*
Davide
-Senta le giuro: era
un’emergenza!-
Poco
ci mancava che mi inginocchiassi dinanzi al poliziotto. Lo guardai implorante.
Era
una fortuna che in quel periodo il mio orgoglio avesse deciso di prendersi una
vacanza. Con un’altra buona dose di suppliche riuscii nel mio intento: il
vigile baffuto non mi fece portare via la macchina dal carro attrezzi. Lo
osservai allontanarsi agitando il manganello. Prima di entrare in un bar, mi
lanciò un’ultima occhiata sprezzante. Brutto stronzo…
Salii
in auto e, quasi per ripicca, partii a tutto gas. Era tardi per fare colazione,
presto per pranzare.
Che
potevo fare? Andare in ufficio? No, decisamente no, ma che mi passava per la
testa?! Mi accorsi troppo tardi che il semaforo ormai paurosamente vicino era
rosso. Frenai all’ultimo momento, arrestandomi a pochi metri di distanza
dalla fila di macchine provenienti da sinistra. Mi accasciai sul sedile e
sospirai sollevato.
Ora
serviva della musica: qualcosa di rilassante, ma non ammorbante. Aprii il
cofanetto sotto il mio gomito e vi iniziai a frugare dentro: Blink 182, Simple
Plan, Good Charlotte, Nelly Furtado… no, non andavano bene. Tirai fuori
tutti i cd che avevo e poggiandoli sul sedile del passeggero mi cadde in grembo
una tessera argentata.
La
guardai meglio: era la tessera della palestra. Avevo completamente dimenticato
di averla. L’avevo proprio rimosso, eppure ora mi eppure ora mi lasciava
una nuova possibilità. Numerosi clacson suonati a lungo mi informarono
garbatamente che il verde era scattato.
Senza
pensarci troppo mi diressi verso piazza Galilei: sarei andato ad allenarmi.
-Pronto?-
Risposi
svogliatamente al cellulare, incespicando nella borsa ai miei piedi: ero nello
spogliatoio, fortuna che tenevo sempre una tuta nel portabagagli.
-
Alla buon ora! Ma dove sei?-
Era
Andrea, e stava parlando. Aveva quindi riacquistato il dono della parola?
Assaporai l’idea di infierire su questo particolare ma poi decisi di
lasciar correre, in fondo mi ero già divertito abbastanza, e non era giusto
infastidire troppo i cuccioli. Così accennai appena un ciao fra i denti. Andrea
con un risolino tornò a parlare:
-
Dove sei? Io sono nel tuo ufficio. Stupido da parte mia illudermi di poterti
trovare qui, vero? Chissà perché avevo supposto che saresti andato a lavorare.
Invece ti posso raggiungere…-
Lasciò
la frase incompleta, aspettando che concludessi per lui. Ci riflettei un
attimo: mi andava che venisse qui anche lui? E va bene, perché no.
-
In palestra-
Andrea
non reagì subito: l’avevo preso in contropiede.
-
Davvero? Uau, vengo in un attimo. Sono già lì!-
C’era
da aspettarselo.
-
Ok. Ti aspetto nella stanza pesi-
Uscii
dallo spogliatoio e mi diressi alla panca davanti alla finestra: la mia
preferita. C’era già un ragazzino, smilzo e brufoloso: mi diede
l’impressione di uno che non aveva ancora raggiunto la pubertà. Doveva
aver appena iniziato: non era per niente sudato. Forse mi sentì arrivare,
perché alzò gli occhi e li fissò nei miei. Fu per poco, poi li abbassò subito,
lasciò andare la sbarra di ferro e si issò a sedere. Mi studiò ancora per
qualche istante, quasi impaurito, quindi con un cenno della testa si alzò e
corse verso il bancone all’entrata.
Ma
che avevo mai fatto? Neanche gli avevo detto niente! Mah, i ragazzi di oggi:
avrei potuto aspettare tranquillamente il mio turno… Cercai con lo
sguardo il poppante per chiedergli se volesse continuare ancora ad allenarsi, e
lo trovai tutto assorto in una conversazione con il tipo seduto dietro al
bancone. Non mi era mai andato a genio: un imbecille in piena regola, emaciato,
con i rasta, e cuffie onnipresenti nelle orecchie.
Decisi
di fregarmene e mi sistemai per cominciare ad allenarmi. Solo dopo la prima
serie da dieci mi venne in mente come mai non ero più venuto: mentre mi allenavo,
per non far caso al dolore che mi provocavano i muscoli, lasciavo libera la
mente di vagare, di toccare i pensieri più disparati… e questo, ora come
ora, non era un bene.
Ero venuto con lei in palestra.
Aveva detto di volermi vedere nel mio
“ambiente” e io l’avevo accontenta, portandomela dietro. Solo
non immaginavo che avrebbe voluto allenarsi anche lei… Il ragazzo al
bancone aveva riso, dicendo fra un sorriso sarcastico e l’altro che lì
non possedevano attrezzi per le femmine. Forse in quel momento aveva iniziato a
darmi sui nervi: come si permetteva di pensare che la mia piccola non fosse
all’altezza? Quello era puro maschilismo, il che forse non mi avrebbe poi
infastidito tanto se non fosse stato rivolto a lei.
Dedicai un ghigno sprezzante
all’odioso maschilista e guidai Ilaria verso lo spogliatoio.
Mi cambiai per primo, chiedendole
di aspettare fuori. Feci in un lampo e
poi lasciai entrare lei, mentre io rimasi fermo fuori la porta, facendo
allontanare con un solo sguardo intimidatore chiunque tentasse di avvicinarsi.
Uscì dopo pochi minuti, con un paio di pantaloncini corti ed una canotta:
assolutamente stupenda. Come mai non l’avevo portata prima in palestra
con me?
Forse inconsciamente sapevo che la sua
presenza, in quella tenuta, mi avrebbe distratto troppo, o che non avrei
sopportato a lungo le occhiate lussuriose degli altri ragazzi, prima di cedere
ad attacchi di rabbia causati da un folle gelosia…
Quando mi prese per mano e mi trascinò
in una stanza completamente vuota, non riuscii a trattenermi dal lasciarmi
andare a inaudite fantasticherie. Lei invece si avvicinò ad uno strumento che
non usavo molto, la sbarra, quella dove mantenendoti solo con le mani e facendo
leva con le braccia, dovevi tirarti su.
Voleva provare a fare quello? Sorrisi
vedendo che allungava le braccia per prendere la misura di quanto avrebbe
dovuto saltare per riuscire ad aggrapparvisi. Mi avvicinai di soppiatto e la
presi dolcemente per i fianchi, sollevandola per aiutarla. Lei mi sorrise grata
e mi fece segno di allontanarmi.
Le girai attorno, fermandomi di fronte a
lei. Iniziò a lavorare. Il primo fu il più difficile, quasi non ce la faceva.
Poi però fu incredibile: come se avesse preso il ritmo, non so, ma ne fece
venti consecutivi, uno dietro l’altro, veloce e precisa. Ma da dove
l’aveva tirata fuori tutta quella forza? Lei così esile e delicata…
Rimasi senza parole, continuando ad
osservarla. Conoscevo almeno cinque ragazzi che erano il doppio di lei e che
non sarebbero riusciti a fare ciò che aveva appena fatto con altrettanta
facilità. A un certo punto notai una leggera variazione nel tempo, aveva quasi
raggiunto i trenta, forse si era stancata.
Incontrai il suo sguardo, cercando di
capire se avessi intuito bene. E vidi i suoi occhi, dolci come sempre, colorati
dalla sua determinazione, che mi mandavano una tacita richiesta. Rapido mi
avvicinai e le strinsi di nuovo i fianchi. La mantenevo io, ora.
Lei lentamente lasciò andare la sbarra,
abbandonandosi a me, sicura della mia stretta. Poggiò le braccia sulle mie
spalle e chinò la testa vicino al mio collo. Sorrisi, e le sussurrai:
- Stanca? Sono fiero di te, sai? Sei
stata magnifica-
Lei rispose con una risatina leggera:
- Sì? Grazie. Ho fatto il mio per oggi.
Ora tocca a te-
Ma io non ero d’accordo. Non mi andava
più di allenarmi. Controllai che in giro non ci fosse ancora nessuno, poi mi
appoggiai ad un muro e lentamente mi lasciai scivolare, fino a sedermi per
terra.
Lei era ancora fra le mie braccia,
calma, completamente mia.
Me la sistemai meglio in grembo ed
iniziai ad accarezzarle la schiena, facendo scorrere delicatamente la mia mano
su e giù, soffermandomi sulle curve dei fianchi.
Senza fretta, feci scivolare la mia mano
sotto la sua maglietta, e sorrisi divertito: le era venuta la pelle
d’oca. Lei iniziò allora a baciarmi sul collo, sensuale come non mai, con
lentezza, indugiando su ogni bacio, rendendoli tutti eccezionali,
indescrivibili nella loro unicità.
Con le dita mi solleticava
deliziosamente dietro il collo, appena sotto le orecchie, divertita dai miei
fremiti di piacere. La strinsi più forte, ancora imprigionato dai suoi baci,
intimorito dall’idea che anche il più piccolo movimento avrebbe potuto
interrompere il piacere che stavo provando…
A
farmi tornare in me furono tante cose.
Il
dolore lancinante alle braccia, le grida di incitamento provenienti dalla folla
che si era radunata, Andrea accovacciato accanto a me che mi diceva di non
fermarmi ora…
-
Forza, forza! Altri cinque e raggiungi i cento!-
Sbigottito
continuai a sollevare i pesi, ignorando il dolore. Ero arrivato a cento? Senza
fermarmi? Come diavolo avevo fatto? Tre, due, uno… Grida di giubilo
accolsero la mia vittoria.
Cento.
Incredibile.
Andrea a quel punto scattò in piedi con un ululato di soddisfazione.
-
Visto gente? Così si fa! Vorrei vedere chi di voi riesce a farmene cento tutti
di seguito!-
Detto
questo tornò a piegarsi su di me riempendomi di schiaffetti. Con
un’occhiata di fuoco gli ordinai di fermarsi: era come se avessero appena
dato fuoco a tutti i muscoli delle mie braccia, quasi non riuscivo a muoverle.
Cercai di tirarmi su, ma in quel momento mi sembrò una cosa a dir poco
impossibile.
Andrea
si accorse delle mie difficoltà e mi offrì una mano per aiutarmi a rimettermi
in piedi. Mi avviai verso lo spogliatoio e lui mi seguì scodinzolante. Prese
posto su una panchina di fronte a me, fissandomi con fare reverenziale.
-
Davide, ma come cazzo hai fatto? Cento! Cioè, dico… ma non eri fuori
allenamento? Io a mala pena riesco a farne dieci senza fermarmi e tu…-
Si
fermò di colpo, studiando la mia espressione accigliata.
Non
so come ma dovette intuire qualcosa, perché mi guardò con compassione. Mi sorse
improvvisamente un dubbio terrificante: glielo avevo raccontato di Lari e me in
palestra? Non ebbi modo di ricordarmelo: mi passò accanto e con una pacca sulla
spalla mi disse:
-
Vatti a fare una doccia fredda, và. Così calmi i bollenti spiriti-
Uscì
dallo spogliatoio ridendo fra sé, non ebbi il coraggio di provare ad indovinare
cosa lo divertisse tanto.
Sì,
a quanto pareva dovevo avergli accennato qualcosa. Seguii il consiglio che mi
aveva dato e, pensando ancora alle labbra di Ilaria sul mio collo, mi infilai
sotto un getto di acqua gelida.
*
Ilaria
Tirai
su la lampo della giacca rabbrividendo: non pioveva più ma la temperatura
sembrava adatta ai pinguini.
Veronica
ed io eravamo appena uscite a prendere una boccata d’aria fresca, ci
dirigemmo verso un’altalena in fondo al cortile.
Ci
sedemmo e sempre senza parlare iniziammo a dondolarci.
Veronica
era stranamente silenziosa, immersa nei suoi pensieri ed io mi distrassi
guardando il paesaggio: eravamo immerse nella natura, appena fuori città. La
taverna l’aveva scelta Fil: “la migliore cucina in assoluto”
aveva detto. Eravamo arrivate circa tre ore fa, e l’avevamo trovato
seduto ad un tavolo enorme nella sala principale: una stanza gigantesca, con un
camino enorme lungo il muro in fondo. Non c’erano molte persone, giusto
un’altra decina di clienti oltre Fil… Fil e i suoi amici.
Non
appena ci aveva viste si era alzato in piedi e ci era venuto incontro. Mi si
era affiancato e prendendomi a braccetto mi aveva rivolto un sorriso
impagabile.
-
Mi dispiace. Ho tentato di non farli venire ma…-
Valerio
era scoppiato a ridere e si sbracciava per farci segno di prendere posto in
fretta.
-
Non potevamo perderci questo pranzo, Fil! La tua nuova ragazza è troppo forte!-
Veronica,
seduta alla mia destra, mi guardò stralunata. Stavo per rassicurarla con gli
occhi, ma mi distrasse un movimento di Fil: era alla mia sinistra, e invece di
arrossire per le insinuazioni ben poco velate degli amici come la volta
precedente, stavolta, sorridendo tranquillo, avvicinò ancora di più la sua
sedia alla mia, fino a trovarsi quasi attaccato a me e passandomi il braccio
destro attorno alla schiena.
Sentii
Veronica trattenere il fiato, ma non ci feci caso: in quel momento stavo solo
guardando il blu di quegli occhi, incapace di distogliere lo sguardo… era
stato magnifico. Un pranzo a dir poco perfetto: la cucina era ottima, come
aveva promesso, e poi c’erano i suoi amici, a dir poco esilaranti, ed un
particolare interesse che Vincenzo sembrava provare per Veronica, che
ricambiava in pieno… e poi c’era lui.
Dolce,
tenero, divertente: favoloso non rendeva l’idea. Erano passate tre ore,
tre ore che erano volate. Tornai a guardare Veronica, aveva
un’espressione sognante che mi divertì:
-
Vero, sei ancora qui?-
Lei
non reagì prontamente, con un leggero ritardo mi guardò e ancora sorridendo mi
rispose, amabile come non mai:
-
Uhm? Sì tutto bene. Io… mi sono divertita, tanto. E Fil è magnifico,
sai?-
Fermai
con i piedi l’altalena per poterla guardare bene in viso:
-
E i suoi amici non ti sono piaciuti?-
Chiesi,
sapendo bene dove volevo andare a parare. Anche Vero lo sapeva. Si fermò anche
lei e rispose, illuminandosi ancor di più:
-
Oh, sì, anche i suoi amici sono simpatici. Molto. In particolar modo…-
Non
concluse la frase, accennando ai ragazzi che stavano per raggiungerci. Non
vennero tutti però. Valerio e Valentino ci salutarono da lontano, per poi
andarsene in una Nissan grigio metallizzata. Sorpresa, mi concentrai
sull’espressione di Fil, cercando di capire cosa stesse succedendo. Lui
mi sorrise serafico e, passatomi alle spalle, iniziò a spingere
l’altalena con lentezza. Girai un po’ la testa all’indietro
per incontrare il suo sguardo e trovai il suo viso a pochi centimetri dal mio.
-
…Che sta succedendo?-
Gli
domandai a bassa voce. Lui deviò lo sguardo e bisbigliò:
-
Volevo proporti una cosa: ti andrebbe di venire con me in un posto?-
Mi
chiese prima di spingere di nuovo l’altalena. Una volta tornata tra le
sue braccia mi aggrappai al suo braccio:
-
Venire con te? Dove?-
Lui
si accovacciò, per trovarsi alla mia altezza:
-
Sorpresa-
E
poi sorrise. Anche volendo non saprei dire se sarei stata in grado di rifiutare
l’offerta. L’unica obiezione che mi venne in mente fu:
-
E veronica?-
Lo
feci ridere:
-
Se n’è già andata con Vincenzo-
Mi
disse accennando con la testa all’altalena alla mia destra. Non riuscivo
a crederci: era vuota. Ma quando se ne erano andati? Come avevo fatto a non
accorgermi di niente?
Fil
mi prese per mano e con delicatezza mi fece alzare.
-
Andiamo?-
Annuii,
sorpresa da me stessa, dalla mia condiscendenza assurda. Non sapevo dove voleva
andare né come, ma l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era che sarei
stata con lui. Mi portò sul retro della trattoria, c’era un parcheggio
quasi deserto: ad occuparlo solo due bici ed una cinquecento bianca. Cercai di
fermarmi per chiedergli qualche spiegazione, ma lui mi colse di sorpresa
trascinandomi in un vialetto secondario che avevo completamente trascurato. Lì
si bloccò vicino ad una moto enorme: nera, con parti blu ghiaccio, un dragone
bianco si allungava lungo la fiancata sinistra e due caschi neri erano poggiati
sul sedile.
Fil
mi teneva ancora per mano, ma ora mi fissava, divertito dalla mia meraviglia.
-
Avevi già preparato tutto?-
Lui
mi porse uno dei caschi e mi aiutò ad indossarlo:
-
Più che altro speravo con tutto il cuore che andasse così…-
Ero
rimasta senza parole. Lui accese il motore, e già pronto a partire mi guardò,
in attesa di una mia mossa: non potei e non avrei voluto fare altro dal montare
in sella e avvolgergli il torace con le braccia.
Andava
veloce, tanto. Ma non avevo paura e nemmeno freddo: avvinghiata a lui, con il
viso contro la sua spalla, mi sentivo sicura, del tutto conscia che non mi
sarebbe successo nulla. Convinzione stupida, ma che ebbi per tutto il tempo del
viaggio. Tempo non tanto lungo dopo tutto: la moto frenò la sua corsa quando furono
trascorsi al massimo quaranta minuti.
Scesi
per prima, mi tolsi il casco e cominciai ad osservarmi attorno. Eravamo in
alto: uno di quei paesini abbandonati sui pizzi delle montagne. C’era la
neve: poca, giusto un paio di centimetri, ma quel tanto che bastava a dare a
tutto un contorno bianco, un non so che di magico… mi soffermai a
guardare il paesaggio ai nostri piedi:
case, colline, distese di piante, tutto lì, bellissimo e nostro. Nostro almeno
in quel momento.
Ero
ancora incantata a fissare un pupazzo di neve in un cortile poco lontano quando
Fil mi afferrò la mano e sorridendo mi invitò a seguirlo. Entrammo nella
piccola cittadina. Avevo visto bene, era abbandonata: i muri e le case erano
diroccati, non c’era quasi più niente ancore in piedi. Affrettai il passo
per tornare in pari con Fil.
-
Cos’è che…-
Non
mi lasciò andare avanti: mi zittì, ma non con cattiveria.
-
Vengo qui spesso. E’ un posto che mi trasmette un… un non so che.
Ha un qualcosa di incantato, soprattutto ora che c’è anche la neve e
guarda qui-
Dicendo
quest’ultima frase mi fece entrare in una piazza circolare non molto
grande, dove c’erano i resti di quello che in passato doveva essere un
castello. Era bellissimo. Come aveva provato a spiegarmi Fil trasmetteva un
qualcosa, un qualcosa di indefinibile. Quel luogo rievocava alla mente il
passato: non solo perché ciò che predominava erano cumuli di macerie, ma perché
quel castello ricordava inevitabilmente
scene epiche come… come quella di Romeo e Giulietta. Mi sconvolse
quell’idea, il modo in cui non sembrava improbabile che da decenni
nessuno camminasse più per quelle strade. Fil mi strinse la mano, ricordandomi
la sua presenza:
-
Ehy, non volevo spaventarti. Non ti piace qui?-
Aveva
frainteso, sorrisi ancora sovrappensiero:
-
No, no. E’ bellissimo-
Lui
mi tirò di più a se:
-Mi
fa piacere che ti piaccia. Ma non è solo per questo che ti ci ho portata.
Vieni-
Inciampai
in un mattone sconnesso della strada e lui mi afferrò giusto in tempo:
-
Non c’è bisogno di tanto entusiasmo-
Scherzò,
stringendomi a sé. Rimanemmo immobili, bloccati in quella posizione solo per
qualche istante, istanti che sembrarono durare all’infinito. Fil avvicinò
lentamente il suo viso al mio, continuava a tenere gli occhi fissi nei miei,
dischiuse leggermente le labbra, accostandole sempre più alle mie. Erano ormai
a pochi millimetri di distanza quando mi scostai, spostando appena appena la testa all’indietro.
Fil
restò immobile ancora qualche secondo, poi tornò a guardarmi sorridendo:
-
Andiamo?-
Mi
chiese, come se non fosse successo niente. Annuii confusa. Confusa da ciò che
era quasi successo e ancora di più dal mio comportamento. Lo seguii
meccanicamente, senza realmente guardare dove mi stesse guidando. Poi notai che
ci stavamo paurosamente avvicinando ad un precipizio e che Fil non sembrava
intenzionato a fermarsi. E va bene, forse lo aveva deluso, ma non credevo fosse
una cosa tanto grave da decidere di buttarsi di sotto! Mi bloccai
precipitosamente e fermai lui con me. Mi guardò sorpreso:
-
Che c’è?-
Sgranai
gli occhi:
-
Hai notato il precipizio?-
Gli
chiesi ironica. Lui scosse la testa sorridendo e mi indicò con la testa un
albero sul bordo del burrone. Inizialmente non notai niente, osservando meglio
invece, mi accorsi di un filo che partiva da uno dei rami dell’albero,
per poi allungarsi sopra tutto il burrone, fino a raggiungere un tronco cui era
legato, su un’altra pianura. Fil mi portò ai piedi dell’albero e
tirò giù un sedile, appeso al filo. Di colpo capii: sedendosi su quel
sediolino, si superava il burrone e si raggiungeva l’altra sponda.
Guardai Fil terrorizzata:
-
Spero tu stia scherzando! Saranno almeno cinquecento metri di distanza!
Come… e se la corda si spezza? Se il sedile si stacca e precipita
giù… se…-
Lui
sorrise, cercando di calmarmi, e dolcemente mi poggiò un dito sulle labbra.
-
E’ sicuro. L’ho già fatto tante volte. Non c’è di che
preoccuparsi-
Scossi
la testa. No. Non si poteva fare, era una pazzia! Lo sentii ridere e mi voltai
a guardarlo come se fosse impazzito. Fil mi afferrò il mento con due dita e lo
sollevò affinché lo guardassi negli occhi:
-
E se andassimo insieme?-
Lo
chiese con un tono di voce che avrebbe potuto convincere chiunque. Non risposi
subito, affascinata dal suo sorriso tentatore. Un groppo in gola mi bloccava le
parole. Riuscii solo ad accennare un timido ed incerto sì con la testa. Fil
allora si illuminò e veloce prese posto sul sedile, poi senza sforzo prese
anche me e mi fece accomodare sulle sue ginocchia. Con un braccio mi avvolse
saldamente i fianchi. Con l’altro strinse la fune che avrebbe dovuto
portarci sani e salvi fino all’altra sponda. Avvicinò la bocca al mio
orecchio e sussurrò:
-
Pronta?-
In
quel momento non ero più sicura di niente, eppure fu per quella voce che
risposi:
-
Sì-
*