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Autore: veronicamarini    03/12/2009    0 recensioni
Ciao. questa è una FF scritta in occasione di Halloween... spero vi piaccia.
Genere: Dark | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era la sera del 1 novembre. Uscii dalla Sala Comune casa poco dopo le undici e quaranta. Dovevo fare il turno di notte nel castello, una ronda notturna, essendo stato nominato Prefetto prima della Grande Battaglia, e avrei dovuto prendere servizio di lì a poco. Un compito che mi piace. Soprattutto perché devo farlo da solo, Appena uscito dal portone del castello per la ronda nel parco antistante, mi resi conto una volta di più che avevo fatto male a dar retta alle previsioni, e che con il piumino addosso avrei fatto una sauna. Il parco era meravigliosamente vuoto e silenzioso, sia di ragazzini petulanti che di professori o altri prefetti. C’è tanta gente superstiziosa che preferisce non andare in giro la notte dei Morti. Improvvisamente mi tornò alla memoria un giorno di una qualche anno prima. Avevo forse dodici o tredici anni, e anche allora era la notte fra l’1 e il 2 novembre. Non solo, ma anche quella notte il termometro sembrava impazzito e faceva caldo come in estate. Insieme ad un paio di amici, ci eravamo messi in testa di passare la notte dei Morti in maniera diversa dal solito, così avevamo detto ai nostri genitori che saremmo andati a dormire da uno di noi, che a sua volta aveva casa libera perché i suoi erano fuori città. Oggi la moda di Halloween si è diffusa anche in tutto il mondo babbano come una bellissima festa, ma a quell’epoca ne sapevamo poco. Sapevamo solo che in America, la notte di Ognissanti i bambini si vestivano come a carnevale e andavano in giro a bussare alle porte. Noi ci limitammo a prendere spunto da questo, perché quello che volevamo fare era diverso. Abitavamo non lontano dal cimitero, e la nostra idea era quella di andare in giro con dei lenzuoli, o con le facce dipinte di bianco, come dei fantasmi, per spaventare i malcapitati che si trovavano a passare. Era un sabato sera, quindi non avevamo il problema di doverci alzare presto la mattina dopo. Coincidenza singolare, anche quella sera era un sabato. Altra coincidenza, in quel momento passa vicino a quello che negli anni, dopo la morte del Professor Silente era diventato il cimitero di Hogwards dove orami riposavano la professoressa MgGranit gli studenti morti durante la battaglia finale contro il Signore Oscuro, e molti dell’Ordine della Fenice. Gironzolavo per il parco quando così, senza preavviso…Semplicemente si spensero le luci della scuola dietro di me, le luci del parco e quelle intorno al lago nero come se qualcuno avesse staccato la corrente Ero fermo in mezzo alla strada deserta. ‘beh sono cose che captano” Non doveva mancare molto, ma non riuscivo ad orientarmi bene perché il parco, di notte, sembrava diversa. Non c’erano molti lampioni o luci d’emergenza, insomma tutte quelle cose che potevo prendere come punti di riferimento, erano inghiottite dalle tenebre. Risalii e mi incamminai sul sentiero alberato, di cui non vedevo l’inizio né la fine. Proseguii per non so quanti minuti. Anche se non riuscivo ad orientarmi, dovevo essere ormai arrivato. Non c’era possibilità di sbagliare, non avevo fatto molta strada di ronda e avevo percorso un’unica strada dritta, senza mai abbandonarla, Invece ero in giro ormai da mezz’ora e non ero ancora arrivato. Era troppo buio per guardare l’orologio, ma doveva essere mezzanotte e un quarto, forse la mezza. Più o meno l’ora in cui, tanti anni prima, i miei amici ed io avevamo terminato di spalmarci la faccia di bianco, di passarci il nero sotto gli occhi e vestirci con dei sacchi che dovevano occultare le nostre fattezze. Ci eravamo guardati nello specchio e quasi eravamo morti di paura. Sembravamo davvero degli spettri. Uscimmo fuori, correndo da un lato all’altro della strada deserta, lanciando urla e agitando le torce elettriche che tenevamo sotto i vestiti e che contribuivano a circondarci di luce. Passarono solo un paio di manici di scopa, e noi ragazzi ci divertivamo ad attraversare la strada all’improvviso.. o, svolazzare per il cielo (senza permesso ovviamente) spaventando chi volava sopra di noi. Il divertimento però non era come l’avevamo previsto. Spaventare gli altri maghi non dava soddisfazione, non potevamo goderci le reazioni .Ci eravamo conciati in quel modo perché volevamo spaventare i passanti, ma purtroppo si era fatto tardi, e a piedi non passava più nessuno. Non mi ricordo chi di noi, propose di andare a suonare alle porte delle case, farsi aprire e spaventare la gente.. In alcune case, le luci erano ancora accese. Decidemmo di separarci e dividerci l’isolato in quattro zone di appartenenza, quanti eravamo. Avremmo dovuto suonare e farci aprire, o almeno spingere le persone ad affacciarsi alla finestra e osservare la loro reazione quando ci vedevano. Se si spaventavano, era un punto, se si limitavano ad aprire e guardarci, mezzo punto. - Io quella zona non la voglio- dissi immediatamente, dopo esserci suddivisi l’isolato - Una zona vale l’altra- ribatterono gli altri –hanno tutte lo stesso numero di case- - Sì, ma nella mia c’è…- quasi mi vergognavo a continuare la frase. Gli altri avevano capito, e se la ridevano - Dì un po’, non avrai mica paura dell’Orco?- L’Orco, lo avevamo soprannominato così quando eravamo più piccoli, era un uomo di età indefinibile, forse sui quaranta, forse sui cinquant’anni, che abitava in una di quelle case. Lo chiamavamo così perché era grosso, curvo, peloso e spaventava i bambini. Non parlava con nessuno, si diceva che bevesse sangue e le nostre mamme (anche la mia seppur spostata con un mangia morte) ci raccomandavano di stare attenti quando giocavamo lì vicino - Non è che ho paura- ribattei –solo che se mia madre sa che sono andato da quello…- - E tu non glielo dire- - Una volta sono andato da lui- disse Tiger, con il suo fare da adulto –per una raccolta della chiesa. È stato molto gentile- Non ci credevo, lo diceva per darsi arie, ma non potevo passare per codardo. Così accettai. Diedi un taglio ai ricordi. Mentre ricostruivo quelle scene di anni prima avevo di nuovo perso la cognizione del tempo. E non ero ancora arrivato a destinazione. All’improvviso qualcosa ruppe il silenzio della strada. Un vago suono il lontananza che si faceva via via più distinto superando gli alberi. Era una canzone. Una vecchia canzone. E qualche secondo più tardi riconobbi anche la canzone. Le coincidenze cominciavano ad essere troppe. Già, perché anche quella notte di tanti anni prima avevo sentito risuonare quella stessa canzone. Dalla casa dell’Orco. Quindi era in casa ed era sveglio, avevo pensato, avvicinandomi al cancello. I miei amici erano già spariti dietro l’angolo e io cominciavo a sudare freddo, tanto che temevo che il trucco cominciasse a sciogliersi. La canzone continuava a suonare senza soluzione di continuità. Suonai il campanello e attesi un minuto abbondante, ma l’Orco non venne ad aprire. Forse la musica copriva il suono del campanello, o forse stava dormendo. Ero tentato di andarmene, e mi allontanai di qualche passo. Ma poi tornai indietro e suonai di nuovo al citofono. Non rispose nessuno, ma mi accorsi che il cancello non era chiuso bene. Mi feci coraggio, lo aprii e mi incamminai nel breve vialetto che portava alla casa. La porta era chiusa, suonai al secondo campanello e bussai sul legno della porta. Stavolta mi aveva sentito, prima ancora che dai passi me ne accorsi perché il volume della canzone era stato bruscamente abbassato. La porta si aprì lentamente, come nei film dell’orrore, accompagnata da un lugubre cigolio. Io mi ero preparato per urlare e far saltare di paura l’Orco, ma fu tutto vano perché lui, dopo aver fatto scattare la serratura della porta, si voltò immediatamente per rientrare in casa. Rimasi come un ebete sulla soglia, ad osservare la schiena dell’Orco, che camminava chino, sbilenco, con una bottiglia di birra quasi vuota che gli penzolava dalla mano - Entra, che aspetti?- mi disse, come se attendesse la mia visita. E rientrò nella stanza da cui proveniva la musica. Mi decisi a seguirlo. Mi fermai un attimo prima di entrare nella stanza, mi sforzai di assumere un’aria truce ma era impossibile. Come si fa a mettere paura quando si è terrorizzati? Forte di questo pensiero, spiccai un salto ed entrai nella stanza - Buu- urlai all’indirizzo dell’Orco. Lui mi guardò severo. Aveva i capelli mossi e lunghi, il viso faceva pensare ad un leone, era ispido per la barba di tre o quattro giorni. Non mosse un muscolo, continuò a guardarmi per quella che mi sembrò un’eternità. E poi scoppiò a ridere. - Come ti sei conciato, ragazzino?- disse, cercando di riprendersi dall’ilarità. Non sapevo che dire. Ma forse, se avessi preso qualcosa dalla casa per dimostrare ai miei amici che ero davvero entrato, potevo avere ancora qualche possibilità. La casa era immersa nell’oscurità, l’unica fonte di luce era una candela mozza, che diffondeva una luce gialla e sporca. Lui era spaparanzato sul divano, con addosso dei pantaloni di una tuta da lavoro e una camicia a scacchi da boscaiolo, sudicia, e mi osservava incuriosito. Poi vidi quello che c’era sul divano. In un primo momento non me ne ero accorto perché era mezzo infilato nella fessura del bracciolo, ma non c’era dubbio, era uno stupendo medaglione magico. Quel medaglione che tanti anni dopo avrebbe custodito l’anima del signor oscuro. Sapevo che valeva una fortuna. L’Orco seguì il mio sguardo e sembrò leggermi nel pensiero. Prese il medaglione e lo fece ondeggiare davanti ai miei occhi. - Bello, vero? L’ho trovato proprio oggi in cantina, non ricordavo neanche di averlo. Io non so che farmene, potrei anche regalartelo- mi guardò –non ti piacerebbe?- - Sì, signore- riuscii a dire, con la bocca secca - Cos’è, hai paura?Su, avvicinati. Se sei un bravo ragazzo posso anche regalartelo- Non sapevo cosa fare, ma la tentazione era troppo forte. Mi avvicinai con gli occhi fissi sul medaglione. Non poteva essere rimasto in cantina per tanti anni come aveva detto lui, era in ottime condizioni. E allora capii che lui mi aveva visto arrivare dalla finestra, e si era preparato. Mi guardava con gli occhi iniettati di sangue e infossati nella faccia, e con un’espressione che non avrei mai dimenticato. Sembrava seduto comodamente, con un braccio a penzoloni oltre la spalliera del divano. Lo anticipai, quando alzò di scatto il braccio. Nella mano stringeva un bavaglio. Avevo già intuito che c’era qualcosa di strano. Mi misi a urlare e corsi fuori dalla casa, senza che l’Orco potesse raggiungermi. Così era finita quella notte di tanti anni fa. Adesso, mi trovavo di nuovo da solo nella notte del 2 novembre, la notte in cui i morti tornano a vagare sulla Terra, secondo le tradizioni popolari. E di nuovo mi ritrovavo a sentire le note di quella canzone. Finalmente, dopo il suono, vidi la prima luce da parecchi minuti a quella parte. Era una lampada alogena sopra il portoncino d’ingresso di una casa. Pensavo fosse la Capanna di Hagrid ormai disabitata dopo la sua morte. Anche lui riposava nel cimitero della scuola. Mi avvicinai. Mi chinai per leggere, e sobbalzai. Quella non era la Capanna di Hagrid. Al suo posto c’era una casa di due piani. La riconobbi. Non c’era dubbio, era la casa dell’Orco. Ma non era possibile, io dopo quella notte lo avevo denunciato, lui era stato arrestato, e poi aveva lasciato la città, la casa era stata abbattuta. O no? Sentivo la testa che mi scoppiava, i ricordi si accavallavano a spezzoni di sogni e incubi, che acquistavano la vividezza di vita vissuta o di film che avevo visto. In quel momento non avrei potuto dare niente per certo, ero assalito dal dubbio di essermi inventato tutto. E per tutto intendo anche la mia stessa vita. Toccai il cancello. Era freddo e umido come quella sera. E come quella sera era aperto. Lo spinsi ed attraversai il breve vialetto ghiaioso. Arrivai alla porta, la stessa porta di legno rinforzato agli angoli. Suonai il campanello. Sentii la musica che si faceva più soffusa, poi lo scatto della porta. Girò sui cardini con lentezza esasperante, accompagnata da un cigolio - Entra, che aspetti?- disse una voce pastosa. L’uomo che aveva aperto la porta non mi aveva neanche guardato. Mi aveva voltato le spalle e si incamminava nella stanza da cui proveniva la musica. L’uomo era curvo, con folti capelli grigi, e dalla mano pendeva una bottiglia di birra quasi vuota. Entrai e lo raggiunsi. Non lasciai che si sedesse. Lo strattonai perché si voltasse a guardarmi. Era lui. Invecchiato, ma era lui senza dubbio, la stessa faccia rincagnata, la fronte bassa, il portamento da rapace - Ehi, e tu chi sei? Non era te che stavo aspettando- sentii che diceva, ma le sue parole mi rimbalzavano addosso senza che riuscissi a connettere. A patto che potesse essere ancora vivo, non poteva, non doveva abitare lì, in quella casa, che era stata abbattuta tanto tempo prima. Ma in una frazione di secondo tutti i miei dubbi si sciolsero e finalmente capii. - Sono venuto a prenderti- gli dissi, fissandolo negli occhi da felino ferito –è giunta la tua ora, finalmente. Ti starai chiedendo chi sono. Eppure mi conosci, anche se mi hai visto quando avevo appena dodici anni o giù di lì. Sono diventato grande, o meglio, sarei diventato grande se tu non mi avessi ucciso- Sbarrò gli occhi, si guardò velocemente intorno alla ricerca di una via di uscita. Non ne aveva, e provò a gridare. Dalla gola gli uscì solo un rantolo, seguito da un fiotto di bava. I muscoli si irrigidirono, la bottiglia di birra cadde a terra in mille pezzi. E poi cadde a terra anche lui, cercando di slacciarsi la camicia a quadri per respirare, ma inutilmente. Attacco di cuore, la causa di morte più diffusa. Mi ci erano voluti anni, ma alla fine l’avevo terrorizzato. Aspettai che esalasse l’ultimo respiro, poi uscii e c’era la luce, era tutto azzurro, luminoso, e anche la mia mente si schiarì. Quella sera di tanti anni prima non ero riuscito a scappare. Quell’uomo mi aveva afferrato e imbavagliato. Il mio corpo non era mai stato trovato, la mia anima non aveva trovato pace. Mi ero così convinto di essere vivo, di essere fuggito, e mi ero costruito una vita immaginaria, mi ero inventato che lui era stato smascherato, e avevo proseguito nell’immaginarmi quella esistenza che non avevo potuto vivere e che era andata avanti finché non era scoccata l’ultima ora per l’Orco, quando tutta la mia vita sognata era andata in frantumi e il mio mondo parallelo si era di nuovo incrociato con quello reale. La Morte aveva deciso di sorprenderlo, e di mandarmi ad annunciarla, proprio nella notte del 2 novembre, la notte in cui morti tornano a vivere, la notte in cui aveva compiuto una delle sue tante efferatezze, la notte in cui ero la Morte. La notte in cui, tanti anni prima, ero morto
  
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