardi gli raccontò di averla sentita raccontare a Cappelletto che il padre era un membro dell'ISO*** negli Stati Uniti, anche se tutti sapevano benissimo che il padre era un piccolo imprenditore nel settore calzaturiero. Poi gli aveva raccontato di quella volta che era andata in Erasmus per un anno a New York, cosa che non poteva essere successa, perché aveva frequentato quell'istituto da quando era uscita dalle medie e non era mai stata lontana da scuola per più di un mese o due. Infine aveva asserito con molta convinzione di avere un posto già riservato come commessa nell'atelier di Vivienne Westwood a Milano, tutto grazie alle conoscenze del padre.
-Dubito molto che siano cose vere – gli confessò Antonella – e se il padre è come me l'hai descritto, ho ancora più ragione di dubitarne.
Emanuele non disse nulla, tornò a casa e non ne parlò a Camilla. Lei rimase fuori quasi tutto il giorno per i preparativi. A cena chiacchierarono dei loro amici, che si sposavano, che avevano figli, dei libri che avevano letto, e anche quella sera si addormentò con Camilla appoggiata al suo petto, ma ancora le cose non davano l'idea di essersi sistemate.

Mancavano dieci giorni al suo matrimonio, all'incirca, e lui avrebbe voluto pensare solo a quello. La classe non faceva che ricordarglielo, esprimendo felicitazioni, appendendo fiorellini in giro per la classe. Anche i più antipatici dimostrarono autentico affetto nei suoi confronti; gli chiesero di portare una foto di Camilla, lui acconsentì. Quel giorno gliene chiese il permesso, così si portò dietro il portatile e, di nascosto, con la Wireless dell'istituto, si collegò a Facebook e mostrò loro qualche foto.
-Ma allora lei ha facebook, prof! - esclamò Francesca – La aggiungo subito!
-Ma allora anch'io!
-Anch'io!
-Mi accetta prof, vero?
Sospirò; se l'era cercata. Dopotutto, nell'era del digitale, sarebbe stato assai difficile trovare una foto in vera e propria carta fotografica, quindi non aveva visto molte alternative.
Guardarono le foto di loro due nelle vacanze di Natale, quando avevano fatto il Capodanno da amici. Si mostrarono molto sorpresi.
-Ma prof... quella è vodka!
-E quella è Anima Nera!
-Ma prof, qua fa finta di baciarsi con un tipo!
-Ehi – protestò Emanuele – ero coi miei amici a festeggiare. Scommetto che anche voi avete foto del genere.
-Sì, ma... - iniziò Crivellaro; cercava di spiegarsi, ma non ci riusciva.
-Fammi indovinare – l'aiutò – pensavi che siccome ho un lavoro e un mutuo allora non ho più voglia di farmi una bevuta coi miei amici.
-Be'... più o meno – ammise quello, imbarazzato.
-E se ti dicessi che il fatto di avere un lavoro e un mutuo mi mettono ancora più voglia di ubriacarmi?
-Quindi – s'illuminò l'altro – l'addio al celibato...
-Non lo farò – chiarì – lo trovo molto irrispettoso nei confronti di Camilla. Non ne sarebbe affatto felice.
-Ma la sua fidanzata lo fa un addio al nubilato? Ché al limite mi faccio trovare da quelle parti. Si immagini, trenta donne ubriache che hanno voglia di fare le ultime stronzate! E magari ci scappa anche la scena lesbo...!
-Fai schifo – dichiarò Giulia.
-Se vuoi la scena lesbo, non c'è bisogno che tu vada all'addio al nubilato – intervenne una voce, e, quando si girarono, videro il viso sorridente di Bianca. Fece un occhiolino a Crivellaro.
-Ma le amiche di Camilla hanno figli...? - domandò Cappelletto, con una certa agitazione.
-Eh? Beh, alcune sì. Perché?
-LEEE MIIIILF****! - gridò Cappelletto, al settimo cielo; si gettò addosso a Benetazzo ed insieme sprofondarono in quegli irrealizzabili sogni di gloria.
Be', avevano trovato qualcosa in comune. Anche lui, a tempo debito, era rimasto piuttosto affascinato dalla categoria, e non aveva esitato a togliersi la voglia appena gli era stato possibile.
Ci ragionò su un attimo. Si era davvero portato a letto un discreto numero di donne.
Forse Camilla non aveva tutti i torti a sentirsi insicura.
Alla fine, tornarono tutti al proprio posto, ed Emanuele iniziò la lezione.
Mentre spiegava qualcosa a proposito delle simbologie in ambito dantesco, e la classe era piuttosto tranquilla, iniziò a sentire qualcuno che mormorava. All'inizio non ci fece caso: di solito non li rimproverava se avevano qualcosa da dirsi; lasciava che finissero e nel frattempo continuava a parlare. Molto spesso era questione di pochi secondi: avevano abbastanza rispetto di lui da concludere in fretta il discorso e tornare alla spiegazione. Ma questo mormorio non accennava a spegnersi; Emanuele non smise di parlare, ma lanciò una breve occhiata in giro per la classe, e si accorse che a mormorare era Bianca.
Dopo un po' – e dopo che anche gli altri se ne furono accorti, e dopo che Cappelletto l'ebbe tirata per una manica – non poté più ignorarla, anche perché lei aveva alzato la voce, e ora sentiva distintamente cosa stesse dicendo.
-Volete starvene zitti? - sbottò a un certo punto, scocciata, voltandosi verso la classe.
Gli altri si guardarono l'uno con l'altro, sconcertati: nessuno aveva aperto bocca.
-Cazzo stai dicendo? - fece Fiorenzato, che sedeva dietro di lei.
-Smettetela. Fatevi gli affari vostri. Non dite sempre che bisogna seguire la lezione? Beh, fatelo!
Si voltò verso la finestra e mise su il broncio. Emanuele era allibito, ma decise di non prestare attenzione a quell'episodio, e riprese a spiegare.
Per un minuto o due ci fu silenzio, ma notò che Bianca era agitata, nervosa, che continuava a contorcersi sulla sedia e ogni tanto lanciava occhiatacce in giro. Poi sbuffò. Si morse le labbra. Si torse le mani. Si mise le mani nei capelli e iniziò a tirarli.
Poi ricominciò a parlare, in direzione dei suoi compagni.
-Vi avevo detto di smetterla – li implorò – basta, state zitti. Seguite la lezione, per favore.
-Ferreri, ti sei rincoglionita? - parlò di nuovo Fiorenzato – Nessuno ha aperto bocca.
-Non è vero – protestò lei – vi ho sentiti. State parlando di me.
-Nessuno ha aperto bocca! - ripeté seccato l'altro.
Gli occhi di Bianca si riempirono di lacrime. Guardò Emanuele, disperata.
-Non è vero, prof – gli disse – li sento benissimo. Stanno parlando di me. Non li sente? Non tacciono un secondo.
-Bianca – fece Emanuele, con calma – non devi disturbare la lezione con questi scherzi.
-Ma prof, non sto scherzando! Continuano a dire che sono una troia. Dicono sempre che non mi sopportano, che ho l'AIDS, che piango lacrime di sperma...
-Nessuno sta parlando – replicò tranquillo; in realtà, stava sudando freddo – ora ascolta la lezione e non interrompere, ok?
Lei tacque, ma le lacrime le rotolarono giù dagli occhi, e la sua espressione era inondata di pura angoscia. Cappelletto si alzò, la prese per mano e chiese il permesso di portarla fuori a passeggiare per l'atrio.
-Forse è solo stanca – dichiarò – le farà bene.
Emanuele annuì ed aprì loro la porta.
Quando i due furono fuori, Fiorenzato lo guardò, perplesso, e gli chiese:
-Ma è diventata matta, quella là?
Sospirò.
-Non lanciamoci in dichiarazioni insensate. E per questa volta, fatemi un favore personale: non mettetevi a spargere in giro la voce che è matta, d'accordo?
Tacquero tutti. Ma Emanuele sapeva che stavolta perfino loro non sarebbero stati in grado di gettare benzina sul fuoco.
Spiegò fino al suono della campanella, che gli sembrò enormemente lontano per tutto quel tempo; quando finalmente arrivò la ricreazione, si precipitò fuori e raggiunse Bianca e Cappelletto che erano seduti sulle scale. Stavano chiacchierando; lei sembrava stare meglio, lui la guardava incuriosito e le accarezzava i capelli con una dolcezza che ad Emanuele scaldò il cuore.
-Tutto a posto? - chiese a Cappelletto. Lo considerava un po' responsabile per lei.
-Boh, mi pare di sì. Si è calmata – replicò quello; la guardò in cerca di conferma – vero, Bianca? Adesso è a posto.
Ma lei, quando vide Emanuele, si nascose sulla spalla di Cappelletto. Quello arrossì, ma la circondò con le braccia e la strinse a sé. Guardò Emanuele, sperduto.
-Rimanete qui un altro po' – suggerì – parlo io con l'insegnante dell'ora successiva. Chi avete?
-Francese – rispose il ragazzo, guardando ora Bianca, ora il suo interlocutore.
-Benissimo. Voi state qui tranquilli, ok?
Cappelletto annuì e, mentre si allontanava, Emanuele vide che, timidamente, azzardò un piccolo bacio sulla testa fiammeggiante di Bianca. Sorrise e si allontanò, un po' sollevato.
Il giorno dopo, contrariamente alle aspettative, Bianca fu spumeggiante. Era sempre sorridente. Chiacchierò anche con i suoi compagni.
-Ma buongiorno, Chappy! – apostrofò Cappelletto, allegramente, non appena entrò in classe.
-Come, scusa...? - fece quello, alzando un sopracciglio.
-Chappy! - ripeté lei, gioiosa, un attimo prima di abbracciarlo affettuosamente. Poi identificò Benetazzo; gli mandò un bacio con la mano, e infine fece un occhiolino e la linguetta a Valeria. La qual ultima reagì con una smorfia inorridita.
L'intera classe la osservò sbalordita mentre, canticchiando, metteva giù lo zaino semivuoto e incrociava con
nonchalance le gambe sul tavolo, incurante del fatto che, da quella posizione, chiunque potesse vederle la biancheria senza affatto faticare.
-Ti sei ripresa, Bianca? - le chiese Benetazzo, con un sorriso.
-Sto da Dio, Penecazzo, sto davvero una meraviglia. Ah, che giornata meravigliosa! - inspirò a fondo l'aria fresca che proveniva dalla finestra aperta; allargò le braccia, chiuse gli occhi, scosse teatralmente la testa e si abbandonò contro lo schienale. Poi si alzò di scatto e saltellò verso il compagno, che la guardava stranito. - E tu, Penny? Che è il diminutivo di Penecazzo? Come va? Hai combattuto con qualche drago, oggi? Salvato qualche principessa in pericolo?
-Io... no – fece quello, allibito, mentre Bianca raggiungeva Valeria a giravolte. Lei la guardava con tanto d'occhi.
-Eccola qui, la mia donna. Vieni qua e dammi un bacino – la chiamò; ma prima ancora che quella potesse reagire le afferrò il volto tra le mani e la travolse in un bacio mozzafiato che lasciò senza respiro la porzione maschile degli astanti.
-Ma... sei SCEMA? - strillò Valeria, pulendosi la bocca affannosamente – Io ti ammazzo! - aggiunse, stridula. Era diventata rossa come una fragola.
-Grande! - affermò Cappelletto estasiato, e gli altri uomini presenti non parlarono, ma nemmeno protestarono. Ovviamente tra le ragazze ci fu un coro di “che schifo!” “lesbica di merda” e “ew”, ma Bianca tornò tranquillamente al suo banco e vi si sedette soddisfatta; poi guardò Emanuele e gli disse:
-Oh, mi scusi, prof, ho solo salutato i miei amici.
-Non voglio saperne nulla – lui alzò le mani a scudo – a me basta poter fare la mia lezione senza intoppi, poi per il resto fai quello che ti pare.
Bianca mandò qualche bigliettino di scuse a Valeria, che era arrabbiata e quindi la ignorò; Cappelletto continuava a supplicare entrambe di ripetere la scena, e a un certo punto vide che Bianca aveva gattonato fino alla sedia di Valeria e le si stava strusciando contro facendo le fusa. Le ordinò di tornare al suo posto e lei ci tornò, ma poi si accorse che, quando lui si girava verso la lavagna, lei e Cappelletto si scambiavano intense effusioni sporgendosi oltre il banco. Finse di non vedere e ignorò i commenti scandalizzati dei suoi compagni, esclusivamente per amore del quieto vivere. Non aveva voglia di riprenderla.
Alla fine dell'ora, però, le ordinò di raggiungerlo a ricreazione nella sala professori, e lei acconsentì con un sorriso. L'ora dopo aveva un'altra classe, ed era così agitato che decise di dedicare l'ora alla discussione sull'aborto, di modo che si accapigliassero tra di loro senza che lui dovesse dire una sola parola per portare avanti la conversazione. Si godette gli scontri verbali e si limitò a riportarli alla discussione civile quando gli scontri verbali diventarono veri e propri scambi d'insulti.
La ricreazione arrivò e Bianca lo raggiunse in sala professori. C'erano altre persone, per cui spostarono la sede della loro chiacchierata in palestra, che in quel momento era deserta.
-Se ci fossi io in giro, stia sicuro che non la troverebbe vuota – commentò Bianca – vengo spesso qui a fare le mie cose. E glielo dico in via del tutto confidenziale, la prego di mantenere il riserbo.
-Mi limiterò ad evitarla attentamente – rispose Emanuele, poi indicò una pila di materassini – prego. Questo sarà il nostro salotto.
Bianca rise e si avviò verso la pila. Con la minigonna stretta, ci mise un po' a salirci sopra, ma alla fine si sedette, e iniziò a far dondolare le gambe sottili. Emanuele le si accomodò di fianco.
-Allora? - introdusse lei – Voleva parlarmi? Ah, già, voleva darmi carne perché ho fatto la stupida durante la lezione. Ha ragione, prof. Mi dispiace.
-Beh, sì, in effetti anche – realizzò Emanuele – e se pregata di tenere un contegno mentre sei in classe, grazie. Lo dico per te, eh? A momenti Valeria ti sgozzava.
-Ah, ma can che abbaia non morde, prof. È solo che è timida e si spaventa di fronte alle effusioni, ma è dolce dolce dolce.
-Dici?
-Beh, no, ok, non è dolce, ma non mi odia, credo. È solo che è fatta così. Ma so che non è davvero arrabbiata.
-Eppure, ieri sostenevi che tutti ti odiavano. Dicevi che parlavano di te.
-Uh, non ci faccia caso.
-Beh, Bianca, non posso non farci caso, era abbastanza preoccupante. Vorresti spiegarmi che è successo?
-Ma nieeente, prof. Non crucciatevi invano, mio signore. Bianca Ferreri è in super forma. È come se avessi mangiato un fagiolo magico!*****
-Mi sembra quanto mai appropriato, come paragone: una pillolina magica che immediatamente ti rimette in sesto e ti riempie d'energia come non mai.
-Prof, basta con questa storia – lo ammonì bonariamente.
-E va bene, basta. Non è questo. E allora cos'è?
-Oh, ero un po' agitata. Ero nervosa. Forse ero un po' preoccupata. Sa, lei che si sposa. Mi ha spezzato il cuoricino! - pigolò, scherzosa – E poi mi sentivo sola e messa in disparte e blaa bla bla. Il solito. Ah, e mio padre mi ha quasi strappato via il piercing a schiaffi. Forse è per quello che ero un po' così. Ma ora va bene.
-Non capisco se sei seria o se mi prendi per il culo.
-No no, prof, serissima! È che adesso è passata, perché piangersi addosso? La vita è una sola!
-Giusto – mormorò, incapace di replicare.
-Vede? Ecco, ultimamente questa cosa che lei si sposa mi aveva un po' sponata, ecco. Più delle altre cose, in effetti. O forse è la classica goccia che. O forse ho ragione io e sono veramente innamorata di lei, dal profondo del cuore. E insomma ecco, lei comunque si sposa. E io devo reagire ed essere felice anche senza di lei! Quindi ecco. Per questo l'ho un po' evitata. Io devo andare avanti senza il suo aiuto, e le confesso che se non le parlo, per un pochino, poco poco poco, mi dimentico quanto lei sia importante. È che ci sono giorni in cui è peggio e ieri era uno di quei giorni. Ma oggi no. Oggi ho preso un bel voto in fisica, materia che odio!, e mia mamma non mi romperà più le palle perché ho la media dell'otto e mi abbassa gli altri voti, perché io ho la media del nove e dovrei mantenerla, eppure ho anche yoga e degustazione e quell'altra cosa, e palestra, tra l'altro non sono ancora riuscita a dimagrire quanto volevo, sa? Però adesso mangio bene. Mi hanno detto che per l'alimentazione quotidiana bisogna ingerire...
-Bianca, aaalt – la interruppe, mettendole una mano davanti alla bocca. Lei sbarrò gli occhi e si azzittì. - Una cosa alla volta, ok? - Lei annuì; agitava freneticamente le gambe e faceva schioccare le dita di entrambe le mani. - Quindi sostieni che adesso stai bene, giusto?
-Mh-hm.
-Ma non è la prima volta che mi dici che stai bene e poi ti ritrovo il giorno dopo che stai di merda.
-Eh, ma non posso prevederlo, prof! In quel momento magari le dico che sto bene perché sto bene, e poi il giorno dopo sto male e non immaginavo di stare così male, e così lei pensa che io le dica bugie, ma non è così. Se lo potessi sapere in anticipo, sarebbe meraviglioso! No?
-Certo, ma...
-E comunque prof, si è accorto che Cappelletto è innamorato cotto? - Le brillarono gli occhi. - Ha visto come mi sta sempre attorno? Lo sa che è la prima persona che s'innamora di me?
-Gli altri volevano solo l'avventura?
-Beh, sì, penso si possa dire di sì. Alcuni credevano di amarmi, e me lo dicevano, e poi si stancavano di me e del mio modo di fare... beh, li capisco. Anche lei li capisce, vero? - rise, e poi riprese – E comunque è una figata, quando qualcuno s'innamora di te. Ti senti come se da una parte avessi un materasso ad acqua, no? Nel senso: sai che da quel lato lì non puoi cadere e farti male. È rassicurante! Credo che sia così quando ti sposi, no? A parte che se ti sposi in teoria vuoi fare da materasso anche tu alla persona che lo fa a te, solo che io non voglio fare da materasso a Cappelletto, a meno che non significhi stare sotto di lui, e a dire la verità neanche in quel caso; cioè, in realtà gli farei da materasso perché gli voglio bene, ma non
quel tipo di materasso, y' know what I mean? Sa che in inglese mean significa sia un verbo, 'significare', che l'aggettivo 'perfido, cattivo'?
-Sì, lo sapevo.
-L'inglese è una lingua molto più bella della nostra. Pensi a una cosa: noi diciamo 'mi piaci', loro dicono '
i like you'. Il che significa che loro fanno dell'altra persona un oggetto, e di sé stessi un soggetto, in quest'azione di esprimere una predilezione verso qualcuno. E noi, invece? Pensi un po': facciamo dell'altro il soggetto dimenticandoci di noi stessi, e finisce che ci releghiamo al rango di semplici complementi di termine, che se ci pensa bene sono un gradino più in basso dei complementi oggetto. È o no un ragionamento sensato?
-Beh, diciamo che sussiste.
-Siamo un popolo di personalità dipendenti, prof – rise – dovevo andare a fare la psicologa, altro che l'interprete. Sarebbe decisamente il mio momento d'oro.
-Pensa a te stessa, Bianca – la rimproverò con dolcezza – prima che degli altri, occupati di te.
-Ma lo sto facendo, sto pensando al mio futuro. Non fanno che dirci che la mia generazione è destinata a non avere lavoro, pensione, una famiglia, dei figli, l'amore... quindi almeno mi preoccupo di trovarmi uno stipendio – replicò allegramente. Emanuele sorrise.
-Vorrei rassicurarti, ma con quello che mi danno temo che potrei soltanto preoccuparti ulteriormente. Faresti più soldi tu dando ripetizioni a un ragazzino delle medie.
-Ah-ha, quanto le danno al mese?
-Bianca, senza offesa, sarebbero anche un po' cazzi miei...
-Su, su, se vuole io le dico quanto mi danno i miei di paghetta. Mi danno quindici euro. Una miseria, vero? Non mi bastano mai, non posso quasi mai fare niente.
-Come ti capisco – sospirò.
-Su, me lo dica! Prometto che non lo dico a nessuno. Oh, voglio saperlo! Sono terribilmente curiosa, e odio che lancino il sasso e poi nascondano la mano.
-So che sei curiosa come un gattino, ma non saprai mai qual è il contenuto della mia busta paga.
-Guardi che dico in giro il suo soprannome.
Emanuele impallidì.
-... cosa sai?
-Oh, quello che posso arrivare a sapere googlando il suo nome – sorrise maleficamente – caro il nostro Por...
-Millecentocinquanta – esclamò di scatto, saltando giù dal materassino.
Bianca scoppiò a ridere, ma subito dopo, davanti agli occhi attoniti di Emanuele, scoppiò a piangere senza nessun apparente motivo.
-Ehi – la chiamò, preoccupato – che c'è?
-Niente – pigolò lei, poi si asciugò le lacrime e sorrise – adesso sto bene. Tutto a posto!
-Sicura?
-Sicurissima! Si figuri. Con una giornata così bella. Ha visto i ciliegi in fiore della casa qui accanto? Sono di una bellezza stupefacente. A volte ti scordi che le cose più belle sono lì davanti a te ogni giorno, vero? Se posso guardare fuori dalla finestra e vedere quel bell'albero fiorito, che importa il resto? L'albero è sempre lì per allietare la mia vista, e non se ne andrà mai. - Ci rifletté un attimo. - Ah, beh, sì, a meno che non lo taglino i suoi proprietari, ok. Ma quello non c'entra. È che lui ha le sue radici lì e se fosse per lui non si sposterebbe mai. Continuerebbe a darmi quei bei boccioli ogni primavera.
Bianca al pensiero saltellò e gli occhi si accesero di una bellissima luce.
Emanuele, in seguito, ricordò molte volte il momento in cui vide quella luce, che si era accesa in mezzo ad un'immensità immersa nel buio, aggrappata a qualcosa di così semplice e fragile ed eterno come un albero in fiore.
Ma al cambio dell'ora successiva la trovò che piangeva in atrio sulla spalla di Cappelletto, poi Valeria arrivò chiamata da qualcuno, le due si parlarono, e alla fine della quinta ora Bianca stava saltellando in giro per il corridoio e abbracciando un tizio di un'altra classe, che non perdeva occasione per metterle le mani addosso.
Il giorno dopo, Emanuele si spaventò quando Monica gli raccontò che Bianca era scoppiata a piangere e si era aggrappata a Cappelletto perché secondo lei stavano scoppiando le bombe fuori dalla finestra, era scoppiata la terza guerra mondiale, i boati dei missili si stavano avvicinando e che sarebbero morti tutti.
-Sembrava così angosciata che ha messo il dubbio perfino a me – disse Monica – quella ragazzina si droga. È chiaro. Esiste una droga che dà le allucinazioni?
-LSD o funghi – le rispose – ma quand'è che ha il tempo di assumerli? E poi – si interruppe in tempo prima di dire che una volta l'aveva vista prendere delle pastiglie – e poi non possiamo certo perquisirla quando arriva in classe.
-Possiamo, se abbiamo buoni motivi di ritenerla un elemento di disturbo! Io sono sinceramente stanca delle bravate di questa ragazzina. Essere comprensivi con lei non è servito che a farla sentire in potere di fare qualsiasi cosa.
-Prof – in quel momento irruppe Francesca, una compagna di classe di Bianca – scusate, ma dobbiamo parlare con il professore da solo. Per favore, può venire con noi?
-Sì, certo – fece Emanuele, che era pronto al peggio. Le seguì in palestra, dove sperò di non trovare Bianca.
-Abbiamo visto una cosa – intervenne Giulia – e ritengo giusto che lei lo sappia, e che parli lei con gli altri insegnanti, perché è lei il coordinatore, no? E non trovavo corretto sputtanarla così di fronte a tutti.
-Cosa succede? - chiese Emanuele, che già aveva capito di chi si stesse parlando.
-Abbiamo visto Bianca che prendeva delle pastiglie in bagno – fece Francesca, agitata, e queste parole ebbero lo stesso sapore del taglio definitivo della ghigliottina.

Aveva detto alle ragazze di aspettare dalla preside, di spiegarle la situazione, di non parlarne con altri. Salì le scale con passo marziale. Arrivò in corridoio, localizzò con lo sguardo Bianca che gesticolava animatamente con dei ragazzi. Ma stavolta non intendeva passare attraverso di lei per le informazioni; non era affidabile, punto e basta. Era una drogata e come tutti i drogati era una bugiarda, e aveva mentito anche a lui.
Si sentiva ferito e pieno di una rabbia cocente che gli arrossava le orecchie. Entrò in classe incurante dell'eventuale presenza di ragazzi, anche se non c'era nessuno. Afferrò lo zaino di Bianca; aprì la tasca anteriore, trovò soltanto una merendina e le sue chiavi di casa. Rovesciò allora lo scarso contenuto della tasca più grande, e, tra un paio di quaderni e un libro scarabocchiato, tra un pacchetto di caramelle e un paio di pupazzetti sporchi, trovò una bottiglietta marrone.
Era piena di pillole.















  • Non credo davvero ci sia bisogno di dirvelo, ma la canzone è La Cura di Franco Battiato. Se non la conoscete, ascoltatela ;) è un pezzo dolcissimo.
    ** “Ve ne prego”, letteralmente.
    *** International Standardization Organization. Praticamente è un organo che si occupa di riconoscere e rendere pubblici gli 'standard'. È un po' difficile spiegarlo, googlatelo XD.
    **** MILF: Mother I'd Like to Fuck. Guardatevi
    American Pie :°D altrimenti, in breve, si tratta di madri tra la trentina e la quarantina ancora avvenenti e disposte ad una focosa avventura con ragazzi adolescenti.
    ***** Se avete visto
    Dragon Ball, capirete. Altrimenti... cacchio, che razza di infanzia avete vissuto ò_o?


(Nda: Lo so, ci ho messo una vita e faccio schifo ò_o ma non è stato per pigrizia, giuro ;_; innanzitutto è stato un capitolo difficile da scrivere, ma, soprattutto, come avrete notato :°D, era piuttosto lungo ^^;. Se pensate che avrei dovuto renderlo ancora più lungo, capirete perché ho splittato in due questo capitolo che doveva essere il finale.
C'è anche da dire che avevo già messo decisamente troppa carne al fuoco e ce n'era di ancora più succulenta che aspettava di essere messa sulla griglia *_*' siccome non voglio scrivere un capitolo confusionario, mal scritto e poco esauriente, ho voluto chiudere qui.
In risposta alle vostre recensioni... ^^ brevemente perché non ho molto tempo e voi sarete stufi dopo trenta pagine di storia XD

Yuki: a dire la verità, io penso che non esista una persona che si droga 'per fare l'alternativa', ma che tutti, come Bianca, lo facciano perché hanno i loro motivi, le loro sofferenze. Quanto ai problemi di salute, anche il mio ragazzo aveva la tua stessa idea della malattia terminale ^^ purtroppo saprete se è così solo nel prossimo capitolo ;) *me è malefica e vi fa penare :P*
Baby Birba: dunque, diciamo che gli spunti ci sono, ma sono appunto soltanto spunti. Emanuele ha il nome e l'aspetto fisico di un mio prof del biennio, ma non so nulla dei suoi interessi e della sua vita privata, per cui quelli sono totalmente inventati (mentre la questione del soprannome è vera XD); così come lo è la relazione con una studentessa come Bianca. Lei è proprio interamente frutto della mia fantasia. Le figure dei suoi genitori hanno in effetti un riscontro nella realtà, ma non interamente. Camilla e i compagni di classe sono del tutto inventati.
Uh, e grazie per il commento a Follow ^.^ è una storiella un po' scema, ma sono contenta che ti piaccia ^_^!

Dance of Death: mi fa davvero piacere sentire che il tutto è realistico. Sono cose piuttosto difficili da mettere su carta ò_ò e non sei mai sicuro se tu sia riuscito a comunicare o no certe sensazioni. Mi dispiace molto che tu abbia questo problema, spero vivamente che si risolva perché so che razza di rottura di coglioni possa essere. Comunque, grazie davvero delle tue belle recensioni ç.ç wow ç_ç se vorrai leggere qualcos'altro di mio ne sarò felicissima ;_;!
Hellfire: INFERNAL HAIL!!!! (Volevo dire solo questo è_é.) (No, scherzo, anche ringraziarti del commento XD che ha doppio valore considerato che non segui la sezione, wow, grazieee T.T!)
Khristh, Veive, Piaciuque: se solo sapeste che soddisfazione mi danno i vostri commenti T^T grazie per il vostro irrinunciabile sostegno ç.ç


Prometto a tutti che per il prossimo muovo il culo e lo pubblico presto!
Ancora grazie per i fav e le recensioni! I love you all ;_;!)

  
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