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Autore: ylenia cullen    16/12/2009    4 recensioni
"Mi chiamo Jasper". Sentii il mio stomaco riempirsi di farfalle e il cuore iniziare a tamburellare violentemente contro il mio petto al suono della sua voce calda e profonda. Lasciai cadere le braccia lungo i fianchi nello stesso istante in cui lui mosse qualche passo verso di me. Non riuscivo a trovare una spiegazione al suo continuo sorridere e mi chiesi, aggiustandomi la sciarpa in torno al collo, se ero davvero così buffa acconciata in quel modo.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Alice Cullen, Jasper Hale
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Ripropongo la storia che avevo iniziato a scrivere qualche tempo fa ma che per ragioni di tempo non ero riuscita a portarla a termine. Ringrazio tutti quelli che mi avevano seguita, sperando che torneranno a commentare i capitoli. Sono abbastanza veloce nell’aggiornamento, ma tengo conto anche dei numeri dei commenti. Se una delle mie storie è poco commentata non la continuo. Che ragioni ci sarebbero di continuare qualcosa che non piace? Ringrazio in anticipo tutti quelli che recensiranno la storia. Ylenia.

 

 

 

 

 

 

Prologo – Al numero 55 di Diamond Street

 

Era il crepuscolo quando, dopo quasi un giorno di viaggio, arrivai nella piccola comunità di Healy, in Alaska.

Sbrigativamente salutai Jon, un vecchio ranger della zona che si era gentilmente offerto di accompagnarmi dalla stazione di Fairbanks fino a al numero 55 di Diamond Street.

Cercando di restare in equilibrio sulla spessa lastra di ghiaccio della strada, mi trascinai strisciando i piedi fino ad arrivare sotto un piccolo portico di legno marcio. Sbuffando rumorosamente battei tre colpi decisi sulla grossa porta di una tonalità spenta di marrone, tenendo stretto nell’altra mano un grosso e pesante bagaglio.

<< Alice! >>, esultò mio padre non appena aprì la porta, stringendomi in un abbraccio soffocante.

<< Ti aspettavo domani in mattinata. Cos’è successo? >>, disse scrutandomi preoccupato.

<< Niente papà. Ho solamente terminato in anticipo le mie ultime faccende e sono partita con qualche ora di anticipo >>. Annuì, arretrando per farmi entrare.

<< Jane! Jane, vieni a vedere chi è arrivata! >>, urlò entusiasta mio padre, facendomi sussultare. Mio padre e Jane si sposarono esattamente due anni dopo la morte di mia madre, Celine. Non ho mai accettato che Jane entrasse a far parte della mia vita e dopo il matrimonio, al quale non ho voluto partecipare, ho rotto tutti i contatti con lei e di conseguenza con mio padre.

Fino ad allora avevo vissuto con mia nonna a Port Angeles, piccola città di circa 18.390 abitanti  situata nello stato di Washington. Mancata mia nonna fui di conseguenza costretta a trasferirmi in Alaska, da mio padre, dove avrei frequentato gli ultimi due anni di scuola superiore prima di ripartire e lasciarmi tutto alle spalle.

<< Jane non stava più nella pelle per il tuo arrivo >>, annunciò poco prima che una donna minuta apparisse al suo fianco.

<< Alice! Che bella sorpresa! >>. Temetti per un momento che volesse stringermi anche lei in un abbraccio e sospirai quando invece si strinse al braccio di Harry, mio padre.

<< Non sai come siamo contenti di rivederti. Sei diventata proprio una bella ragazza >> continuò sorridendo.

<< Si, anche io sono contenta di rivedervi >>, mentii.

<< Be’, sarai affamata >>, mi disse Harry. Poi, rivolgendosi a Jane aggiunse: << E’ rimasto un po’ di brodo caldo? >>.

<< Non ho fame >>, mi affrettai a dire. << Sono solo stanchissima >>.

Due paia d’occhi scrutarono per qualche secondo la mia magra corporatura. << Come vuoi. La tua stanza è di sopra, in fondo al corridoio. E’ la più calda della casa ma se dovessi sentire freddo, non esitare a chiedere qualche coperta in più >>, concluse Harry.

Pensai che piuttosto di svegliare Jane nel cuore della notte per chiedere delle coperte, avrei preferito morire congelata.

<< Ok. Ora vado, buona notte >>, mi congedai.

<< ‘Notte >>, dissero in coro.

La camera non era molto spaziosa, ma Jane aveva cercato, anche se inutilmente, di renderla accogliente colorando le pareti di un caldo color arancio.

Recuperai dal grosso bagaglio una tuta asciutta e la indossai, lasciando a terra gli indumenti umidi che indossavo.

La luna, che aveva preso il posto alla scura luce crepuscolare, si rifletteva sulla piccola e unica finestra della camera, facendo brillare le pareti della stanza.

Mi infilai svelta sotto le ruvide coperte e rabbrividii a contatto con le fredde lenzuola. Quella sera, piansi.  Piansi perché mi sentivo maledettamente sola, perché sentivo la mancanza di mia madre e perché desideravo più di qualunque altra cosa una persona che fosse capace di capirmi, anche se sapevo che era un desiderio che non si sarebbe mai realizzato.

Mi rannicchiai stringendo le braccia sulle ginocchia, serrando gli occhi fino ad addormentarmi.

  
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