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Autore: Luine    07/12/2009    1 recensioni
Quando mi hanno regalato questo diario per il mio dodicesimo compleanno, non credevo che mi sarebbe stato tanto utile. Credevo che sarebbe rimasto intonso come quando l'ho scartato. E, invece, eccomi qui a scrivervi sopra e a raccontare la mia (strana) vita.
Mi chiamo Ken Iccijojji, vivo a Tokyo con i miei genitori, Videl e Gohan, e con mia sorella maggiore, Pan.

Kenny ha dodici anni, una sorella maggiore alquanto turbolenta e una situazione familiare decisamente movimentata. A causa del terrore di sua madre di vederlo diventare come Pan, si ritrova iscritto in una scuola speciale per ragazzini problematici che già da subito si rivela essere una vera e propria caserma militare.
Tra paure, insegnanti molto duri, amici fidati e misteriosi, incomprensioni, equivoci e risate, si snodano le vicende di Kenny che come valvola di sfogo ha il suo diario, sul quale annota le sue più intime paure e i fatti di vita quotidiani, cercando di convincere se stesso che, forse, poteva andare peggio.
[ Dragon Ball, Digimon 02, Gundam Wing, What a mess Slump e Arale, e altri ]
Genere: Comico, Commedia, Parodia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Le lezioni al primo anno

Avanzi di... galera



10 Novembre


Il pessimo umore di Alex è durato poco. Questa mattina era il solito di sempre: si è comportato normalmente, quando si è alzato, è andato in bagno e ci è rimasto il tempo che bastava perché, di nuovo, noialtri non riuscissimo a fare i nostri bisogni prima dell'alzabandiera. Fortuna che oggi è sabato e che non ci sono lezioni.

«Allora, qual è il programma di studio di oggi?» ho esordito, non appena ci siamo seduti intorno al tavolo della mensa. Pan, che per qualche strana ragione era seduta accanto a me, mi ha guardato con disgusto.

«Ma parli sul serio?» mi ha chiesto.

«Ehm... sì.» ho risposto, dubbioso sul perché mi rivolgesse quella domanda. Dopotutto, tutti i sabato, io, Frank, Arale e Alex ci chiudiamo in biblioteca per fare i compiti per il lunedì.

«Che fottuto secchione!» ha borbottato disgustata e si è seduta dall'altro lato del tavolo, da sola, quasi avesse avuto paura che potessi infettarla con la malattia dello studio. Credo che ne sia immune, sotto certi aspetti.

Il sabato e la domenica, la mensa è un posto molto meno rumoroso. I ragazzi più grandi, come Heero, ne approfittano per visitare la base militare al di fuori delle mura dell'accademia, così la mensa sembra anche molto più vuota, anche se ci sono gli alunni del primo e del secondo anno a popolarla e neanche tutti, perché alcuni prendono la colazione e – senza permesso – la portano in camera, dove la consumano fumando e ridendo tra loro, proprio come fanno Bra, Mimi e Sora, per esempio.

Ho visto di sfuggita Anthony Stevens, che non ci avrebbe rivolto la parola, se non fosse stato per Arale che si era sbracciata un quarto d'ora per salutarlo.

«Insomma, che facciamo oggi?» l'ha incalzata Frank.

«Direi Storia, Matematica e... Geografia, penso che Kenny possa saltarla.» ha ribattuto lei, masticando una fetta biscottata. Effettivamente, dopo una bella interrogazione come quella di ieri, potrei saltarla per il resto dell'anno. Ma poi mi sono ricordato che devo mantenere la media e che la mamma non avrebbe mai e poi mai accettato di vedere un quattro affiancato ad un nove, neanche se fosse per salvare il mondo.

«Intendevo, quando abbiamo finito...»

«Di solito non finiamo poco prima dell'ora di cena!» gli ha ricordato Arale, guardandolo con attenzione, come se il nostro amico avesse detto di voler mettere una bomba sotto il letto della Une.

«E' vero, ma per adesso abbiamo poche cose. Potremmo anche concederci qualche ora libera...» ha continuato Frank, mantenendo un tono disinvolto.

Alex ha corrugato la fronte e gli ha messo una mano sulla fronte. «Eppure non ha la febbre.» ha constatato. Effettivamente, sentire Frank parlare in quel modo dava da pensare: se c'è da studiare, di solito, lui è il primo che si fionda ed è ben strano che cerchi di svicolare proprio ora, a poco più di un mese dal primo congedo della nostra vita.

«Sto benissimo!» ha sbottato il nostro amico, togliendo con malagrazia la mano di Alex dalla fronte.

«E allora perché pensi di disertare i compiti?» gli ha chiesto Arale.

«Non penso di disertare proprio niente!»

«Ma... hai detto...»

Frank ha scrollato le spalle ed ha ripreso a mangiare le sue uova. «Volevo solo fare qualcos'altro...» ha concluso così la nostra conversazione, ma ha lasciato tutti noi col dubbio. Anche quando abbiamo cercato di cavargli qualcosa di bocca, lui continuava a riempirla con uova e pane e a masticare con eccessiva lentezza. «Ragazzi...» ha detto, quando ha inghiottito. «Sto bene.» ha scosso la testa, alzando gli occhi al cielo, come se non riuscisse a credere a quello che stava vedendo.

«Scusa...» ha risposto Arale, per tutti. «E' che... è strano.»

«Più strano di Matt Ishida che si siede a tavola con noi?» ha fatto un cenno alla sua sinistra, distogliendo la nostra attenzione da lui.

Abbiamo guardato tutti verso Matt: effettivamente era proprio seduto e stava mangiando. E' una vera novità saperlo qui: le sue ultime due settimane le ha passate in infermeria per una malattia della pelle che nessuno sa bene quando o dove l'abbia presa. «Non ha un'aria sanissima.» ha constatato Alex, ficcandosi un dito nel naso.

«Alex, non è che puoi...»

Lui, sempre tenendosi il dito nel naso ha guardato Frank con curiosità. «Cosa?» ha chiesto, con naturalezza. Frank si è limitato a scuotere la testa e Alex, facendo una smorfia stordita, si è rimesso composto, attaccando la caccola sul tovagliolo accanto al piatto.

Alla fine dell'ora di colazione, ci siamo diretti in biblioteca, dove ci aspettava un affettuoso sergente Hopkins, che ha stretto la mano a noi ragazzi e ha baciato la mano di Arale.

«Che succede, sergente?» ha chiesto la mia amica, sbattendo le palpebre, come se dovesse cacciare un moscerino. In effetti era strano vedere il sergente comportarsi così.

Lui ha ridacchiato, grattandosi la pelata. «Sto leggendo un libro intitolato “Vecchie storie di cavalieri e dame”. Mi ci sto appassionando. Volete che ve lo presti? Peccato per l'asfissiante assenza di erotismo.»

Mi ha fatto l'occhiolino e io non ho capito. Ho tentato di avere una spiegazione da Arale, ma in questo periodo deve essere di cattivo umore, perché mi guarda male e non dice una parola, quando, invece, io vorrei ricevere spiegazioni.

«Guardi...» ha sbuffato Alex, sedendosi al capotavola, su uno dei due tavoli rimasto libero. L'altro era occupato da una sola persona che, però, aveva preso tutti i posti disponibili: era la ragazza coi capelli cespugliosi che ho incontrato il primo giorno e con cui non ho mai scambiato una parola. L'unica cosa che so è che è del corso D, che si chiama Hermione e che ha un cervello eccezionale. Solo che, di quelli che ho sentito, dicono tutti che sia un bel po' una rompipalle. Non ci ha salutati, ma solo rivolto un'occhiataccia, come se stessimo commettendo chissà quale infrazione. Non stavamo nemmeno parlando a voce così alta! «Lasciamo perdere l'erotismo!»

Il sergente, a quelle parole, ignorando Hermione che guardava male anche lui, si è seduto tra me e Frank, che ha dovuto prendere posto accanto ad Arale, dalla parte del tavolo. Quando siamo stati tutti seduti, un po' scomodi a dire la verità, Hopkins ha chiesto: «Che è successo?»

«Ieri sera ci volevamo vedere un porno.» ha raccontato Alex.

Il sergente ha annuito, interessato. «E...?» lo ha spronato, quando ha visto che il mio amico non aveva intenzione di continuare. Non è riuscito comunque a smuoverlo.

«E il porno non c'era.» ha concluso Arale, aprendo di scatto il quaderno con gli appunti di Storia.

«Ah, vuol dire che era ben fatto e per niente volgare?» ha domandato il sergente, davvero impressionato.

«No, non c'era proprio.» ha ribattuto Alex. Frank ha cominciato a ridere, piegandosi sul tavolo, proprio la stessa reazione che ha avuto ieri sera, quando ce ne siamo tornati con la coda tra le gambe in camera.

«L'hanno spacciato per un porno e poi non lo era?»

«No, signore.» ha risposto Arale, il più educatamente possibile, ma la sua espressione era a dir poco furente. Deve essere davvero di cattivo umore, in questi giorni. «La scena di sesso era stata tagliata da uno spiritosone di nome Martin, un amico di Alex, almeno credo.»

Alex si è rabbuiato, ma è stato solo un breve istante, mentre scoccava un'occhiata a Frank che cercava di soffocare le risate, senza riuscirci. Perlomeno, ho capito cos'è un porno e sono rimasto alquanto imbarazzato: insomma, eravamo andati a vedere un film dove due si mettevano a concepire bambini? La cosa mi ha decisamente turbato e, per evitare di far vedere a tutti come ero diventato rosso, ho pensato anch'io di aprire il mio quaderno di Storia.

Le ultime cose sono parecchio impegnative, anche perché la Une vuole sapere a memoria i nomi di tutti gli astronauti che parteciparono alla Missione Alfa, missione che è servita ad ispezionare il territorio lunare, per vedere se era idoneo ad ospitare vita umana. Insomma, una gran noia. Non è finita: secondo lei, dobbiamo anche ricordare tutta una serie di trattati che sono serviti per mettere d'accordo tutte le nazioni del mondo, una volta che sulle colonie spaziali hanno cominciato ad insediarsi esseri umani.

Il bello è che non ci ha mai parlato del Sanc Kingdom. Pensando a questo, mi sono chiesto come introdurre il discorso a Hopkins, che sembrava molto più interessato alla trama del porno, che a svolgere il suo lavoro di bibliotecario.

La ragazza di nome Hermione, dopo averci scoccato un'altra occhiata di disapprovazione, ha raccolto tutta la sua roba e se n'è andata, non senza borbottare qualcosa sulla maleducazione. Ora capisco, quando sentivo dire che era una vera bacchettona e che, per questo, è la pupilla della Une. Ma nessuno, a parte me, sembrava interessato a lei, più coinvolti nel racconto del sergente, che, gesticolando forsennatamente, cercava di far capire quanto era grande uno dei castelli di cui parlava uno di quei racconti.

«Insomma, c'è una principessa rinchiusa nella torre...» stava dicendo Hopkins. Arale e Frank non lo ascoltano mai quando comincia a sproloquiare. Di solito, gli unici che gli danno udienza siamo Alex (solo che anche lui, oggi, sembrava parecchio annoiato) e io, se non ho la testa altrove. «Non fa niente tutto il giorno, si annoia e aspetta che arriva il suo principe, invece, quello... beh, è un poco di buono: è partito, sì, per andare a liberarla, ma, invece di compiere tutte quelle imprese, sai, quelle epiche e cose del genere, si ferma di osteria in osteria, seduce le cameriere, padrone, persino i cavalli o i gatti, beve come un cammello e poi riparte, per la prossima osteria. Uno schifo...»

«E chi va a liberare la damigella?» ho chiesto, curioso.

«Si libera da sola.» ha risposto lui, come se avesse dovuto essere ovvio. «E si sposa col calzolaio.»

Frank ha alzato gli occhi dal suo quaderno e ha ghignato. «Ma che storie sono queste, sergente?» ha chiesto. «Dame e cavalieri? Sembrano più delle parodie.»

Il sergente ci è rimasto male, ma solo per qualche istante. Si è passato la mano davanti alla bocca e poi ha alzato un indice verso l'alto. Io e Alex abbiamo guardato verso il punto che indicava, ma sul soffitto non c'era niente. «Aspettatemi qui» ha chiesto il sergente, alzandosi in piedi.

La biblioteca era vuota, come al solito: alla gente non piace che Hopkins sia così espansivo, così cerca di prendere quello che gli serve, riempie il modulo e se ne va. Noi quattro rimaniamo, anche perché fa certe cioccolate calde che sono la fine del mondo ed è anche molto simpatico. Solo che stavolta non ci ha portato la cioccolata, ma un libro con la copertina rigida, rosa, al cui centro c'era disegnata la caricatura di un castello. Si intitolava davvero “Vecchie storie di dame e cavalieri”, ma, in piccolo, vi era anche scritto: “Parodie demenziali per inguaribili bambini”. Arale gliel'ha fatto notare.

«Ah, mannaggia alla presbiopia...» ha sbuffato lui, sedendosi di nuovo. «Ecco perché sembravano parodie. Me l'hanno regalato per il mio compleanno.»

«Oh, ha compiuto gli anni?» ha voluto sapere Arale. «Tanti auguri!»

«Sì, un paio di settimane fa. Grazie, comunque, Norimaki.» ha risposto, con un sospiro, come se dircelo lo avesse fatto invecchiare di un altro paio d'anni e ora fosse troppo stanco per parlarne. «I miei nipoti hanno pensato che mi avrebbe fatto piacere e me l'hanno spedito. Che teneri, eh?»

«Oh, sì, bambini davvero di cuore!» ha annuito Arale, intenerita. Ma il sergente le ha rivolto un'occhiata smarrita. «Bambini? No, hanno uno trenta e l'altro quasi trentasei...» ha replicato, quasi offeso. Nessuno è riuscito a commentare di fronte a questa dichiarazione.

Abbiamo chiacchierato un altro po', poi ci ha lasciato studiare, soprattutto perché è entrato il professore biondo di Fisica Subacquea, Sark, l'uomo più spaventoso e freddo di tutto il sistema solare e oltre, che ha chiesto “un altro paio di occhi”, così si è espresso, per cercare un libro.

«Come minimo glieli vuole cavare!» ci ha sussurrato Alex, allarmato, facendomi rabbrividire. «Teniamo gli occhi aperti.»

«Io, invece,» ha ribattuto Arale, mettendogli davanti al naso i suoi appunti. «direi di studiare.»

«Ma se...»

Frank non l'ha fatto finire: «Non farà niente con noi davanti!»

«Potrebbe sempre ucciderci tutti per non lasciare testimoni.»

Ho deglutito. «D-davvero?» ho domandato, guardando Arale pieno di preoccupazione.

«Kenny, non starlo a sentire.» ha tagliato corto lei. «Secondo te, come li nasconde quattro cadaveri?»

Un po' più rincuorato da questo pensiero, ho deciso di abbassare lo sguardo sul mio quaderno. Alla fine, abbiamo studiato fino a mezzogiorno, cimentandoci sulla Storia. Ho cercato disperatamente per tutto il tempo di non pensare al sergente a terra, urlante, in un lago di sangue e con le cavità oculari vuote, mentre Sark se ne usciva tutto contento con un paio di occhi in più.

Alla fine ognuno di noi è riuscito a ricordare tutti i nomi e cognomi di tutti quegli astronauti. Solo io e Alex facevamo ancora un po' di confusione ed accostavamo il nome di uno al cognome di un altro, scambiavamo le date e trattati e loro contenuto. Ma, diciamo che l'impegno c'era stato (non so da parte di Alex, ma da parte mia poca, almeno finché Sark non se n'è andato, senza occhi in più, fortunatamente!), per cui Arale, al suono della campanella per il pranzo, ha decretato che andrà benissimo ripassare domani.

La mensa era più vuota di quanto lo fosse stata questa mattina e gli unici pieni, proprio come a colazione, erano quelli dei primi e dei secondi anni, più quello dei professori.

Ho scorto Marquise che, vedendomi entrare, mi ha rivolto un mezzo sorriso cortese, a cui ho risposto con un cenno della testa. Poi ho incrociato lo sguardo cattivo di Sark e, pensando che non volevo fare la fine che avevo previsto per il sergente, ho salutato anche lui, solo che non mi ha risposto, anzi: è tornato a fissare il suo piatto.

«Ma che bello! Brodino di pollo!» ha sbuffato Arale, buttandosi a sedere e guardando il pentolone al centro del nostro tavolo. Non si era accorta di nulla. «Sono stufa di mangiare sempre le solite cose.»

«Abituati!» le ha consigliato Alex, sedendosi accanto a Frank, di fronte a noi. «Tanto sarà lo stesso per i prossimi cinque anni. Pensa poi se ti bocciassero...»

Frank ha ridacchiato. «Non credo che Arale si farà mai bocciare.»

«Adesso non esageriamo...» ha borbottato lei, prendendomi il piatto e cominciando a riempirlo di brodo.

Pan è arrivata per ultima, quando ormai avevamo quasi finito il secondo; ha grattato la sedia sul pavimento, senza alcun ritegno, mi ha dato una gomitata, che per poco mi faceva finire addosso ad Arale e cadere a terra, e si è servita anche lei di brodo di pollo. In tutto questo, non ha detto una parola.

«Oh, andiamo, Alex!» stava dicendo Arale, che non si era accorta di nessuna delle azioni di Pan, e che stava difendendo a spada tratta Sark, con grande scorno di noialtri. «Forse si comporta così perché è molto timido!»

«Ma se è un torturatore!» ha sbottato Alex, indignato. «Altro che timido! Se quello ti becca...» si è passato un dito sotto al collo, in un gesto tremendamente eloquente.

«Mi sembra che noi e il sergente siamo ancora vivi!» gli ha fatto notare Frank.

«Solo perché non gli abbiamo pestato i piedi in nessun modo!»

Ho deglutito, mentre rabbrividivo di paura, pensando al saluto che gli ho rivolto prima: se l'avesse vista come un'offesa, mi avrebbe rapito e cavato gli occhi davvero. Mi sono girato, preoccupato. Forse speravo di poter capire dal suo sguardo assassino, se avesse intenzione di uccidermi o meno, ma lui se ne stava seduto accanto alla Une e mangiava con indolenza un panino. Lui non guardava né me, né nessuno dei miei amici, ma la Une sì. Per qualche strano motivo, aveva lo sguardo puntato sul nostro tavolo.

Ho capito dopo perché: Pan si era messa con i piedi sulla sedia e si dondolava su di essa, canticchiando una canzone sconcia di cui ricordo solo le parole “cazzo”, “culo” e “barbagianni”. Insomma, quelle che usa più spesso. Ma, con tutte le sue stranezze, non è comunque riuscita a togliermi dalla testa l'inquietudine che mi hanno dato le parole di Alex.

Ho lanciato uno sguardo ad Arale che, adesso, dimentica di Sark, ridacchiava allegramente con Frank. Nessun altro si era accorto di niente, a parte me, neanche Alex, che era impegnato a mangiare una mela senza toglierle la buccia.

«Comunque, dato che siamo stati bravi, che ne dite se oggi pomeriggio ci grattiamo allegramente i coglioni?» ha continuato, masticando sfacciatamente in faccia a Frank.

«Veramente abbiamo fatto solo Storia.» gli ha fatto notare Arale.

«Ma io sono stanco!»

La nostra amica ha sospirato e scosso la testa. «Ti do un'ora per riposarti.» gli ha concesso, dopo averci pensato qualche attimo. Pan, intanto, aveva cominciato a dondolarsi sulle gambe posteriori della sedia, continuando a cantare la strana canzone del barbagianni.

«Un'ora? Io ci metto un'ora solo per addormentarmi!» ha protestato Alex, col tono di uno che ha subito una grossa ingiustizia. Ma stava mentendo e sia io che Frank potevamo confermare che a lui bastava posare la testa sul cuscino per cominciare a russare come un maiale. Devo ammettere che l'ho sempre invidiato per questo.

«O un'ora o niente.» quella era l'ultima offerta di Arale e Alex non ha potuto accettarla perché un terribile tonfo ci ha distolto dalla discussione. Ammetto che ci ho messo un po' per capire, anche se le urla di Pan – sconclusionate e infarcite di parolacce – avrebbero dovuto portarmi sulla strada giusta immediatamente. Solo il fatto che non la vedessi più accanto a me, ma che vedessi le sue scarpe da ginnastica vecchie e sporche, mi ha spinto a guardare a terra, dove lei stava a gambe all'aria, il sedere ancora incollato alla sedia rovesciata.

«Ehm... ti... ti sei fatta male?» le ho chiesto, cautamente, non appena l'invettiva di Pan contro la forza invisibile che l'ha fatta cadere si era quietata. Ma la forza invisibile aveva l'aria di un ragazzino spaurito dai corti capelli castani che la guardava con occhi sgranati, a metà tra il mortificato e il terrorizzato. Avrei voluto dirgli di cominciare a scappare, ma ero interdetto quasi quanto lui per fare qualsiasi cosa che non fosse guardare Pan.

Tutta la mensa si è messa a guardare, la Une si era addirittura alzata e io avevo cominciato a farmela addosso.

«M... mi dispiace.» ha balbettato il povero ragazzo. «L'ho... urtata... per sbaglio... mi... mi dispiace davvero.»

Gli credevo, davvero. Anche ora mi chiedo cosa mi abbia trattenuto dal farlo scappare, troppo preso ad aggrapparmi al sedile della mia sedia, quasi avessi avuto paura che la gravità avesse potuto abbandonarmi da un momento all'altro, mentre anche i miei tre amici si irrigidivano e trattenevano il respiro, in tensione.

«Secondo te, coglione, POSSO STARE BENE?» per smentire le proprie parole, con un balzo, la mia sorellona si è rimessa in piedi e si è fiondata sul tavolo, rabbiosa e veloce quanto il vento. Ha afferrato qualcosa, non sono riuscito a vedere bene, ma era una posata e, incurante del fatto che la Une si stava dirigendo verso di noi, l'ha puntata contro il ragazzo. E non una posata qualsiasi: un coltello e noi, in caserma, ce li abbiamo anche belli affilati!

Atterrita, persino la direttrice si è fermata in mezzo alla sala.

«LO VEDI QUESTO?» per farglielo vedere meglio, ha piantato il coltello sotto il naso di quel povero ragazzo (mi rendo adesso conto che non so neanche come si chiama) e glielo ha premuto contro le narici. «TE LO FICCO SU PER IL...»

«ICCIJOJJI!» mai come in quel momento ho apprezzato le urla della Une.

Tutti i presenti hanno trattenuto il fiato. Non so cosa mi abbia trattenuto dall'urlare, ma ho lasciato che lo facessero le mie nocche per il dolore; i miei polpastrelli non avevano più sensibilità e sapevo anche che, se fossi stato forte la metà di quanto lo è Pan, avrei spaccato la sedia. Ero sicuro che il coltello ben presto sarebbe finito nella carne di quel poveretto e nella mia testa si era già formata una sequenza confusa di immagini in cui lo vedevo a terra, in una pozza di sangue, mentre gli insegnanti correvano di qua e di là per cercare di tamponare le ferite. Per un folle attimo, mi sono visto in un cimitero in mezzo a gente vestita di nero, ma è stato un secondo, prima che i vetri che stanno sulla parte alta delle mura della sala mensa tremassero, quando la Une ha urlato e si è gettata come una leonessa su Pan. Mi ero aspettato una lotta all'ultimo sangue. Ero pronto a tutto quello che avevo pensato, stavolta riferito alla Une, ma mia sorella si è limitata solo a spingerla via, lasciandole il coltello, come un segno di resa o, forse, per far sì che fosse lei a dare al ragazzo la punizione che meritava, secondo lei.

Intorno a noi, tutto era silenzio; il ragazzino è scappato via dalla mensa, per andare in bagno, secondo me. Eravamo immobili esattamente come la Une, le cui palpebre non si muovevano e i cui occhi erano vacui e sgranati. Ho avuto paura che il suo cuore si fosse fermato, tanto quanto ero sicuro che il mio stesse battendo così ferocemente da farmi perdere il respiro.

Persino l'aria sembrava essersi bloccata, atterrita. Pan stessa era completamente annichilita, il che è tutto dire. E anche Sark, ma la cosa non mi dispiaceva più di tanto.

Ma è stato solo un secondo, prima che il grido esplodesse potente dalla bocca della Une, il cui viso si era contratto di un'espressione di puro furore. «ICCIJOJJI!» i vetri hanno tremato di nuovo e dalla mia bocca è uscita una illogica sequenza di suoni, come se fossi stato io ad aver minacciato quel tipo con il coltello. Mia sorella, invece, si è seduta, lentamente, come se quel grido l'avesse privata delle forze. Anche lei aveva gli occhi sgranati esattamente quanto la Une, che si muoveva come una pantera assassina, gli occhi iniettati di sangue, verso di noi. Quando è arrivata a destinazione, Arale e Alex si sono fatti da parte. Guardavano la direttrice come se avessero avuto paura che potesse tirare fuori una pistola e farci fuori tutti. Ma la Une ci ha risparmiato: ha sbattuto il palmo di una mano sul tavolo, fissando mia sorella con uno sguardo omicida; se quello fosse bastato, Pan si sarebbe trovata stecchita all'istante, ma lei, si sa, ha una gran faccia tosta e si è limitata a ricambiare lo sguardo con tranquillità. La ammiro, sotto un certo punto di vista: se fossi stato io al suo posto, sarei morto davvero.

«Mi dica, Iccijojji» la Une ha parlato e la sua voce era ridotta ad un debole sussurro di spavento. «che cosa... aveva... in... mente?»

«Lo stronzo mi ha fatto cadere.» ha risposto mia sorella, con semplicità.

«Lo... l'ha... fatta... cadere...» ha ripetuto la Une, quasi fosse stata un robottino che doveva imparare le parole.

«Sì, e mi sono fatta male.» ha continuato Pan, seria, mostrando il gomito sbucciato.

Mi aspettavo la bomba e, infatti, è arrivata poco dopo: continuando a ripetere queste parole, sempre più velocemente, quasi, ad ogni nuova formulazione diventassero più comprensibili, la Une è arrivata ad un punto in cui ha detto la frase a così alto volume che, ho avuto paura, avrebbe fracassato la barriera del suono. «SI È FATTA MALE, ICCIJOJJI? LE HANNO MAI INSEGNATO A CONTROLLARSI O VIVE IN MEZZO AGLI ANIMALI? POTEVA UCCIDERE QUALCUNO!»

Pan si è guardata intorno, quasi a disagio e la cosa mi ha molto colpito. «Suvvia, non la faccia così tragica! Non è morto nessuno!» ha detto, in quello che ho percepito come un debole borbottio imbarazzato.

La Une ha battuto un pugno sul tavolo. «E' una fortuna che non sia successo!» ha abbassato lo sguardo, mentre tutta la sala calava nuovamente in quel silenzio teso e spaventato. Ho trattenuto il respiro e sentivo Frank, al mio fianco, borbottare parole che somigliavano a “non è possibile” e “non ci posso credere”. La Une, intanto, stava respirando pesantemente. Sembrava una donna incinta in pieno travaglio. «Lei deve imparare a conoscere la pericolosità dei coltelli e l'unico modo che conosco per riuscirci è farglieli maneggiare!» ha dichiarato, tornando a guardare Pan. Avrei voluto protestare, ma non ne ho avuto il coraggio: farglieli maneggiare? E che diavolo aveva fatto fino a quel momento?!

Comunque fosse, il suo tono di voce era tornato quello di sempre, rigido e freddo. Un grande cambiamento, ma era qualcosa che potevo sopportare: non riuscivo a guardare la Une in quello stato isterico. «Passerà il resto del semestre in cucina col cuoco. A partire da stasera!» ha dichiarato.

Pan è sbiancata. Sì, sono sicuro che sia successo, altrimenti ho avuto le allucinazioni. Ma non è stata l'unica ad avere una reazione simile: pure Arale era fuori di sé e i suoi occhi sgranati lo dimostravano in pieno. Gli altri ragazzi, anche agli altri tavoli, si scambiavano delle occhiate allucinate, alcuni erano riusciti a trovare la forza di conversare con gli altri. «Che ha detto?» ha balbettato mia sorella, disgustata.

«Mi ha sentito. E, ogni giorno, vorrò dei rapporti dettagliati da lei, sulle potenzialità pericolose di ogni singolo coltello. È chiaro?»

Pan ha corrugato la fronte. «Non mi espellerà?» ha chiesto. Sembrava triste e non capisco perché, sinceramente, pensando alla mamma ed alla sua ormai famosa promessa.

La Une, comunque, in barba a tutto questo, si è portata in posizione eretta ed ha intrecciato le mani dietro la schiena, mentre le restituiva uno sguardo grave.

«Se lo facessi, vorrebbe dire che sono venuta meno ai miei doveri. Se lo meriterebbe, mi creda. Ma questa scuola ha, da sempre, forgiato i caratteri più duri. E creda anche a questo...» ha creato una pausa, con un sospiro. «riuscirò a forgiare anche il suo!» lo ha detto, come se quella fosse stata la sua missione personale.

«Ne dubito.» è stato il commento di Arale, quando, a pranzo finito, tornavamo in biblioteca. La Une ha concluso che avrebbe chiamato i nostri genitori e poi ha lasciato la sala nel più completo sgomento: il suo discorso ha sconvolto tutti, non solo me e, almeno su questo, mi sono consolato.

«E perché?» ha voluto sapere Alex, che camminava dietro di noi.

«Credo sia perché Pan ha la strada spianata per il riformatorio...» è stato il commento di Frank che, accorgendosi di cosa aveva detto, si è messo una mano sulla bocca, prima di guardarmi con cautela. «Scusa, Ken...»

Gli ho detto di non preoccuparsi: a dire la verità, credo che abbia ragione e che anch'io, inconsciamente, l'abbia sempre pensato. L'ho vista lanciare di peso un professore e attentare alla vita di un ragazzino perché, involontariamente, l'ha fatta cadere. Dopo questo, credo che sarà una sorvegliata speciale e, forse, anche il suo curriculum verrà macchiato in modo permanente. Non basteranno tutti i solventi del mondo per riuscire a far sbiadire questo crimine. Ed è stata quest'ombra che mi ha lasciato distratto per tutto il resto della giornata di studio.

È stato orribile immaginare i vari modi in cui la mamma potrebbe prendere questa faccenda. Magari urlerebbe addosso alla Une, magari per darle ragione. Riuscivo a vederla scendere dalla macchina rosa, mentre prendeva Pan per i capelli, la scuoteva urlando qualcosa del tipo “delinquente patentata! Ora ti porto a raccogliere pannocchie a vita! Anzi: ti mando al riformatorio, dove devono stare gli avanzi di galera come te!”.

Il solo pensiero di avere una sorella galeotta mi ha perseguitato e, tuttora, non sono proprio contento di immaginarmela dietro delle sbarre di ferro. Però, poi, mi sono detto: se la Une riesce a forgiare il suo carattere – qualsiasi cosa abbia voluto dire – forse potrà rimanerne fuori.

«Ma non è detto che ci riesca.» ha commentato Arale, quando abbiamo preso una pausa, verso le cinque e mezza.

«No, infatti.» ha confermato Alex. «Metti Howard James, che lo teniamo solo perché suo padre è un pezzo grosso!»

Ho picchiato il libro di matematica con la penna. «Mio padre non è un pezzo grosso...» ho borbottato, prima di sospirare disperatamente.

«Forse, Kenny, ma la Une non mi sembra il tipo che molla facilmente.» Frank mi ha posato una mano sulla spalla e mi ha sorriso, incoraggiante. L'ho guardato, cercando in lui quella sicurezza che io non avevo.

«Secondo te... ce la farà? Insomma, le eviterà la prigione?»

Lui ha sorriso, mentre Alex rideva apertamente. «Io ce la vedo.» ha ammesso. «Sarebbe un bel capetto, in quel postaccio. Io ci sono finito una volta, ma...»

Lo abbiamo guardato tutti con tanto d'occhi. Arale aveva la bocca spalancata. «Dove sei finito?» gli ha chiesto. Alex ha tossicchiato. Mi è sembrato molto in imbarazzo.

«Beh, è stato tempo fa.» ha tagliato corto.

«Alex, ma... hai tredici anni!» gli ha fatto notare la nostra amica, indignata. «Perché...»

Il difetto di Arale, secondo me, è che quando si fissa su una cosa, andrebbe avanti per giorni finché non ottiene quello che vuole e si vedeva chiaramente che Alex si sentiva a disagio a parlarne. Anche io ero piuttosto sorpreso di scoprirlo e già pensavo a cosa avrebbe detto la mamma, una volta che anche lei avesse appurato che uno di quelli con cui passo più tempo è un ex-galeotto.

«Ho quattordici anni, veramente.» le ha fatto notare il mio amico. «E' successo prima che entrassi in caserma, ma non voglio parlarne.»

Così ha liquidato il discorso, ma Arale non voleva mollare. Ha aperto la bocca per replicare, però stavolta è stato Frank ad intervenire in favore di Alex, che si stava davvero accigliando. «Ora basta. Se ha detto che non vuole parlarne, non dobbiamo costringerlo, ti pare?»

«Ma...»

«Basta, Arale!» ha sbottato Alex. «Non rompere i coglioni!»

E' stato abbastanza triste vedere la nostra amica abbassare il capo, mortificata. Da una parte mi è dispiaciuto davvero per lei, dall'altra... capisco il punto di vista di Alex: sono cose personali, anche se anche io mi sto rodendo di curiosità. Eppure non ho proprio il coraggio di chiederglielo e non credo neanche di essere abbastanza amico suo, per poter pretendere che mi faccia una simile confidenza. A dire il vero, non sono neanche tanto sicuro di volerlo sapere.


*****


Eccomi tornata, ad un mese esatto dalla precedente pubblicazione. Mi sono autoimposta di rispettare le scadenze, stavolta, altrimenti campa cavallo! XD


Prof: hai riso davvero? *.* Per quanto riguarda la Noin... beh, c'è un motivo (non molto nobile) per cui è così: quando nacque questa storia, correva l'anno 2001 o giù di lì e, dato che non riuscivo a sopportarla (mentre adoravo la Une, quasi tutti i cattivi e Heero), le detti questa parte ben poco IC. Da allora non ho mai pensato di cambiarla e non mi è manco passato per la testa. XD Quindi, per adesso, non c'è una vera motivazione per cui è mezza muta, ma forse gliela troverò in futuro. XD Una versione molto meno ricca di questa storia esiste, una versione che non comprende i primi due anni di Kenny in caserma (appartenenti ad una versione ancora più vecchia ed inutilizzabile) che sto riscrivendo in toto, quindi... tutto è possibile!


Infine ringrazio NemoTheNameless per aver deciso di seguire questa storiella.


Prossimo capitolo tra un mese, sempre che non mi ubriachi di spumante. XD Ne approfitto per augurarvi Buone Feste!

Luine.

  
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