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Autore: Himechan    26/12/2009    4 recensioni
Asso è un egoista.
Asso è nato solo, vive solo e morirà solo.
Solo con il suo cielo infinito.
Lontano dalla terra che tanto ti aveva fatto del male.
Ti rinchiudevi in quel tuo guscio volante, e scappavi via, lontano dai sentimenti, da chi ti aveva ferito, ma anche da chi ti aveva amato e continuava a farlo in silenzio.
§Capitoli I-II: terza classificata e vincitrice Premio giuria al "Le fleurs du Mal contest", indetto da Pagliaccio di Dio§
Genere: Azione, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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Per il mio cuore basta il tuo petto,
per la tua libertà bastano le mie ali.

Dalla mia bocca arriverà fino al cielo,

ciò ch'era addormentato sulla tua anima.

~ Pablo Neruda~




Londra, 1998



-Come potete vedere, in questo momento ci troviamo alle spalle dell’altare maggiore, all’interno delle cosiddette Royal Chapels,  delle quali la principale è sicuramente quella dedicata a Enrico VII, a tre navate con una corona di cappelle, come una sorta di chiesa dentro la chiesa. In realtà il re e la regina sua consorte, Elisabetta di York sono inumati in una cripta sottostante-
La voce della giovane guida risuonava squillante, mentre sciorinava nozioni storico-artistiche sulle meraviglie di una delle massime glorie dell’abbazia di Westminster, ad un gruppetto di arzilli vecchietti in visita in uno dei monumenti più antichi e imponenti di Londra.
Parlava un inglese impeccabile, con una pronuncia spiccatamente londinese, veloce ed elegante: dopo più di cinquant'anni, però, lei riusciva ancora a percepire le sfumature di quella lingua così diversa dallo slang americano a cui era ormai fin troppo abituata.
Era carina. Giovanissima. Probabilmente appena uscita da qualche facoltà d’arte, e ora si guadagnava qualche soldo illustrando pazientemente ai turisti le meraviglie di quell’antichissima abbazia. Però si vedeva che lo faceva con piacere, glielo si leggeva negli occhi, appassionati e curiosi, nel modo di approcciarsi a quei vecchietti petulanti a cui spesso, sordi com’erano, doveva ripetere le cose, al modo con cui dettagliatamente, ma senza troppa accademia, si soffermava sui particolari più affascinanti.
La signora sorrideva, in silenzio, mentre la osservava gesticolare animatamente, pensando che in fondo, l'idea di quel viaggio a Londra, non era stata poi tanto malvagia.
Era la prima volta che tornava a casa dopo cinquant'anni, e il rivedere i posti della sua infanzia e poi della sua gioventù, tutto sommato le aveva fatto bene. Ricordava ogni cosa perfettamente, come se tutto fosse accaduto un istante prima, e niente, si fosse cancellato dal suo cuore.
Ricordava la sua amatissima Londra: lo scorrere vorticoso del Tamigi, l'imponenza di St. Paul, il tramonto dal Tower Bridge, persino i bambini che giocavano a pallone a Green Park, lo stupore nell'attraversare di corsa Trafalgar Square e arrampicarsi con il fiatone sul piedistallo della svettante statua di Nelson dove stavano poggiati a guardia i quattro leoni maestosi, il mercatino di Apple Market a Covent Garden dove con lui...
Il cuore le balzò nel petto mentre un volto si imprimeva di nuovo prepotente nella mente.
Chiuse gli occhi, respirando a fondo, tentando di scacciare quella faccia.
Inutilmente.
Come poteva pensare a quel fantasma?
E soprattutto come poteva ancora pensare di dimenticarlo se non vi era riuscita per cinquanta lunghissimi anni?
Folle.
Soprattutto ora che era di nuovo a casa.

Poi si spostarono verso l’estremità orientale della cappella e qualcosa catturò istantaneamente la sua attenzione. La giovane guida si accorse di come lei si fosse soffermata ad osservare quella piccola nicchia.
-Signorina, e questa?- le domandò l’anziana signora con uno strano fremito nella voce.
La giovane le sorrise cordialmente –Questa è la cappella della Raf- e a quelle parole, le parve quasi che il suo cuore avesse cominciato a battere a tonfi sordi.
Raf. Raf. Raf. Raf aveva detto?
Poi la donna continuò –Fu consacrata nel 1947-
1947
Lei era già in un’altra vita.
Non poteva conoscerla.
-La vetrata commemora i caduti della Battaglia d’Inghilterra svoltasi nel 1940, in una fase cruciale della seconda guerra mondiale-
-Uhm…capisco…- disse l’anziana, voltandosi in silenzio, con aria pensosa a fissare l’ampia vetrata colorata davanti a sé, dove erano raffigurati alcuni soldati con indosso l’uniforme dell’aviazione di sua Maestà.


-Ehi, Asso! Tornerai sulla terra prima o poi?!-
-Sulla terra ci torno solo se mi sposi, altrimenti non se ne parla!-
-Bugiardo! Lo so che tanto non mi sposerai mai! Tu hai solo i tuoi aerei da amare!-


-La vede quella piccola falla laggiù?- le spiegò la guida, distraendola dai propri pensieri, indicandole un piccolo buco ricoperto da un vetro.
L’anziana donna la fissò con aria stupita.
-Quella si è aperta quando una bomba cadde proprio a pochissimi metri da qui-
La signora annuì, senza dire una parola.
Lei il fischio di quelle bombe ce lo aveva ancora assordante nelle orecchie. Erano passati quasi sessant’anni ma il fragore di quelle bombe riecheggiava ancora nella sua testa, come l’angoscia, e il terrore puro di essere una delle tante vittime.
E di non avere la più pallida idea di dove lui fosse.
Lassù nel cielo, questo era sicuro, libero, ma a rischiare una posta altissima.

-Asso tu non sei fatto per stare sulla terra. E soprattutto per avere una moglie e una famiglia-
Asso non è fatto per amare.
Asso è un egoista.
Asso è nato solo, vive solo e morirà solo.
Solo con il suo cielo infinito.

Lontano dalla terra che tanto ti aveva fatto del male.
Ti rinchiudevi in quel tuo guscio volante, e scappavi via, lontano dai sentimenti, da chi ti aveva ferito, ma anche da chi ti aveva amato e continuava a farlo in silenzio.

Di colpo si sentì le lacrime agli occhi, mentre stringeva convulsamente il parapetto che la separava dalla cappellina.
-Signora…si…si sente bene?- le chiese la giovane con aria preoccupata, ma lei si affrettò a rivolgerle un sorriso rassicurante.
-S-sì. Io…sto bene. Grazie-
E non disse altro.
Che buffo.
Quell'uomo raffigurato sulla vetrata assomigliava così tanto a…





Londra, 1924


-Sei!-
Brucia. Brucia da morire.
-Sette!-
-Mpf-
Il dolore era lancinante.
Non gli dava tregua.
Ma era ancora vivo.
Riusciva a contare mentalmente i colpi.
Pensare lo aiutava a rimanere lucido e a non soccombere.

Alla decima sentì la pelle lacerarsi sotto il violento schiocco della frusta sulla sua schiena nuda.
Ma non disse una parola.
Si mordeva il labbro inferiore a sangue, senza emettere un fiato mentre l’esecutore ricominciava sadicamente a picchiarlo.
Metodicamente.
Lentamente.
Molto lentamente.
Perché voleva fargli provare ogni istante di quel dolore atroce.
Dunque tra un colpo e l’altro faceva intercorrere qualche istante, in modo che lui assorbisse tutto lo strazio della sferzata sulla pelle, per poi risentirlo nuovamente, al triplo della violenza.
E ad ogni colpo che arrivava, implacabile e brutale, gli pareva quasi che gli mancasse il fiato. Come se i polmoni si comprimessero al momento del colpo e poi lentamente tornassero come prima. Ma questo naturale movimento, che in realtà era il semplice respirare, gli causava dei dolori atroci alla cassa toracica.
Se smetto di respirare, morirò, e allora gliel’avrò data vinta, ma se continuo a respirare morirò per il dolore.
Ma l’uomo non gli aveva dato tempo di pensare.
Non voleva che lui pensasse ad altro e quindi si deconcentrasse dalla punizione che gli stava infliggendo.
Così  rideva, rideva sguaiato mentre infieriva con piacere, avvertendo tutto l’odio di quel piccolo figlio di puttana che cresceva smisurato ad ogni frustata
-Sudicio cane, impara a rispettare chi comanda-

-Tredici-
Ormai stava quasi per perdere i sensi e dargliela vinta

-Che c’è? Non ce la fai più, eh?!-
Quello sghignazzava irrefrenabilmente mentre alcuni schizzi di sangue gli bagnavano la camicia, rendendolo ancora più folle ed eccitato.
-Bastardo mi hai sporcato la camicia!- esclamò disgustato, fermandosi ad osservare le macchie di sangue.
-Adesso per punizione te ne darò due in più. A meno che…-
Il ragazzo respirava affannosamente, sentendo il petto e la schiena trafitti orribilmente da un ferro incandescente passato su ogni centimetro di quella parte massacrata senza alcuna pietà.
Era di schiena, piegato a novanta gradi e l’esecutore poteva vedere solo i suoi folti capelli castani e il dorso che faceva su e giù convulsamente ad ogni respiro mozzato dalla frustata. Se avesse potuto vedere anche la sua faccia avrebbe goduto il doppio.
-A meno che ora ti inginocchi e chiedi umilmente perdono con quella tua faccia da verme. Avanti oggi mi sento generoso. Chiedi perdono e ti risparmierò!- gli disse seccamente passandosi la manica sulla bocca.
Quel bastardello era tenace come pochi. Gli provocava non poca fatica il punirlo ogni volta. Finora però non aveva ancora emesso un fiato e non era scoppiato a piangere come facevano tutti quei marmocchi insignificanti che avevano il puro terrore di assaggiare la sua lunga ed elegante frusta di cuoio nero.
In un certo, oscuro, senso lo ammirava.
E lo odiava.
Perché era…
Era…
Coraggioso.
E indomito.
E ribelle.
E fiero.
Uno dei peggiori.
Lo disprezzava e lo ammirava allo stesso tempo.
Perché aveva una fibra d’acciaio.
Ed era piccolo.
Un piccolo figlio di cagna, abbandonato da chissà chi, con una tempra da vecchio.
-Allora chiedi perdono e ti risparmierò le ultime due!- ansimavano entrambi per lo sforzo.
Il ragazzino per il dolore.
Il boia per lo sforzo.
Attese in silenzio.
-Rispondi o te la faccio pagare, James Railey-
-Va…-
-Sì?- il ghigno era trionfante –Non sento…-
-Va…-
-Va…Bene?-
-Va…a-
-Attento…- la minaccia sibilava sottile nell’aria.
James respirava convulsamente, sentendo dolore ovunque.
Ma i suoi occhi azzurri erano determinati e dominati da un rancore sordo, inumano che lo rendevano una belva senza sentimenti mentre fissava il vuoto davanti a sè.
-Va…a farti fottere-
Un secondo dopo, inaspettato arrivò un colpo violento, al fianco che lo fece stramazzare al suolo, facendogli battere la testa sull’impiantito di legno, tramortendolo.
-Ti va di giocare, eh?!-
Un rivolo di sangue gli colò dal naso.
La sua  prospettiva adesso, era lo stivale del boia che gli stava per arrivare addosso.
Poi un calcio, dritto nello stomaco, arrivò preciso, feroce e implacabile.
-Per questa tua piccola intemperanza dovrai pagare un po’ di più-
La sua voce suonava fastidiosamente stridula e affettata.
-Si porta rispetto agli istitutori, non te l’ha mai detto nessuno, piccolo degenerato che non sei altro?!-
Lo odiava a morte, odiava quella sua espressione indomita e sprezzante, quel suo sguardo altero che non si chinava mai, di fronte a niente, quella sua indifferenza davanti a tutto quello che gli capitava.
Persino adesso, mentre veniva massacrato senza pietà, poteva quasi vedergli quel sorrisetto beffardo e sprezzante che detestava con ogni fibra del suo essere, e che lo faceva diventare ancora più sadico e spietato.
James era immobile, a terra, riverso su un fianco. La schiena coperta di piaghe sanguinolente, eppure aveva cominciato a ghignare, soddisfatto.
Forse stava per morire, forse no. Eppure sentiva di averlo preso in giro, di nuovo.
Come aveva sempre fatto con tutti.
Anche con se stesso.
Lui la vita la prendeva in giro.
Perché era stata lei stessa a irriderlo, fin da quando era venuto al mondo.
La sua nascita era stata una piccola morte. Venire al mondo era stato disgustoso come imparare a viverci.
E ora non trovava altro modo che rifarsi non aspettandosi niente, da nessuno, anzi, attaccando per primo, con le unghie, a morsi, strappando con la forza ciò che gli apparteneva di diritto.
Già, la forza.
Non era mai abbastanza.
Se fosse stato un poco più forte, o un po’ più intelligente probabilmente non si sarebbe ritrovato per terra, pestato a sangue da quell’uomo che avrebbe volentieri ucciso con le proprie mani, in stato di semincoscienza, alla sua completa mercè.
In un orfanotrofio.
Ma un giorno sarebbe diventato forte, fortissimo, inattaccabile.
Nessuno avrebbe più potuto fargli del male.
Ma ora, ora il dolore era insopportabile.
Detestava l’idea di poter morire in quella sudicia stanza, senza più rivedere la luce, il cielo e le stelle.
Senza più rivedere quegli occhi grigi.
La sua piccola.
-Adesso, implora- continuò il suo aguzzino in tono mellifluo, lentamente, passandosi la frusta tra le dita, come un orrendo serpente a sonagli.
-Implora, cazzo!- ripeté spazientendosi di colpo. Poi gli schiacciò la mano con un piede, premendo con sadico piacere, mentre il ragazzo chiudeva gli occhi per non gridare.
Stava perdendo la pazienza con quell’essere senza importanza, e soprattutto gli stava facendo perdere tempo.
-Se non ti levi entro un secondo quel sorrisetto insulso giuro che io…-
-Ora basta, Jonas!- una voce tonante interruppe quelle sevizie, spalancando la porta della stanza.
Il ragazzo aprì un occhio e dalla sua patetica posizione di sottomissione riconobbe immediatamente il direttore dell’ala maschile dell’istituto, il signor Kennington.
-Vuoi forse ucciderlo?!- il suo tono era più infastidito che contrariato, e a denti stretti, James maledisse anche lui. Perché era stato quell’uomo a dare ordine a quell’ottuso di Jonas di punirlo.
Lo avevano scoperto a fare a botte con uno degli orfani, e James che, sebbene avesse quasi quattordici anni, aveva già la forza di un ragazzo più grande, aveva avuto la meglio facendo sfracellare il malcapitato addosso ad una finestra, il quale aveva rotto tutti i vetri.
L’altro era stato medicato e mandato nello stanzone dove alloggiava senza cena.
James Railey invece, che era la bestia nera di tutto l’istituto San Francis, era stato punito dalla frusta di Jonas.
Non era la prima volta che lo picchiavano, anzi ormai era diventata quasi una routine, eppure nessuna di quelle arcaiche punizioni servivano a dargli una lezione e a fargli mettere definitivamente la testa a posto.
Anzi.
Più lo ferivano, e più lui si incattiviva, diventando scontroso, perfido, sprezzante, odioso, per niente rispettoso di chi cercava di metterlo in riga a suon di botte.
Gli altri orfani avevano quasi una sorta di timore reverenziale nei suoi confronti, e bastava un semplice sguardo di quei suoi occhi severi per far abbassare la testa a chi lo fissava troppo a lungo. Lui invece chinava il capo solamente se lo prendevano a bastonate. E anche lì, neanche un fiato, né una lacrima, né una supplica.
A quattordici anni era già un capo incontrastato.
Solitario e arrogante.
Meditava da tempo di scappare, e più di una volta ci aveva provato, ma lo avevano sempre riacciuffato, e allora erano state di nuovo botte a non finire.
Per cui si era quasi rassegnato ad aspettare di compiere i sedici anni per andarsene definitivamente. Quasi… Nessuno era mai riuscito a mettergli le catene ai piedi.
Si sentiva nato per volare.
Spiccare il volo e andarsene da quel posto orripilante.
Se solo non ci fosse stata lei.

-Signor Kennington stavo dando una sonora lezione a questo…- tentò di giustificarsi Jonas, ma quello lo interruppe con un secco gesto della mano, fissando a lungo il ragazzo a terra, sanguinante.
-Lo vedo da me, ma le ho anche detto che i ragazzi bisogna punirli non ucciderli, è chiaro?!-
-Signore…-
-Jonas, non è la prima volta che ti avverto. La prossima volta sarò costretto a prendere provvedimenti- e il suo tono non ammetteva repliche.
-Sissignore-
-Sissignore- James sogghignò con voce impercettibile gustandosi fino in fondo la redarguita di quell’idiota, ma evidentemente Kennington lo aveva sentito visto che si girò nuovamente dalla sua parte, guardandolo accigliato, e senza troppe cerimonie lo prese per un braccio, rimettendolo brutalmente in piedi, facendolo stavolta urlare per il dolore a causa delle piaghe sulla schiena che tiravano la pelle in maniera atroce.
Gli diede uno schiaffo in piena faccia, fissandolo dritto negli occhi, a pochi centimetri da lui.
Se Jonas aveva tutto il suo disprezzo, per Kennington provava un odio vero e proprio.
Perché gli assomigliava terribilmente.
E nella parte più recondita del suo cervello un giorno avrebbe voluto essere come lui.
Forte e spietato.
Odiato e rispettato.
Temuto e considerato da tutti.
-Ti diverti eh? Ti diverti da matti a prenderci tutti per il culo, non è vero?- mormorò tra i denti, quasi sibilando.
James si passò un dito sul labbro sentendo qualcosa di caldo bagnargli i denti, e quando si fissò la punta delle dita le vide macchiate di sangue. Ma non se ne curò e tornò a fissare il direttore con aria di irritante strafottenza.
-Io però mi sono rotto di te e dei tuoi giochetti, quindi…O la smetti di darci problemi continuamente… oppure la prossima volta…sarò io a farti male, ti è chiaro stronzetto?!- gli teneva il braccio con forza, stringendoglielo fermamente, impedendogli qualsiasi movimento.
James lo fissò di rimando con aria sfrontata, di sfida, per nulla intimorito, e un attimo dopo, per tutta risposta, un potente sputo colpì in piena faccia il direttore.
Kennington lo fissò sgomento, l'espressione stupita. Non riusciva mai ad abituarsi a quel suo atteggiamento rivoltante. Era come se lo sfidasse continuamente, incurante della punizione o dei suoi metodi brutali. A volte si chiedeva se per caso non volesse essere ammazzato di botte da lui stesso. Forse la considerava una prova da duro, forse voleva fargli capire che nessuno lo avrebbe legato, forse che  i suoi metodi gli erano completamente indifferenti, fatto sta che la sua incoscienza non aveva limiti.
E né, a questo punto, il suo buonsenso.
Rimasero in silenzio così, per quello che parve un'eternità dopodiché il direttore si pulì lentamente il volto, disgustato, con un fazzoletto, in silenzio.
Poi, dopo aver lanciato un'altra occhiata inferocita al ragazzo, si rivolse nuovamente a Jonas, il quale capì al volo che cosa aveva in mente Kennington.
Ne era cosciente anche James.
-Jonas, altre dieci- disse seccamente, con voce incolore, tornando a fissare il ragazzo, senza staccargli gli occhi di dosso.

Continua a provocarmi, ma ti giuro che prima o poi me la pagherai.

Quello, con un ghigno di trionfo, si sfregò deliziato la frusta insanguinata tra le mani all’idea di fargliela pagare ancora per la sua sfrontatezza.
-Sissignore-
                                           
                                                                                                                                 ***


Si era coricato su un fianco perché di dormire supino non se ne parlava.
Nel buio aveva gli occhi aperti, fissi nel vuoto. Respirava a fatica, e ogni volta che il petto, gli si abbassava e poi si risollevava era una tortura atroce.
Non pensava a niente se non al miglior modo per vendicarsi un giorno di chi lo aveva ridotto a quel modo.
La schiena era in fiamme, e il solo contatto con la stoffa leggera del lenzuolo gli doleva da morire.
Si sentiva la faccia gonfia, pesta e non riusciva quasi ad aprire un occhio talmente era stata violenta la botta in testa che aveva preso.
Immobile respirava piano, senza riuscire a dormire, quando gli parve di sentire un piccolo rumore provenire dalla finestra accanto al suo letto.
Piccoli tocchi come se qualcuno stesse tirando qualcosa contro il vetro.
Si voltò molto lentamente, e con una smorfia di dolore riuscì a spostarsi sull’altro fianco, quando gli parve di intravedere fuori, sulla piccola balaustra una sagoma esile, appena rischiarata dal tenue bagliore della luna.
Allora guardò meglio fuori e si accorse che quella figuretta era lei!
Si alzò lentamente, cercando di fare meno rumore possibile per non svegliare gli altri compagni, e andò ad aprire il vetro.
-Si può sapere che ci fai qui?- le domandò bruscamente, mentre lei stava per lanciare un altro sassolino contro la finestra.
L’ultima cosa che voleva era che lo vedesse in quelle condizioni deplorevoli, ma del resto lei era sempre stata imprevedibile.
Era a torso nudo, perché la sola idea di indossare anche la più leggera stoffa sulla pelle martoriata lo faceva impazzire, e addosso portava i pantaloni del pigiama.
-Volevo vedere come stavi-
-Sto bene, ora vattene- replicò lui a bassa voce, girandosi indietro per assicurarsi che nessuno li vedesse.
-Jonas ti ha picchiato di nuovo?-gli domandò con aria costernata e profondamente preoccupata.
-Sì, ma non ha importanza- le rispose frettolosamente -Ora tornatene nel tuo alloggio se non vuoi che puniscano anche te-
-Stai sanguinando- gli fece lei, ignorando le sue parole, e guardando aldilà di James la chiazza scura sul lenzuolo.
-Smettila di preoccuparti per me ti ho già detto che sto bene-
-Non ti credo. Ti tocchi sempre l’orecchio quando dici una bugia- gli sorrise lei con semplicità.
Lui la guardò per la prima volta lievemente stupito, abbozzando quasi qualcosa che assomigliava ad un sorriso, ma poi ritornò a quell’espressione tesa e incattivita.
-Non mi va di passare dei guai anche per causa tua, per oggi ne ho abbastanza. Lee vattene a dormire, è tardi- sospirò fissando con aria quasi paterna quella ragazzina di nove anni, magra come un chiodo, dai profondi occhi grigi.
Indossava una leggera camicia da notte ed era venuta a piedi scalzi dal suo dormitorio, fino alla stanza dove alloggiava James, passando di soppiatto per una balaustra che costeggiava i finestroni dell’istituto.
Lo faceva spessissimo, poiché durante il giorno era raro che maschi e femmine si riunissero, ad eccezione dei pasti, quando si ritrovavano tutti a mensa.
James era il suo migliore amico, l'unico che le volesse bene lì dentro.
Era stata la prima persona con cui aveva scambiato una parola e che gli aveva detto che se mai avesse avuto dei problemi con qualche ragazzino, avrebbe dovuto chiamarlo immediatamente. Con lei si era da subito comportato in maniera paterna, gentile e stranamente rispettosa a differenza di tutti gli altri con i quali era sempre apparso scorbutico, altero, distaccato e strafottente.
James era  stato fin da principio il suo papà, sebbene avesse appena cinque anni più di lei, eppure nella sua irrequietezza era sempre stato il più pacato tra i due e il più serio. Lui le aveva dato fin da subito l'impressione di un ragazzino cresciuto troppo in fretta, diventato già uomo fin da bambino, e proprio per questo motivo Lee aveva trovato in lui una figura di riferimento e di tacito rispetto.
Gli voleva un bene semplice, sincero, infantile, e mentre tutti lo vedevano come un pericoloso attaccabrighe, lei lo considerava come il suo eroe.
Semplicemente perchè si era mostrato buono nei suoi confronti.
Era sempre stato un po' brusco e taciturno, questo sì, perché la parlantina e la loquacità non erano mai stati il suo forte, eppure Lee credeva ciecamente in lui e sapeva con certezza che semmai ne avesse avuto bisogno, lui ci sarebbe sempre stato. Solo ed esclusivamente per lei.
-Jamie?- Lee lo fissava dritto in quegli occhi belli e intensi: poteva vedere l'ovale pallido del viso sofferente di lui, appena rischiarato dalla luna.
-Dimmi-
-Tieni- disse a voce bassissima, porgendogli una piccola scatola.
Lui la prese tra le mani, rigirandosela con espressione circospetta.
-Che...che cos'è?- le chiese bruscamente.
-L'ho rubata alla signora Novacek. E' una pomata per le bruciature. Lei ce la mette sempre quando ci sbucciamo le ginocchia. Credo sia al mentolo. Starai meglio se te la spalmi sulla schiena- mormorò timidamente. Lee pregò che ci fosse abbastanza oscurità perché James non vedesse il rossore lieve sulle sue guance.
-Tu... cosa hai fatto?!- le domandò piano, guardandola sbalordito. -Sei impazzita?-
-Tsk invece di ringraziarmi. Scorbutico e antipatico come sempre- sbuffò lei incrociando le braccia sul petto -Guarda che non è stato affatto semplice!-
-Lo credo bene. Ma insomma, si può sapere, come...come hai fatto a sapere che...-
E poi un conto era una piccola sbucciatura sul ginocchio, un conto erano delle piaghe purulente dovute ad una frusta. James continuava a sentirsi la schiena in preda ad un bruciore atroce.
-Quante storie che fai! Insomma ti serve o no?- chiese lei in tono pratico, sbrigativo. Lo aveva visto, quello stesso pomeriggio, quando Jonas lo aveva preso per un braccio, subito dopo averlo scoperto fare a botte con l'altro ragazzino, e aveva immediatamente immaginato le conseguenze. Del resto non era la prima volta che Jamie assaggiava la frusta di Jonas, ed ogni volta che lo vedeva, il giorno dopo la punizione, aveva un aspetto spaventoso, l'andatura gobba e cascante per giorni, la faccia stravolta, ancora più scorbutico del solito.
E incredibilmente spaventato.
-Mi servirebbe un seghetto e una corda- sogghignò lui, riferendosi ad una fuga dall'istituto. Ma sapeva che era un'impresa praticamente impossibile da realizzare.
E magari un coltello per uccidere Jonas
-Beh al momento ho a disposizione questo, quindi accontentati. Comunque non ringraziarmi troppo mi raccomando- borbottò offesa. -E poi non dovrebbe servirti, visto che stai bene, no?- aggiunse, gli occhi ridotti a due fessure.
Lui parve di nuovo spiazzato da quella sua affermazione, ma poi riassunse di nuovo l'espressione accigliata di sempre -Sì infatti non ne ho bisogno. Ormai la mia pellaccia si è abituata alle scudisciate di quello str... di quell'idiota di Jonas- le rivolse un sorriso sprezzante -Però la tengo per precauzione. Non si sa mai-
Lee sorrise tra sé e sé.
Come lo conosceva bene.
A giudicare dal colorito terreo della sua faccia stava soffrendo in maniera indicibile, e il fatto che perdesse sangue dalle ferite non faceva che aumentare le sue certezze. Ma lui non gliela avrebbe mai data vinta. Non avrebbe mai confessato di patire per le botte ricevute, né l'avrebbe supplicata di trovargli un modo efficace per alleviare quel dolore.
Stava all'intelligenza di Lee capirlo e aiutarlo senza che lui si sottomettesse a parlare. Conoscendo il suo stramaledettissimo orgoglio sarebbe stato capace di stringersi tra i denti un panno in bocca pur di non gridare o contorcersi per il dolore. E lei era sempre l'unica che sapeva cosa doveva o non doveva fare. Come prenderlo, e come evitare di incorrere nelle sue sfuriate e nei suoi mutismi. Era anche grazie a questo suo carattere bizzarro che aveva imparato a crescere più in fretta delle bambine della sua età.
Ma per lei non era mai stato un problema. Tutto ciò che per gli altri era un problema per lei rappresentava la normalità.
Come accadeva anche con James Railey.
Il suo migliore amico.
-Okay, allora meglio così. Vuol dire che ho fatto un viaggio a vuoto- replicò con un'alzata di spalle, indifferente.
-Me ne vado. Buonanotte!- disse voltandogli le spalle.
-Okay, 'notte- borbottò di rimando lui, ma poi Lee ci ripensò su e si girò di nuovo a guardarlo -E quelle piaghe fasciale con un lenzuolo pulito. Il contatto con l'aria e lo sporco te le rendono ancora più insopportabili. Ciao!- e detto questo percorse di nuovo il cornicione in senso opposto, rasente il muro, con l'incoscienza di un ragazzina che non si rende conto che un piede in fallo l'avrebbe fatta cadere di sotto spezzandole di netto l'osso del collo.
Finalmente James potè sorridere mentre guardava quella figuretta allontanarsi rapidamente e svanire nel buio.
Era pazza, indiscutibilmente, ormai non c'era altra spiegazione.
Sottrarre un medicinale dall'infermeria, uscire dalla propria camerata, rischiando di farsi scoprire da una delle istitutrici, scavalcare la finestra e passare lungo la balaustra per arrivare fino a lui, tirargli sassolini dalla finestra per svegliarlo, e portargli qualcosa che gli desse un po' di sollievo. Solo per quello era davvero roba da pazzi.
Ma lei era così.
Semplicemente. Eppure non riusciva mai ad abituarsi.
E rigirandosi la scatola tra le mani, con un mezzo sorriso, riuscì a mormorare, tra sé, solamente

Grazie

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Salve a tutti cari lettori! Eccomi a pubblicare una nuova storia, completamente diversa da Aldilà dell'infinito, per ambientazione e trama, ma unita dal filo sottile dei sentimenti e del realismo che cerco di dare costantemente ad ogni mia creazione.
E' un piccolo progetto che mi frulla in testa da quest'estate, da quando visitando l'incantevole Londra, e in particolare la splendida abbazìa di Westminster, mi sono soffermata sulla particolarissima cappella della Royal Air Force (termine a cui si riferisce l'aviazione militare inglese) a cui ho accennato all'inizio del capitolo: dunque per chi se lo chiedesse, sì, la Cappella della Raf esiste veramente, e quel buco nella parete c'è eccome!
Per Ardua ad Astra è il motto latino dei piloti di Sua Maestà e letteralmente significa "Attraverso le asperità, verso le stelle".
Ecco a me sembrava il titolo perfetto.
Non solo per la carriera che intraprenderà il protagonista maschile di questa storia, ma anche e soprattutto in senso metaforico, per le difficoltà della vita a cui James in primis, e la sua piccola Lee hanno dovuto sottostare fin da quando sono venuti al mondo. Ho appena accennato ai miei due nuovi protagonisti volutamente: ho cercato di tratteggiare appena il carattere scontroso e ribelle di James, e quello scanzonato di Lee, perchè ho intenzione di approfondirlo dal prossimo capitolo. Sono ancora due ragazzini, ma alcuni atteggiamenti saranno una costante del loro  carattere.
Il rating è rigorosamente rosso visto che ho in mente diverse scene non adatte a tutti i lettori, e ho diviso questo capitolo in due parti per non rischiare di renderlo troppo lungo e pesante. Gli aggiornamenti avverranno in base alla mia bizzarra e folle ispirazione :)
Spero che come inizio vi abbia incuriosito e mi piacerebbe sentire qualche parere o critica in merito per poter migliorare o aggiustare qualcosa ^_^
Per ora è tutto.
Grazie di cuore a chi leggerà o a chi vorrà lasciare un commentino che è sempre gradito :D

Un abbraccio e alla prossima
Hime









   
 
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