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Autore: drahen    10/12/2009    4 recensioni
Ho scritto questa ficlet un paio di anni fa. Narra le vicende di un cavaliere e di un ragazzo del popolo capace di toccare le corde della sua anima, indurita dagli eventi.
Genere: Romantico, Malinconico, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Coppie: Draco/Harry
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non conosco ove mi porterà tal narrazione, ma sento di dovermi soffermare prima che lo scadere del tempo giunga. Il sangue inarrestabile imbratta il lenzuolo che m’avvolge. So che non manca molto alla mia dipartita, ma sono certo che lo scrivano ascolterà i miei lamenti e permetterà alle parole di prender energia sui fogli ingialliti.
Desidero che il mio ricordo permanga nei secoli. Desidero che in futuro qualcuno afferri queste righe e tracci solchi nella propria anima per rispolverare un passato che sopravvive tra il fluttuare di un turbine.
Sono Harry James Potter di Limeston, nato nel 1112 e vissuto nel maniero di famiglia per tutta la mia breve e intensa vita. Addestrato da fanciullo al mestiere della guerra, non ho conosciuto altro fino all’incontro che ha fatto divenire il mio mondo rilucente.
Ma non scavalchiamo passi importanti. Mai vogliasi dire che messer Harry ha disturbato il vostro quieto vivere. Mai parole pronunziate sulla mia persona devono scadere nel banale e nel già sentito.
Ho combattuto, protetto le mie terre e vinto. E ho amato talmente che ora, nonostante la mia giovine età, non ho più nulla dentro.
Allo scoccare del mio venticinquesimo anno, è venuto il momento di raggiungere la via che mi sarà indicata. Sono stanco e vorrei solo il chiarore incommensurabile che il delirio mi porta. Una spada mi ha trafitto, ma so che non avrebbe potuto spezzarmi il cuore. Questo maledetto è stato distrutto nel mese in cui i fiori rinascono a vita. Ha smesso di battere nell’istante in cui le palpebre son calate su occhi di cielo. Ha smesso, quando labbra rosse come ciliege sono divenute silenziose.
Vorrei poter piangere…vorrei tanto, ma l’insegnamento dice che un uomo non può farlo. E io, che uomo di grandi valori mi sento, continuo a tenermi dentro la tristezza.
Aveva ventidue anni l’unico essere vivente che mi ha reso felice. Era nel pieno della bellezza e della freschezza. Il suo arguto pensare era giunto da poco alla maturità e una freccia scarlatta me l’ha portato via. Così, come una piuma che svolazza sulle ali del vento.
Un ultimo sguardo, una parola bisbigliata e incomprensibile. Una lacrima che solca le gote pallide. Le dita sottili che si aggrappano alla casacca. Un sospiro e poi? Poi più nulla. Solo il rombare del torrente, il sommesso chiacchierio dei presenti e la mia solitudine. Questo è il ricordo dell’ultimo istante.
Draco lo conobbi un freddo inverno, mentre vagavo per il villaggio ai piè del castello. Non l’avevo mai visto prima o, semplicemente, non mi era mai capitato di fermarmi a osservare meglio i miei sudditi.
Racchiuso in uno sgualcito abito, cercava di contenere i tremori, sciacquandosi le mani al pozzo dopo aver conciato alcune pelli a me destinate.
I capelli biondi come fili d’argento erano raccolti in una coda alla base della nuca e il volto, dall’ovale perfetto, metteva in risalto le iridi grigie. Non avevo mai visto nulla di più bello.
Scesi dal mio destriero e mi avvicinai, attratto da quella figura eterea e quasi irreale. Pensavo fosse impossibile vedere un angelo solcare quest’immonda terra.
Quando s’accorse della mia presenza, ebbe timore di aver compiuto qualcosa di scorretto. Abbassò la testa e attese la punizione che pensava gli avrei arrecato.
Invece, lo obbligai a guardarmi e gli sfiorai il naso sottile e la bocca morbida, carnosa… così invitante.
Pensai che non era possibile desiderarlo. Ero sicuro che io, cavaliere rabbioso e poco incline all’amore, non potessi meravigliarmi di fronte a un innocente.
Ma non ebbi il coraggio di andarmene. Qualcosa era accaduto. Qualcosa a cui non potevo dare un nome. Sapevo soltanto che volevo riempisse le fredde e impersonali mura della mia casa e decisi di portarlo con me.
Nonostante lo bramassi, proseguii la mia esistenza tra donne, feste e guerre.
Lo obbligai a divenire il mio servo personale. Gli ingiunsi di entrare nella mia camera, quando femmine di malaffare accompagnavano le mie notti insonni. E, mentre mi porgeva ciò che gli chiedevo, m’inebriavo del suo odore.
Le poche volte in cui osava scrutarmi, mi sentivo come il peggiore degli uomini.
Le sue mani trattenevano a stento i fremiti, osservando l’atto consumato tra le lenzuola come un carnale scambio di nullità.
Ma io, cocciuto come non mai, lo afferravo per le spalle inveendo contro la sua incapacità d’esser più maschio. Mi accanivo, perché sapevo che dietro la maschera di collera si nascondeva la voglia di possederlo. Ero certo che fosse solo questo che volevo. La novità, una notte passata tra le effimere soddisfazioni del corpo e tutto sarebbe svanito.
Ma non fu così.
Di ritorno da una battaglia in cui avevo mostrato tutta la sete di sangue, lo vidi davanti alla mia alcova.
La tunica scolorita era sempre più grande e le braccia, avviluppate attorno al busto minuto, sopperivano tra il vibrare delle sue paure. Era conscio di rischiare punizioni, come tante gliene avevo inflitte.
Mi avvicinai con passo sicuro, pronto a ridicolizzarlo. Per la prima volta, non abbassò la testa. Per la prima volta vidi la sua bocca tirarsi in un sorriso triste.
“Perdonate l’ardire, mio signore, ma non posso più restare”. La sua voce aveva un suono così delicato da non farmi rendere conto che stava per abbandonarmi.
Fui avvolto dall’armonia di un’arpa che solfeggiava le corde della mia anima.
Lui arraffò la sacca con i pochi averi e, senza avere rispetto di ciò che l’etichetta imponeva, s’incamminò per la scalinata del mio castello.
Attesi di non sentire più i suoi passi, prima di compier una qualsivoglia mossa. Non potevo, non volevo accettare che tutto finisse.
Forse me l’ero cercato. Forse il mio comportamento l’aveva costretto a distruggere l’ideale del gentiluomo e ora mi detestava.
Solcai le gradinate velocemente e giunsi nella corte. “Non andare” pronunziai ansante.
Mi tenni a distanza, lasciando che la luna desse luce all’unico momento in cui gettavo la mia maschera e rivelavo ciò che provavo.
So che avrei dovuto punirlo per aver osato prender una decisione senza il mio consenso. Ma non era quello il mio anelito. Non potevo perderlo. “Non andare” gli ripetei ancora.
Si voltò e notai la pelle che baluginava, inumidita dalle stille della disperazione.
“Perché, mio signore? Perché non dovrei? Perché l’amore che nutro per voi, mi permette di sopportare qualsiasi vostro atto?”
Amore…lui amava il suo carnefice! Non gli diedi alcuna risposta.
Lo raggiunsi e affondai le labbra sulle sue. “Non accadrà più” sussurrai. Mi abbeverai delle sue lacrime e annegai nel suo mare.
Non ci fu altro da aggiungere. Mi seguì fino in camera. E poi… solo il desiderio di noi. Una frenesia talmente grande da farmi arretrare, come fossi stato morso da una serpe.
Che sarebbe accaduto dopo quella notte? Come avrei potuto svelare a mio padre la scelta compiuta?
Lui mi venerava. Ero il suo unico figlio. Su di me aveva riposto ogni speranza.
Durante le nostre campagne, quando ci fermavamo di fronte al fuoco a riposare, mi batteva la mano sulla spalla dicendomi quanto era orgoglioso di aver cresciuto un ragazzo in grado di combattere come un adulto.
E ora…ora lo stavo tradendo per…semplicemente per amore.
Draco parve capire il mio tormento e si avvicinò a tal punto che non seppi riconoscere il suo calore dal mio.
Non ebbi più dubbi. Dovevamo essere una sola cosa e, in fondo, lo eravamo già. Lui con la sua giovine età e io con i miei diciassette anni vissuti intensamente.
Quando lo strinsi, svanì ogni ripensamento. Gli scorsi i polpastrelli sul collo esposto, godendo della pelle vellutata.
“Non voglio altri che voi, mio signore” mi disse, affondando il volto nel mio petto.
La veste scivolò a terra, accarezzai la curva sottile dei seni e calai ad assaporare i capezzoli.
Il dondolio d’ombre delle candele ci condusse sul talamo. Le morbide coltri ammantarono le nostre gesta. Non mi serviva altro che sentire il suo ventre abbattersi al mio e vedere le sue gote arrossate dal piacere.
Non credo di poter esprimere fin nel profondo ciò che accadde, ma sono sicuro che m’inabissai nella sua anima.
Placata la nostra fame di sentirci, ci lasciammo andare ad intime confidenze.
“Perché mi ami?” domandai, continuando a vezzeggiargli la chioma dorata. Non mi sarei mai stancato di sfiorarlo. Mi chiesi se non fossi succube di qualche maleficio.
“Non vi è risposta, mio signore. Con i miei quattordici anni, non saprei che dirvi. Esperienza non ne ho. So che, quando passavate nel villaggio, il mio cuore batteva talmente forte che avevo paura si rompesse”. Mi si accoccolò addosso e proseguì. “Decisi di occuparmi io stesso del pellame destinato a voi. Avrei potuto almeno toccare ciò che avreste indossato”.
Rimasi sbalordito da tanta innocenza. Poteva veramente esistere qualcosa di più bello?
Ero certo che avrei trascorso la mia vita a renderlo felice.
E così feci, nonostante il disprezzo di un padre che mi definì traditore di Dio. Il suo odio mi fece male.
Dopo la mia rivelazione, nonostante continuassimo ad andare insieme in battaglia, si teneva a distanza e mi guardava inorridito.
Il sangue del suo sangue condivideva il letto con un fanciullo. Non l’avrebbe mai accettato.
Una notte, durante il riposo dopo un lungo scontro, accadde ciò che temevo. Era giunto il momento della resa dei conti.
Mi aggredì verbalmente, sputandomi in faccia tutto il suo odio e rinnegandomi come figlio.
Disse che non mi avrebbe permesso di portare il nome dei Potter. M’ingiunse di andarmene dal castello, quando saremmo tornati a casa.
Abbassai il capo e cercai di mantenere la calma. Non potevo reagire. Nonostante mi avesse gettato addosso termini che non m’appartenevano, rimaneva sempre mio padre.
Presi un lungo respiro e pensai a Draco. Socchiusi le palpebre e mi sembrò di sentire la sua voce che mi confortava.
“Fate ciò che ritenete opportuno. Francamente, non m’importa. Non servono denari e castelli per essere felici”.
Non ebbi il tempo di terminare che mi sferrò un pugno in pieno volto, spaccandomi il labbro.
“Non è quello che voglio! Desideravo che tu portassi avanti la famiglia. Desideravo vederti sposato e con dei figli ai quali avresti insegnato l’arte di combattere come io ho fatto con te!”
“Credevo volevate vedermi felice!” ribattei, sollevandomi di scatto e asciugandomi il sangue che m’imbrattava il mento. “Credevo che mi avreste amato in ogni modo, chiunque fossi diventato!” Inghiottii rumorosamente per scacciare quel maledetto nodo in gola che non mi dava la possibilità di parlare.
Il mio venerato genitore indietreggiò e il mantello che lo copriva danzò alla brezza, celando la stazza muscolosa. “Non posso. Non posso sopportare di avere un figlio che…”. Si voltò e abbassò il capo sconfitto, allontanandosi senza aggiungere altro.
Mi resi conto che dimostrava molti più anni di quanti ne avesse. Non potevo farci nulla. Non potevo proprio rinunciare alla mia vita.
Sapevo che mi voleva ancora bene. Lo sentivo. Ed ero certo che non mi avrebbe mai scacciato. Ero sicuro che se avesse conosciuto Draco avrebbe capito la mia scelta.
Ma non ci fu il tempo.
Morì il giorno seguente, durante un estenuante lotta che terminò con la nostra vittoria.
Riuscii a parlargli prima che spirasse. Mi guardò con occhi sgranati trattenendo il dolore e disse che era fiero di me, nonostante tutto.
Non versai una lacrima. So che non avrebbe voluto, ne sono certo. Dovevo mostrare d’essere duro e deciso.
Mentre lui esalava l’ultimo respiro, io divenivo il signore di Limeston.
 

***

Mia madre era diversa. Sapeva soltanto pregare e chiedere perdono per la mia condotta. Mi credeva posseduto dal demonio. Ma non m’importava.
Draco cresceva e io con lui. Gli insegnai tutto ciò che potevo. Studiò arte, letteratura e quant’altro. Il suo intelletto era talmente sagace che, alcune volte, riusciva a superare il maestro.
Trascorsero i mesi e tante battaglie. Ogni qual volta ritornavo da una campagna, sapevo di dover affrontare il suo sguardo cupo e le sue disperate richieste di rinunciare a combattere.
Fu nel nostro secondo anno di convivenza che decise di affrontarmi, senza cedere alle motivazioni che mi spingevano a lottare contro feudi nemici.
“Me ne vado” pronunziò, non appena misi piede nella sala imbandita per onorare la vittoria. Bevvi una sorsata di vino, brindando a me stesso. “È così che accogli il tuo compagno? È in questo modo che festeggi il mio trionfo?”
Indietreggiò di qualche passo. “Non posso. Devi capirmi, non ce la faccio”. I suoi occhi mi parvero più grandi e trasparenti di quanto già non fossero. La parete di lacrime li faceva baluginare più di mille candele.
Cercai di fermalo, ma fu inutile. Sparì in un battito di ciglia. Serrai la mascella fino a farmi male. “Stolto, stupido, ragazzino! Tornate al tuo mondo”. Ammantato dalla collera, scagliai il calice d’oro e fissai il liquido carminio che colava sulle pietre.
Sferrai un pugno contro la parete e mi ferii le nocche. Guardai il sangue che imbrattava la mano e lo leccai per cancellare le tracce del mio sfogo.
D’un tratto, quella grande stanza mi parve soffocante. Dovevo andarmene. Non per raggiungerlo, né per pregarlo di tornare. Avevo diciannove anni ed ero testardo.
Corsi fino alla corte e saltai in groppa al mio cavallo. Nel tragitto che intrapresi, notai il mio amante che si appressava al villaggio. Gli passai accanto come una furia, ma non mi fermai.
Desiderava tornare a essere un popolano qualunque? Bene! Una sua scelta.
Continuai a spingere il destriero fino al lago. Scesi e mi buttai tra i flutti, completamente vestito. Avevo necessità di stare lontano da ogni pensiero mi balenasse in testa. Dovevo convincermi di poter proseguire la mia esistenza da solo.
Mi strappai la camicia di dosso, la lanciai sulla sponda e m’immersi. Vidi i miei capelli galleggiare. Sembravano fili di alghe, più scuri di quanto non fossero.
Quando anche il fiato stava cedendo, raggiunsi la riva in poche bracciate e mi stesi, godendo della calura estiva.
Prima di andarmene, fissai il mio riflesso nelle acque limpide. Avevo gli occhi arrossati, ma non era il pianto ad averlo provocato. Un cavaliere non piange.
Mi strusciai le palpebre e inventai una scusa per non definire lacrime quell’umido che sentivo solcarmi le gote.
Tornai al castello e trascorsi la notte insonne. Ogni tanto, allungavo il braccio per trovare il calore del mio amante. Ma c’era solo il gelo delle lenzuola.
Mi alzai, quando ancora la luna splendeva nel cielo e cominciai a riflettere. Mi mancava. Avevo bisogno della sua presenza per essere davvero me stesso.
Ma cedere era come perdere l’orgoglio e io che dell’orgoglio avevo fatto il mio stendardo non potevo.
I giorni che si susseguirono furono i peggiori che ricordo. Mi muovevo come un fantasma attraverso corridoi e stanze. Parecchie volte, mi affacciai sulle balconate, sicuro di aver udito la sua risata cristallina nella corte.
Al quarto tramonto, fui costretto a raggiungere mia madre. La sua serva era venuta a portarmi la missiva di colei che mi aveva definito demonio.
Come sempre, era agghindata con l’abito nero. La lunga treccia rossa calava sulla spalla e le adornava il volto segnato dal tempo, ma ancora molto bello. Mi resi conto di quanto ci somigliassimo. Il suo ovale morbido risiedeva nei miei tratti e gli occhi verdi risplendevano come pietre preziose, incastonate in folte ciglia. Tali e quali ai miei.
Mi chiesi come poteva celarsi dietro tanta magnificenza un animo capace odiare l’unico essere umano che aveva procreato.
“Figlio mio, è passato molto tempo dal nostro ultimo incontro. Nonostante viviamo nello stesso maniero, le nostre strade non si sono più incrociate”.
“Non è certo una mia scelta quella di non avere contatti con voi”. Mi violentai, per apparire il più tranquillo possibile. La vidi arricciare la piccola stoffa ricamata che teneva tra le dita.
“Azioni inaccettabili mi hanno costretta a tenermi a debita distanza, Harry. Tu perpetravi i tuoi errori condividendo il talamo con il peccato”.
Nell’udire l’affermazione iniziai a solcare la sala, nel vano tentativo di domare la collera. Sedetti a tavola e ingurgitai una sorsata di vino. Preferivo che il nettare dell’oblio mi portasse lontano da quel luogo.
“Credo che sia giunto il tempo di organizzare un banchetto”.
Non risposi, ma capii dove voleva arrivare.
“Molte nobili ambiscono a divenir tua moglie. Sei bello, ricco e potente. È ora che tu dia una dinastia al casato, non trovi? Hai solo da scegliere chi possa essere la tua degna compagna”.
Mi alzai e risi talmente che la gola sembrò prender fuoco. “Ora, capisco tutto. Sono due anni che non mi rivolgete parola e adesso lo fate solo per darmi una moglie? Siete stolta e ridicola. Un’incantevole signora senz’anima. Pensate che uno screzio distrugga ciò che ho condiviso!?”
“Non voglio sentirti!” Si schermò il volto come a proteggersi dal maligno.
Mi avvicinai e abbassai la testa per poterle sussurrare ciò che volevo. Penso di non aver mai odiato nessuno come lei. “Mia venerata madre, io amo toccare Draco, amo possederlo. Lo sentite? Il demonio è tornato. Ma credo che vi sbagliate a pensare che sia dentro di me. È in voi e nella vostra incapacità di capire”. Le accarezzai il volto divenuto pallido come la morte.
Mi spinse via e scosse il capo, cominciando a bisbigliare parole incomprensibili. “Prego per la tua anima”mormorò, continuando la sua litania.
“No, grazie. Non lo fate. Non vorrei che raggiungesse la vostra all’inferno”. Guadagnai l’uscita, ma prima di chiudere il portale le mostrai il migliore dei miei sorrisi. “In effetti, devo ringraziare voi per ciò che farò. Vado riprendere il mio compagno. Consideratelo come la moglie che tanto volevate darmi”.
Lei incrociò le dita davanti al ventre, s’avvicino e prese un lungo respiro, prima di proferir parola. “Se davvero è questo che vuoi, fingi che sia donna. In fin dei conti, è una bellezza che potrebbe apparire anche tale. Vestilo da dama, quando sei in pubblico. Per il buon nome di Limeston, fallo! Riguardo ai figli, potremo rimediare in qualche modo”. Il ghigno che le disegno le labbra turgide mi spaventò.
“Vi rendete conto di cosa mi state chiedendo?”. Sbattei il pugno contro il battente e me ne andai disgustato.
Salii in groppa al mio cavallo e giurai a me stesso che l’avrei riportato a casa, anche con la forza. Giurai che l’avrei picchiato, pur di fargli comprendere che il suo posto era accanto a me.
Mille pensieri s’intrecciarono nel cervello, mentre attraversavo le vie fino a giungere davanti alla misera catapecchia di fango e paglia del conciatore di pelli.
In un balzo, saltai a terra e ogni passo che compii fu come guadare le rapide di un fiume.
Quando vidi la minuscola porta spalancarsi, ebbi un sussulto. Apparve un ometto piccolo e con i capelli ingrigiti dal tempo. Il padre del ragazzo che amavo mi fissò con aria preoccupata.
“Dov’è!?” domandai, stridendo la mascella.
“Mio signore, voi non potete…”.
“Ho chiesto dov’è!” Non riuscii a frenare l’impeto. Lo afferrai per le spalle e strinsi fino fargli male.
“Voi non capite. Qui al villaggio, tutti dicono che Draco è…”.
“Non mi pare di averti dato il consenso di parlare. Chiama subito tuo figlio”.
Calciai l’uscio con forza ed entrai. Saettai lo sguardo in ogni direzione, fino a trovarlo seduto in un angolo buio.
“Alzati!” Osservai il mio amante. Era tornato ad abbigliarsi con i miseri indumenti da popolano e le mani tremavano, tese a trattenere il cuoio che stava lavorando.
Obbedì alla mia ingiunzione e il primo istinto, fu quello di abbracciarlo. Ma la rabbia di averlo visto tranquillo nella sua casa, senza il desiderio di tornare da me, cancellò ogni dolcezza.
Lo trascinai via in malo modo e, montato sul mio destriero, lo tirai su per la collottola della camicia.
Incitai il galoppo con una scudisciata e ci avviammo alla mia dimora.
“Harry…”.
“Non ora”. Interruppi il tentativo di dialogo, aumentando la corsa. Arrivati al maniero, gli intimai di andare in camera e attendere il mio arrivo.
La cosa che mi rendeva furente era il sapere che lui non sarebbe mai tornato, se io non fossi andato a riprendermelo. Solcai la gradinata, entrai nelle mie stanze e decisi di chiudere il portale, infilando il chiavistello di legno.
Draco era accovacciato in un angolo buio con le gambe chiuse al petto.
“È inutile, non funziona. Mi hai disubbidito”. Avrei voluto scuoterlo per non vederlo tremare. Non provavo compassione, ma solo voglia di batterlo per farmi amare come un tempo. “Alza la testa, davanti al tuo signore. Accetta la…”. Un nodo in gola mi bloccò le parole.
Mi fissò disperato. “Draco…”. Mi mancò l’aria. Vedevo solo il suo sguardo spaventato e implorante. La rabbia svanì di colpo. “Perché?” Fu l’unica cosa che chiesi. “Perché non sei tornato?”
“Mio padre non me l’ha permesso. Volevo rientrare la notte stessa. Mi mancavi…”. I singhiozzi aumentarono, spezzando il timbro.
Allungai la mano, sperando accettasse il mo aiuto e così fece.
Quando fummo l’uno di fronte all’altro, non resistetti. “Mi sei mancato anche tu” riuscii a dire, violentando la mia incapacità di mostrare i sentimenti.
“Harry, non lasciarmi mai”.
Mi bastava questo per poter essere felice: sapere che lui mi voleva, come e più di prima.
Ma c’era ancora una cosa che dovevo capire. Perché adirarsi per le mie campagne di guerra? Era un concetto che mi sfuggiva. “Perchè non vuoi che combatta?” Attesi un responso che potesse soddisfare la mia smania di sapere.
“Perché non voglio che tu muoia prima di me”.
La risposta mi spiazzò completamente. “Che intendi?”.
“Non voglio vivere se non ci sei tu. Non potrei, capisci?” Mi guardò come se avesse voluto scavarmi dentro. “Preferisco morire. Tu potrai rifarti una vita. Sei forte e potente. Io sono solo un ragazzo che vuole essere felice, finché gli sarà permesso. Quindi…ti prego, non combattere più”. S’inginocchiò come se le gambe fossero perite sotto il suo esile peso. “Preferisco morire sapendoti accanto e non piangere sul tuo cadavere”.
Che potevo dire? Non sapevo come rispondere a un’affermazione del genere. Mi accucciai e lo strinsi, quietandone i singulti. “Ora basta”. Mi baciò. La sua lingua premette per farsi strada dentro di me.
Finimmo sul talamo, desiderosi di appartenerci. Qualcosa mi suggerì di non possederlo. Qualcosa mi disse che non era il momento. “Non stasera…” mormorai, accarezzandolo. “Non stasera” ripetei, per dare più forza alle parole.
“Non mi desideri, mio signore?” Abbassò la testa a nascondere la delusione.
Lo afferrai per il mento, obbligandolo a guardarmi. “Ti desidero, certo. Ma non ora. Voglio solo parlare e sentire la tua voce. Tutto qui”.
Si lisciò la nuca senza capire bene dove volessi arrivare.
“Nessuno di noi due morirà. Siamo giovani e avremo una vita perfetta. Te lo prometto”.
Sospirò profondamente e sfregò il volto contro la mia casacca. “E io non starò più senza di te”.
Ci stendemmo sulle lenzuola e continuai a ninnarlo. “Ti amo…”. Lo dissi talmente a bassa voce che fu quasi impossibile capirmi.
Draco si sollevò di scatto e mi fissò.
Credo di non essermi mai vergognato tanto. Non riuscivo a guardarlo in faccia.
“Dimmelo ancora. Solo una volta. Anche senza che mi guardi. Ti prego. Solo…solo questa notte. So che…”.
“Ho detto che ti amo” rimarcai a denti stretti.
Percepii il frusciare degli arti sulla stoffa. “Se non sarai tu a scacciarmi, sarò il tuo amante, il tuo confidente e il tuo schiavo finché camminerò su questa terra. Te lo pr…”.
“Non farlo. Non promettere”. Mi voltai, sorreggendomi sui gomiti.
“Perché?”
“Le promesse sono figlie dell’inganno. Non ho bisogno che tu ne faccia”.
Non so cos’altro posso aggiungere se non che il tempo che seguì fu sereno e pieno di gioia. Per sei anni tutta la nostra vita sembrò essere protetta da una buona stella.
Non mi perdo in inutili racconti che potrebbero solo annoiarvi. Ci sarebbero degli aneddoti su cui mi vorrei soffermare, ma ribadisco che possono interessare solo me. Indi per cui, ritengo di dover arrivare a quel giorno di primavera.
Quel dannato giorno.
Io amavo andare a caccia e ogni tanto Draco mi accompagnava. Non gli piaceva, ma brontolando obbediva e si preparava di tutto punto per fingere di essere un provetto cacciatore. Non prendeva nessun tipo d’armi. Non le aveva mai sopportate.
Controvoglia, dovetti accettare la sua compagnia d’altri membri della famiglia. Ma non m’interessava. Mi persi a guardare il mio amante che galoppava e rideva, inoltrandosi nella foresta.
Lo seguii con lo sguardo, mentre continuava la sua corsa voltandosi di tanto in tanto a guardarmi.
“Harry, non è magnifico?”
“Sì…è perfetto”. Lo persi di vista e incitai il mio baio.
Per un attimo, non mi resi conto di ciò che accadde. Per un attimo, ci fu un silenzio quasi irreale.
Sentii ronzare nelle orecchie un fruscio simile a un’ape che svolazza. Poi, echeggiò un tonfo.
Un animale….qualcuno aveva colpito un animale.
Mi appressai lentamente. Avevo uno strano presentimento. Oltrepassata la curva, vidi Draco riverso al suolo in una pozza di sangue. Saltai a terra e gridai come un pazzo. M’inginocchiai e gli sistemai il capo sulle cosce. “No! No, no, no” lo ripetei talmente tante volte che sembrò quasi una nenia. “Non puoi…”.
Gli posai la mano sul torace e percepii il muoversi labile, sempre più lontano da quella che era la vita.
Non sapevo che fare, non sapevo come comportarmi. Pressai la ferita e fissai la freccia scarlatta con il simbolo del casato. Uno dei miei parenti…
Alzai gli occhi e mi trovai mio cugino di fronte, con l’arco ancora chiuso nel palmo. Era pallido come la morte.
“Non l’avevo visto. Credevo…credevo…”.
“Ora no!”. Non volevo sentire. L’unica cosa che m’importava era che il mio compagno sopravvivesse. Lo vidi battere le palpebre e inghiottire. Non potevo perderlo. “Mi senti? Non ti accadrà nulla”.
Le sue dita si strinsero sul mio polso. “Ho sete…” sussurrò, con un filo di voce.
Tutti i compari di caccia si erano raggruppati attorno.
“Portatemi dell’acqua, maledizione!” berciai, senza distogliere gli occhi dai suoi.
I respiri repentini e il tremore agli arti mi fecero disperare. Lo stavo perdendo.
Provò a parlare, ma non vi riuscì. Tirò la bocca in un sorriso, prima di esalare il suo ultimo respiro.
Gli occhi chiari divennero vitrei e le labbra si aprirono, soggiacendo alla pace eterna.
“Draco, rispondimi”. Lo scossi. Non poteva essere morto. Non glielo avevo ordinato.
Io ero il suo signore e padrone e lui non poteva lasciarmi solo. Non riuscii a trattenere le lacrime e continuai a chiamarlo. Me lo tirai addosso, spaccando la freccia che non mi permetteva di abbracciarlo.
Lo cullai, mentre chi mi stava vicino non riusciva a dire nulla. E io volevo solamente che Draco tornasse a vivere. La mia anima era morta con lui.
Era la fine di tutto.
La mia esistenza non ebbe più ragione di essere. Ricominciai a combattere, sperando ogni volta che mi colpissero a morte. Dopo cinque mesi, accadde ciò che anelavo.
Ora, attendo soltanto di chiudere le palpebre e riposare. Ho venticinque anni e sono così stanco.
Qui si conclude la mia vita. Qui ha termine il diario di un cavaliere. Un cavaliere che ha trovato un fanciullo capace di toccare le corde della sua anima.

  
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