Storie originali > Introspettivo
Ricorda la storia  |      
Autore: Frytty    27/12/2009    0 recensioni
Partecipante al contest indetto da Writers Arena "Memories". Uno scorcio di vita di un soldato in guerra che rammenta il suo "passato" fatto di delusioni e tristezza.
Genere: Triste, Introspettivo, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

< Passami quel pezzo di pane, John. >

< Perché non te lo prendi da solo? >

< E dai! Non essere così scontroso! > Lo rimbrottò l'uomo che portava il nome di Samuel.

< Lo saresti anche tu se avessi appena perso una gamba! > Si interruppe, l'uomo con il nome di John, colto da uno spasimo improvviso. Gli infermieri del campo avevano fatto il possibile per medicare al meglio l'arto che l'uomo aveva poggiato su numerose coperte, fasciato da bende che si tingevano di rosso sempre più spesso, e per non fargli sentire dolore, tuttavia i crampi gli mozzavano il respiro costringendolo a trattenere il fiato. Come se potesse bastare.

Samuel, detto Sam, ridacchiò appena sbucciando una mela.

Evan Kendor voltò appena la testa nella direzione dei due uomini, accucciato nel piccolo spazio che gli offriva la trincea, smettendo per un attimo di pulire e carezzare con le dita sporche di terra e polvere la foto in bianco e nero di una bella ragazza. Sorrise di fronte alla sfacciataggine di Sam.

Evan non poteva non pensare che quelli fossero gli unici momenti di pace in quel territorio minato dalla guerra, che sapeva del sangue degli uomini uccisi brutalmente, della polvere mangiata pur di salvarsi la vita e del pane diviso con i compagni.

Ma i momenti di pace si sa, durano assai poco.

< Evan, tu perché non mangi? Perso l'appetito? >

< Dopo aver visto il cervello di quell'uomo sparso dappertutto, lo credo bene! > Rise appena il soldato Fenz.

Amavano prenderlo in giro i suoi compagni. Era il più giovane di tutti e della guerra non ne voleva sapere se non fosse stato per una bomba che aveva distrutto ciò che di più caro aveva, la sua famiglia. Ma non era vendetta quella che lo spingeva ad impugnare le armi, no, quanto più una voglia di giustizia, un sogno che lo spingeva a credere che prima o poi tutto quello sarebbe finito e allora, qualcuno avrebbe pagato.

La risata rauca di Sam si accompagnò a quella dell'amico. La scena lo ripugnava.

< Ancora con quella foto in mano! Sembra tu non sappia fare altro! > Lo rimbrottò John. Lui era forse l'unico che gli voleva bene anche se a volte le sue parole sapevano di rimprovero. 

< Non riesco a separarmene. > Rispose Evan riponendo la foto sotto la giubba pesante, all'altezza del cuore. La portava legata al collo con una stringa che aveva recuperato da uno scarpone abbandonato in trincea.

< Chi è? La tua bella? > Si informò Sam che nel frattempo aveva smesso di masticare la mela.

Evan aveva annuito. Parlare di Kate non gli piaceva perché gli sembrava come invadere uno spazio troppo esteso senza gli armamenti giusti. Parlare di Kate avrebbe significato lottare con se stesso.

< Non hai fatto in tempo a sposarla, eh? >

< In realtà non avrei mai creduto di finire qui. > Rispose vago.

< Beh, almeno tu hai un motivo per continuare a lottare. Ti aspetterà? > Non c'era derisione nella voce di Sam, non quella volta.

< Credo che lo farà. > Evan ne era convinto.

 

< Parti davvero allora? > Kate aveva ricominciato a piangere.

< Io... io torno presto, lo sai, no? Lo sai che tornerò. > Odiava vedere come le lacrime le scendessero copiose sulle guance, donando una tonalità del tutto differente al suo volto, come se le gocce salate si portassero via una parte di pelle, la più superficiale, quella che la rendeva liscia al tatto, soffice e che le faceva assumere una tonalità rosata. Kate era pallida, incredula e disperata.

< Come faccio a sapere che tornerai? Come faccio a sapere se starai bene? > Aveva quasi urlato rifugiandosi tra le sue braccia. Evan l'aveva stretta a sé e le aveva accarezzato la schiena a mo' di conforto.

< Tornerò. > L'aveva scostata delicatamente da sé e le aveva baciato le labbra che sapevano di sale.

Kate non l'aveva fermato perché sapeva sarebbe stato inutile, ma non aveva potuto trattenersi dall'allungare una mano verso di lui, quasi sperasse che l'avrebbe afferrata. Ma Evan non si era voltato indietro.

 

Quel ricordo lo stordì e il senso di malinconia che solitamente prendeva possesso di lui nelle ore notturne, si fece sentire sotto quel sole pallido di settembre oscurato di tanto in tanto da nuvoloni neri carichi di pioggia.

< Attaccheranno ancora? > Domandò John.

< Chi può dirlo. I tedeschi non cederanno ora. > Sam alzò le spalle in un suo gesto ricorrente di noncuranza.

Rimasero in silenzio mentre la pioggia lentamente cominciava a cadere su di loro e a rendere scivolose le pareti della trincea.

Evan, l'elmo che lo proteggeva quanto bastava dalla pioggia, chiuse gli occhi.

 

< E' inutile che scappi, sono più veloce di te! > Il sole estivo li baciava entrambi mentre si rincorrevano nel vasto giardino di residenza Mandrakis.

Kate si era voltata verso di lui, affannata dalla corsa, e gli aveva sorriso furba.

< E allora perché non mi prendi? >

Zigzagava cercando di distrarlo, ma Evan aveva i riflessi pronti e l'afferrò per un braccio trascinandola a terra su di sé.

< Presa! > Sospirò affannato circondandole la vita con le braccia e impedendole di muoversi.

Kate si era arresa e aveva appoggiato la testa sul petto del suo fidanzato cercando di riprendere fiato, cullata dal ritmo divenuto in poco tempo regolare, del cuore di Evan.

< Ti mancano i tuoi genitori a volte? > Gli aveva chiesto alzando appena la testa, poggiandola l'attimo dopo sul suo braccio che sostava sul petto del ragazzo.

< A volte si. > Era rimasto in silenzio come se volesse dire dell'altro ma non trovasse le parole giuste. < Ci penso spesso in verità e non posso fare a meno di ripetermi che forse è stata tutta colpa mia. > Continuò dopo pochi minuti.

< Come può essere stata colpa tua? Non l'hai lanciata tu la bomba! > Protestò gentilmente Kate sorridendogli, cercando di rassicurarlo.

< Lo so, è solo che... mi dico che se fossi stato più accorto e avessi portato con me tutti loro per quella gita nel bosco, non sarebbe accaduto nulla. > Sospirò grave.

< Loro ti volevano bene e sapevano che anche tu glie ne volevi. E' questo quello che conta. Il loro ricordo rimarrà per sempre vivo nella tua memoria. >

< E' proprio questo il problema! > Evan alzò di scatto la testa, rendendosi conto di non potersi poi muovere molto data l'incombenza di Kate. Abbandonò nuovamente la testa sull'erba fresca continuando con la mano a strappare fili d'erba con insistenza e violenza. < Di loro rimarrà solo quello, il ricordo. Un ricordo in fondo non è niente se paragonata a quella che poteva essere la realtà vissuta con loro fino all'ultimo! > Continuò.

Kate non sapeva cosa rispondere perciò tacque, osservando il viso del suo fidanzato.

< Non possiamo riportare in vita i morti. > Mormorò poco dopo. 

< Lo so, ma vorrei potessimo farlo. Davvero. >

 

Anche Kate era tra i suoi ricordi in quel momento perché non la vedeva da così tanto tempo che aveva persino smesso di contarne i giorni. Aveva solo la vaga sensazione del suo sorriso, dei suoi occhi azzurri incredibilmente vivi, dei suoi capelli profumati che ricadevano in boccoli perfetti sulla schiena, del sapore delle sue labbra sulle sue.

Non amava i ricordi. I ricordi, secondo lui, non erano altro che il rivangare del tempo passato, la sua vendetta nel mostrarci quello che avevamo fatto, nel farci notare come  lo avevamo sprecato, come non lo avevamo impiegato sufficientemente bene, come avremmo potuto utilizzarlo diversamente. Si, era la sua vendetta, la vendetta di qualcosa che non sarebbe tornato.

Kate le aveva promesso di aspettarlo, ma quella guerra sarebbe potuta durare secoli e allora magari lei si sarebbe stufata, avrebbe capito che sarebbe stato uno sforzo inutile rimanere seduta in casa a piangere per qualcuno che non sarebbe tornato da lei se non come un corpo senza vita e allora avrebbe cominciato a cercare qualcun altro, a partecipare agli incontri di società dove aveva la possibilità di conoscere qualche ufficiale che avrebbe potuto garantirle una vita serena e semplice, semplice come lui non sarebbe mai riuscito ad offrirgliela.

La rabbia si fece strada sul suo volto mentre la mano destra si chiudeva a pugno, tremando incontrollabilmente. 

< Ehi, Evan, tutto bene? > John aveva sollevato appena la testa avendo udito quello che a lui sembrava un gemito provenire dalla parte dell'amico.

< Si, tutto bene. Sono solo stanco. >

< Dovresti provare a dormire. Ti farebbe bene. >

< Hai ragione, forse dovrei dormire un po'. > E richiuse gli occhi.

Erano quattro mesi che non riusciva a prendere sonno. Sentiva i suoi compagni nelle trincee lamentarsi, gemere dal dolore, sospirare, voltarsi come bestie in pena nei loro giacigli improvvisati e alla fine, anche lui si era accontentato di cadere in uno stato d'incoscienza vigile dove riusciva a riposare il corpo ma non la mente, che rimaneva attiva, carpendo un qualsivoglia movimento. A lui del resto, andava bene così perché le poche volte che era riuscito ad isolare i suoni del campo e a dormire, il suo sonno era stato popolato da incubi tremendi, da ricordi feroci e violenti di morte.

John aveva ragione e lui stesso si accorse di non aver mentito, perché quando i muscoli si rilassarono si accorse di sprofondare in uno stato di torpore e pace che assomigliava moltissimo al sonno.

 

< Papà! Mamma! Guardate cos'ho preso! > Evan, nonostante avesse vent'anni, gioiva ancora delle sue conquiste come un bambino di quattro.

Era andato a cacciare nel bosco ed era riuscito a catturare ben tre leprotti. Ne avrebbero avuto per un mese.

La sua gioia tuttavia, non venne accolta se non da un gelido e tetro silenzio. Un paio di metri lo separavano dalla vista del piccolo cottage e Evan pensò non l'avessero sentito. Cominciò a correre, desideroso di mostrare il suo bottino di caccia, quando davanti agli occhi non poté non raggiungerlo un senso di terrore e oppressione che temette di svenire sul posto.

I corpi di tre persone giacevano di fronte all'ingresso privi di vita. Evan lasciò cadere i leprotti a terra correndo, fucile in spalla, verso la figura di sua madre. Vi si inginocchiò e la scosse, come se fosse solo addormentata.

< Madre! Madre, vi prego! > Solitamente usava rivolgersi in tono confidenziale ai genitori, ma il suo tutore gli aveva insegnato che l'utilizzo del "voi" era segno di rispetto e si premurava sempre di farne uso all'occorrenza.

Il sangue che gli bagnò le mani lo gettò in uno stato di panico assoluto. Si voltò in direzione del padre che giaceva supino, i pochi capelli scarmigliati e gli occhi sbarrati dal terrore e la loro governante, Sylvia, di pochi anni più grande di Evan, riversa sui gradini d'ingresso. All'appello mancava tuttavia sua sorella, Savanna.

< Savanna! Savanna! > Le lacrime gli offuscavano la vista rendendo tutto sbiadito, non reale, ma lui continuava a camminare. Entrò in casa, continuando a chiamare sua sorella ad alta voce per quanto i singhiozzi glie lo permettessero, ma di lei, nessuna traccia.

L'ultima stanza da controllare era la loro, quella dove lui e Savanna dormivano. La porta era chiusa e abbassandone la maniglia lavorata, Evan tremò appena.

< Savanna, sei qui? > Chiese, ma la stanza era vuota. 

Quando notò la zampa dell'orsacchiotto di pezza preferito da Savanna sbucare da sotto il letto, si inginocchiò e non vi scorse altro che il corpicino della piccola, profondamente addormentata.

Sorrise appena, sospirando. Utilizzò tutta la dolcezza di cui era capace per non svegliarla, pur sottraendola dall'ombra del letto per posarla nella sua culla. Savanna aveva solo quattro anni, ma mormorò il suo nome mentre stringeva l'orsacchiotto al petto, protettiva.

< Shh... sono qui, sono qui. > Le aveva mormorato Evan mentre le lacrime gli bagnavano di nuovo il viso.

 

Si destò di scatto, scuotendo appena il capo per snebbiare la mente dagli ultimi residui di sonno. Aveva sognato di nuovo di lei, di sua sorella, di Savanna. Savanna che non faceva altro che ripetere il suo nome durante il sonno, che non faceva altro che svegliarsi di soprassalto urlando. I genitori di Kate si occupavano di lei e la stessa Kate a volte, la accompagnava in lunghe passeggiate nei giardini, ma non era questo che aveva sperato, che aveva sognato per lei. Savanna aveva sofferto, ma in un modo diverso dal suo. La sua sofferenza era stata rinchiusa dentro di lei, soffocata da quello che doveva essere stato il pensiero assiduo del fratello, della sua vicinanza. Quando tuttavia, quella vicinanza pochi mesi prima, era venuta a mancare, Savanna non aveva fatto altro che riportare in vita i vecchi incubi: la sua camminata veloce, di bimba di quattro anni, verso la madre che giaceva priva di vita nel giardino coperto dalla neve e poi verso la figura del padre, senza che Evan potesse far nulla per fermarla.

Savanna era cresciuta troppo in fretta e nonostante non fossero trascorsi che pochi anni, per la precisione cinque, l'ancora troppo piccola Savanna, si era ritrovata a dover affrontare questioni ben più grandi di lei.

A volte Evan credeva sarebbe stato meglio ucciderla insieme agli altri, solo per non farla soffrire, ma poi si malediceva perché lei era comunque sua sorella e in ogni caso le voleva bene come parte della famiglia.

Ricordare era doloroso come una pallottola nella schiena: non ti uccideva, ma restavi in agonia, sofferente per troppe ore non desiderando altro che la pace eterna.

 

Erano due giorni ormai che non si sentivano bombardamenti in lontananza. Molti sostenevano che la guerra avesse spostato il suo epicentro, ma Evan sapeva che il terremoto sarebbe giunto tempestivo e inaspettato. Era già successo.

Tirò fuori l'ultima lettera di Kate dalla giubba. In guerra era impossibile mantenere un contatto epistolare costante, ma a volte il sergente maggiore gli tendeva quelle lettere con un sorriso dopo averlo mandato a chiamare. E lui accompagnava quel sorriso con un sospiro.

 

Kensigton, 19 Settembre 1944

 

Evan,

non immagini nemmeno quale sollievo sia stato per me trovare sul tavolo ad attendermi la tua lettera, non pensavo ne sarebbero arrivate delle altre. La radio diffonde notizie così sconcertanti sulla guerra che temo per te, ogni giorno di più. Mio padre non fa altro che ripetere che dovresti tornare a casa, far finta di essere finito e fare ritorno qui da me, da noi.

Savanna è instancabile, non fa che chiedere di te ed io cerco di tenerla occupata come posso. Gli incubi sembrano scomparsi da quando il dotttor Petz è passato di qui la settimana scorsa somministrandole degli infusi di valeriana prima di andare a letto, ma lei è sempre così irrequieta nel sonno...

Non fa che mormorare il tuo nome facendomi balzare dal letto grondante di sudore.

Quando questa guerra finirà saremo di nuovo insieme, nel frattempo, non posso che rinnovarti la mia promessa di amore e affetto sincero ed eterno.

 

Kate.

 

Kate nominava spesso Savanna nelle sue lettere ed interrompeva bruscamente il racconto prima della fine. Evan ci aveva fatto l'abitudine ormai, ma le sembrava che Kate volesse tenergli nascosto qualcosa, qualcosa che non prometteva niente di buono, purtroppo. Lo stesso senso di oppressione di cinque anni prima lo assaliva e doveva strizzare gli occhi più volte prima di rendersi conto che non si trovava nel giardino del suo cottage, ma in una trincea a sud della Francia.

Era spaventato.

 

< Qualcuno sa che giorno è oggi? > Nevicava sul campo e nonostante i bombardamenti fossero cessati da settimane, nell'aria la tempesta sembrava pronta a scoppiare. L'ultima, secondo John e definitiva, secondo Sam.

< Dovrebbe essere quasi Natale. > Borbottò Christian, soldato maggiore.

< Già, quasi Natale. >

< E nessuna notizia. > Borbottò John.

Per la prima volta dopo mesi, avevano avuto il permesso di montare delle tende ed ora se ne stavano accampati in sette per ogni tenda, a ciarlare e a riflettere.

L'ingresso del tenente spaventò tutti.

< Comunicazione urgente per il soldato Kendor. > Borbottò rigido per poi uscire l'attimo dopo.

Evan accolse dalle mani di Sam la lettere leggermente bagnata ai bordi, con mani tremanti.

Quando ne strappò il sigillo riconobbe la calligrafia di Kate. Poche righe.

Kensington, 23 Dicembre 1944

 

Savanna è morta di febbre questa mattina. Il medico diceva non ci sarebbe stato comunque nulla da fare. Mi dispiace.

Con la speranza che tu stia bene,

 

Kate.

 

Quelle poche righe fredde, distaccate, erano di Kate certo, ma di una Kate divorata dalla sofferenza ed Evan lo sapeva.

< Tutto bene, Evan? > Sam lo scrutò per qualche istante.

< Mia sorella è morta. > Rispose atono.

< Oh... beh, mi dispiace tanto. > Sam parve intristirsi e gli porse la mano come poi fecero anche gli altri.

Evan rimase impassibile di fronte a quel dolore finto. La verità è che nessuno si preoccupa per te, di te, nemmeno quando sei distrutto, nemmeno quando vorresti dare la tua anima in pasto ai corvi. Nessuno si preoccupa di risparmiare vite perché è per la propria difesa, nessuno si preoccupa di seppellire i morti perché è un carico troppo pesante, nessuno si preoccupa delle ferite altrui perché ne è già pieno egli stesso e nessuno si preoccupa della morte di una persona a te cara, per cui hai dato la vita perché ne hanno già tante a cui pensare.

Nessuno si occupava di Evan in quel momento che piangeva disteso sulla sua brandina improvvisata mentre stringeva al petto quella lettera.

 

< Perché non raccogliamo i fiori, Evan? >

< Quali vuoi? >

< Quelli rossi e quelli gialli. Voglio fare un mazzo gigante per la mamma. >

 

Anche Savanna sarebbe divenuto solo un ricordo per Evan, come gli altri del resto. O forse no.

 

   
 
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: Frytty