Dedico questo lavoro all’omonima protagonista e al suo
cognome. Spero solo che sia degno del precedente.
Piccola, ridicola e insensata, potreste definire questa
storia, ma spero almeno che sia bella. In caso contrario, lamentatevi con la
luna – il sole non lo sa.
Buona lettura.
Federica
Mencra muore a Torino, nella Piccola Casa della Divina Provvidenza (il
Cottolengo) il 14 luglio 1943, a dodici anni, avendo riportato ustioni
gravissime, in particolare sul viso, in seguito al bombardamento del giorno
precedente sull’edificio da parte dei Tedeschi.
***
Mi
portarono via quando mia madre mi vide in terrazza: le labbra posate sul
pavimento lurido e tiepido, cosparso di macchie scure – forse escrementi di
piccione, non ho mai indagato.
“SEI
PAZZA, SEI PAZZA, SEI PAZZAAA!”
Così, me
l’aveva gridato a ripetizione, forse una domanda, forse un’esclamazione.
Un’accozzaglia di suoni che non capivo, no, non capivo.
Sì, mi
disse che ero pazza, ma non me ne accorsi. Baciarla, baciarla: l’avevo baciata,
solo sfiorata, in realtà. Baciata,
baciata. Ricordo solo che i capelli scivolarono via dalla schiena,
scoprirono la nuca al sole. Oh, il sole.
E i suoi? I suoi capelli? Scivolarono in avanti, verso di me. I nostri
ciuffi si mischiavano, si confondevano: castani i miei, cangianti i suoi. Quel
giorno, sul terrazzo, lì, in quel momento erano grigio scuro.
Mia madre
mi rovesciò sulla schiena. Avevo ancora gli occhi spalancati – lo erano
sempre. Mi difendevo il corpo con le braccia a croce, le gambe come
scudo, le dita come maschera. E gli occhi sbarrati, a terra.
Mi ha scoperta.
No, non lo
pensai allora; la consapevolezza giunse molto più tardi.
Ti ho baciata.
Che bella
eri: il collo sottile, lontano… Così lontano che temevo di non poterti
raggiungere, ma bastava chinare il capo. E i capelli scivolarono in avanti, mi
lasciarono la nuca scoperta e il sole –
Oh, il sole – erano le sue mani attorno al mio collo, le sue braccia che mi
stringevano, per possedermi, per sentirsi mia.
No, mi sbaglio.
Identità,
non possesso: io ero lei, lei era me, nessuna apparteneva a nessuna. Eravamo –
ero – io.
Quei bei
capelli… E la fronte ruvida, il pavimento pregno del corpo di lei. Di lei.
Lei.
All’inizio, anche quando il bacio si cristallizzò, divenne parte di me, me ne
appropriai totalmente, anche quando il resto incombeva – o avrebbe dovuto farlo
–, io non mi sciolsi in urla e giustificazioni, non piansi e non ebbi ragione di
ridere.
Non mi togliete la luce,
avrei voluto strillare, ma mi sembrava troppo melodrammatico e imbarazzante.
NO, LA LUCE! E, ancora, non ebbi il
coraggio di pronunciarlo.
Straziante. Delicato e straziante.
Fissai il
sole, pur sapendo che era il contrario, era il contrario che avrei voluto fare;
sentii le sue dita sotto le mie, sul mio viso, sulla schiena, fra i capelli, in
bocca… L’estate mi espose, come un’orfanella, come la Piccola Fiammiferaia.
Rido, ora!
Già, rido, perché quella bimba sventurata mi avrebbe venduto vita eterna, in
cambio di un caldo Natale per lei.
***
Chissà
dove mi portarono?
Non l’ho
mai capito e non voglio pensarci.
Chiusi gli
occhi e la immaginai: mi bastava solo quello, solo quello per vederla e amarla.
I piedi grandi e i piccoli capelli in controluce… Così bella.
Prima di
allora non avevo mai sentito parlare del Cottolengo, né della relativa Casa
della Divina Provvidenza – in realtà c’era un’altra parola prima di
Casa, ma le foglie di una quercia
coprivano la targhetta. C’era vento quel giorno e non ero attenta.
Non lo ero
affatto.
Pensavo
alla prima volta in cui l’avevo notata – la prima che ricordassi. Mi persi nel…
nell’ombra. In lei.
E non ne
uscii più.
***
“Il saggio
è alle dieci, mi raccomando.”
La mamma
quel giorno era arrabbiata, non ricordo perché.
Era il
1934 – Emanuele sarebbe nato nell’estate dello stesso anno – sicuramente aprile,
visto che mia sorella Vittoria si esibiva nelle gare ginniche.
“E a chi
lasciamo Federica?”.
Il
pancione della mamma si muoveva, come se sotto il suo largo abito si nascondesse
un orsacchiotto che dormiva e si rigirava fra le coperte; il mio papà sfoggiava
una bandierina tricolore sul manubrio della sua bicicletta bianca: lo vedevo
dalla finestrella buia della cucina, che si affacciava sul pozzo luce.
“Come sei bella, più bella stasera, Mariuuu’… Splende un sorriso di
stella negli occhi tuoi bluuu…”
Lo sentivo
canticchiare, mentre trafficava con la bicicletta.
“Cristoforo, ascolta! A chi lasciamo la bambina?”, richiamò a gran voce la mamma
dalla cucina.
“Fa’
venire mia madre, chiamala!”, urlò papà, non preoccupandosi degli altri
inquilini; ma, probabilmente, nessuno era ancora a letto: non era né sabato, né
domenica, dunque i ragazzi si erano già infiocchettati per le lezioni, i padri e
i fratelli maggiori fischiettavano in fabbrica, le sorelle e le madri
cucinavano, facevano il bucato, rammendavano le camicie da lavoro e smacchiavano
i calzoni sporchi di vino rosso, retaggio dei festeggiamenti dominicali.
La mamma
strinse il fiocchetto rosso del grembiule di Vittoria e le lisciò le maniche e
il colletto, frettolosamente e con pretese di perfezione. “Ma legati bene quei
capelli, santo cielo!”, sbottò esasperata, mentre mia sorella piagnucolava.
Ero seduta
sul bordo di una sedia di legno, poggiavo la fronte al tavolo e mi fissavo le
manine paffute, tentando di tirar indietro i polpastrelli per far apparire le
unghie più lunghe, come quelle della mamma. Niente da fare, rimanevano sempre
corte e quadrate. Gonfiai le guance e sbuffai.
“Allora,
Federica…”, cominciò la mamma infilandosi le scarpe della Messa, dei matrimoni e
dei colloqui con i maestri. Vittoria mi passò accanto con viso imbronciato e
tirò la mia sedia all’indietro, impennandola e rischiando di farmi sbattere la
testolina bruna sulle mattonelle del pavimento. Scattai istantaneamente verso la
mamma, pronta a pretendere il suo soccorso, ma mi accorsi che teneva la testa
inclinata e sorreggeva in una mano la cornetta nera e lucida del telefono,
accanto alla poltrona color sabbia.
“Buongiorno, mamma. Sì, tutto a posto, tutto a posto… Senta, stamattina io e suo
figlio dobbiamo assistere al saggio di Vittoria, a scuola… Sì, glielo dico. Sì.
Ecco, proprio questo volevo chiederle… Ah, gliela portiamo noi? Va bene, va
bene… È solo che, sa, siamo già un po’ in ritardo e… Ma sì, capisco, lei ha una
certa età e… Ma no, era solo… Sì, d’accordo, a fra poco.”
Riattaccò
con uno sfrigolio di campanelle.
La mamma
ringhiò qualche parola contro nonna Rosina, qualcosa tipo “Quella vecchia serpe
non riesce a fare neanche due passi… non… che schifo di… Dio non la vuole
neanche all’Inferno, quella megera…”
Il giorno
prima, mamma e papà avevano litigato molto, perché era sconveniente – secondo
lui – che una donna nel suo stato
uscisse di casa non solo per la Messa – rischio non solo accettabile, ma
spronato – ma anche per gli eventi meno necessari e più
galanti, proprio come il saggio
ginnico di mia sorella, a cui avrebbero preso parte anche gli altri genitori e i
maestri. Nessuno l’avrebbe guardata di buon occhio, questo era certo.
Ma la
mamma si era intestardita, fin quasi ad urlare e battere i pugni sul tavolo –
l’avrebbe fatto, se solo ne avesse avuto il diritto e l’autorità – ma,
fortunatamente, mio padre aveva capito che il suo non era un bieco tentativo di
ridicolizzare l’intera famiglia Mencra, bensì la volontà di una madre –
garantita e autorizzata – di contemplare la propria opera in via di sviluppo.
“Fede,
vieni qua, forza, ché dobbiamo andare dalla nonna Rosina, su!”
“Paaarlami d’amore, Mariuuu’… Tuuutta la mia vita sei tuuu…”
Papà
continuava a canticchiare con qualcosa in bocca, forse un lembo del fazzoletto
bianco che portava sempre in tasca, mentre la mamma mi riordinava i capelli e
cercava di raddrizzarmi il vestitino dal busto un po’ storto.
“Su,
Vittoria, muoviti! Quanto ci metti ad infilarti un paio di scarpe, eh? Forza!”
Sgambettai
verso la porta d’ingresso e mi catapultai giù per le scale, ticchettando con le
mie scarpette nere; voltai l’angolo e attraversai, sempre di corsa l’uscio che
dava sul pozzo luce, sbattendo la spalla contro la stretta
porticina di legno, ruvida e
scheggiata.
“Mi fai
andare sulla bici? Mi fai andare sulla bici? Mi fai andare sulla biciii?”, urlai
correndo verso papà.
Si voltò e
prese in braccio il mio corpicino di tre anni, stando attento a non sollevarmi
il vestitino bianco sopra le ginocchia. “È già tardi, magari quando torniamo…
Pensa a non far arrabbiare la nonna, eh?”
Mi baciò
sul nasino e si limitò a poggiarmi sul sellino: i piedini non sfioravano nemmeno
i pedali, benché m’impegnassi con tutte le forze ad allungare le gambe.
Cominciai a piagnucolare.
“Su, su!
Shhh…”; papà mi prese di nuovo in braccio e mi cullò un poco, ma io continuai a
lamentarmi. “Voglio biciiiiiiii…”
Strillavo
e stavo per scoppiare copiosamente a piangere, quando mia madre, ormai scesa con
Vittoria, mi stampò un sonoro schiaffo sulla guancia e mi rimproverò. “Ma sta’
zitta, ché disturbi la gente!”
In
risposta, io continuai a piangere in silenzio, tirando su col naso a ritmo
regolare e inciampando nei miei piedi, il braccino sollevato tanto che mi doleva
la spalla, per prendere la mano sudata di papà.
“Ieri
all’OND abbiamo letto un articolo proprio bello sulla
Gerarchia. Ci siamo emozionati tutti,
non immagini il casino! Ad un certo punto, Giannino, il fratello del lattaio, ha
letto un pezzo che… veramente, è stato commovente. Non ricordo bene le parole,
però…”
Mentre ci
affacciavamo sulla strada, papà con la bicicletta al fianco e io, la mamma e
Vittoria a piedi, srotolò un fazzolettino umido su cui aveva annotato qualcosa.
“Ecco,
l’articolo era di Ottavio DInale. Stava parlando del Duce e, sai, alcuni
giocavano a carte in fondo alla stanza, altri ascoltavano e sbevazzavano
qualcosa… Però, senti, quando Peppino…”
“Non era
Giannino, il fratello del lattaio?”, chiese annoiata la mamma. Camminavamo sotto
i balconi di via Ariosto; fiancheggiando i muri ingialliti, mi imbattei in
un’accozzaglia di segni cubitali, impressi frettolosamente sulla pietra
ammuffita. Nero su giallo, come se una gigantesca ape si fosse spappolata sul
muro, spargendo le sue sgargianti macchie, sotto l’ombra dei balconi.
L’ombra.
“Sì,
insomma, Giannino. Ecco, stava a parlare del Duce e diceva…”, papà riprese il
foglio accartocciato e lo sollevò con gesto trionfale, come se stesse recitando
un discorso solenne di fronte a tutta la nazione, come se l’esistenza di ogni
singolo corpicino pendesse dal movimento della sua lingua. “Il Duce è
l’Eroe in una luminosità solare… E poi, aspetta…
il genio ispiratore e creatore! Dio,
ma lo senti? Senti che… che potenza?!”
“Non
bestemmiare”, borbottò la mamma, poggiando una mano sulla nuca di Vittoria, solo
per sistemarle il nastro attorno ai capelli e lisciare il colletto del
grembiule.
“E poi…
Ah, questa è stupenda! L’Animatore che
trascina e conquista! Mari’, non puoi capire che gioia, che impeto!”
Io e
Vittoria ci fissammo, benché il pancione di mamma rendesse difficoltosa questo
semplice sporgersi: stava sorridendo, allora risi anch’io. “Ha detto
peto!”, sussurrai euforica.
Papà ci
ignorò e continuò a declamare la propria commozione.
“Avresti
dovuto esserci: tutti si sono alzati, anche quelli che giocavano a tressette, e
hanno cominciato a urlare Dux mia lux, Dux
mia lux, Dux mia lux! Alcuni sbagliavano anche a dirlo – sai, non è che
tutti gli operai possono sapere il greco – però… Una commozione e una…”
Ferma!
Ecco, qui.
Come una
radio, abbassai il volume della voce di papà, delle rare motociclette che
rintronavano per la strada, dei panni sbattuti e… di tutto. La manopola
invisibile era liscia e roteava così liquidamente. Era piacevole, solo
piacevole.
Attraversammo la strada.
Fu lì.
I capelli
sbattevano contro le sue spalle, il nasino spuntava come il becco di un pulcino.
Il suo viso. Il suo viso fratturato dalla brecciolina, le pietruzze che la
sfiguravano e lei, grigio scuro, lei, dai contorni precisi, lei, le labbra
schiuse, lei, gli occhi grigio scuro, lei, le gambette sformate, lei, le labbra
grigio scuro, lei, la pelle ruvida… grigio scuro.
Sembrava
l’ombra del vento, del cielo, delle nuvole. Sembrava velata. Sembrava
calpestarmi – e mi calpestava! – e io calpestavo lei, ci schiacciavamo, il
dominio, non più un uomo dal balcone che mi dominava, non dovevo amare il dito
di nessuno, che mi si puntava contro. Non dovevo abbassare lo sguardo sotto
occhi di vetro e muco. Non dovevo farmi penetrare dalle sue braccia, dalle sue
parole. Lui mi amava. Il Duce mi amava – amava tutti gli Italiani
(Ringrazia ogni giorno devotamente Dio perché ti ha fatto italiano,
avevo più volte sentito alla radio del catechismo)
ma io non
dovevo amarlo. Non dovevo farmi calpestare dai piedi dell’uomo, da piedi sporchi
del fango da cui era risalito strisciando.
Non so
come feci a capire tutto questo a tre anni – forse non lo capii, fu
un’intuizione amorfa, senza forma né pensiero. Mi folgorò come la fede.
Lo sapevo:
ero libera. Lo sapevo, ma l’avrei capito solo più tardi.
Il Duce mi
amava e anche il mio papà. E la mamma, Vittoria, Emanuele, Beniamino e
Cristoforo, che sarebbero nati verso la fine degli anni Trenta. Mi amavano tutti
e mi calpestavano, perché era così che si amava: papà bacia la mamma, la domina.
La mamma sopra papà, sul letto, quando non sapevano dove farmi dormire e
dovevano far partorire la mamma sette volte per guadagnare l’assegno di
cinquemila lire, l’assegno del Duce.
Lui mi
amava, ero italiana.
Ma io
amavo la strada, i portici, i quadri, le ringhiere, la gente che lei, sempre,
lei calpestava. Lei calpestava il mondo, ma non me.
M’inginocchiai per strada, ricordo. Avevo certamente già visto la mia ombra, non
era la prima volta, però… Era bella: il vestitino grigio scuro che si apriva,
bidimensionale, piatto e sagomato. Uno spicchio di realtà, tutto qui. Era bella,
con le scarpette grigio scuro più grandi della testolina. Forse per quello caddi
sulle pietruzze, sbucciandomi le ginocchia lisce. Forse perché volevo
calpestarla, ma non mi sentivo in colpa: nel mondo del suolo, il
suo mondo, era lei a schiacciarmi.
Ed era
bello.
Sentii a
malapena la mamma che mi rimproverava, sibilava e sussurrava, come se fosse
notte fonda. Gracchiava, a tratti.
Sentii a
malapena le sue mani sotto le ascelle che mi sollevavano, la sua manata sulla
guancia, il suo tentativo di nettarmi le ginocchia con un fazzolettino, gettando
a terra i trucioli di pietra rimasti incollati alla mia pelle.
Non ebbi
consapevolezza, ma
Lei
sapevo che
quel… rapporto, quel riflettersi parziale era bello, senza
Lei
eccezioni.
Perfetto. Dominio di… non so cosa, di me su di me, forse. O forse non basta: non
era me, non era
su di me. Era solo che
Lei
No, era
solo
Lei
Era
Lei
Era solo
lei.
***
Io non so,
non so cosa abbiate capito o cosa speravate di capire. La mia vita parallela,
potreste chiamarla. La mia follia, il mio pazzo egocentrismo. Narcisismo.
Ma è forse
narcisismo, come dite voi, amare il riflesso della luna piuttosto che la luna
stessa? Che cos’è, allora?
Adoravo
insultare il sole, dandogli le spalle, e poggiare la schiena su una parete
bassa, come quella della terrazza – ricordate? Quella da cui mi hanno portata
via – solo per fingere di emergere da un mare piatto, da un solco d’acqua
perfettamente regolare e divino, sollevare le braccia e ammirarla, mentre con
dolcezza levita su di me. Saltare e distaccarmene, per poi caderle addosso.
E, infine,
baciarla.
Se solo
uno spiraglio di luce…
Se solo
riuscissi a vederla ancora.
Ma hanno
capito. Hanno capito tutto.
Quando
sono arrivata al Cottolengo, mi hanno rinchiusa in una cella senza luci, senza
finestre, senza porte. Murata viva.
Me ne sono
accorta dopo molto tempo, chissà quanto? Ho perlustrato i muri, graffiato le
pareti – le unghie non mi crescono più, sento solo una sfoglia di carne lucida,
a tratti dura, che mi duole ogni volta che stendo le dita – ho strisciato sul
pavimento di quella stanzina ben curata e pulita, almeno al mio arrivo. La porta
per cui ero entrata era stata prelevata mentre dormivo, probabilmente. Sì,
sentivo i cardini sotto le dita, ma fra loro solo cemento. Murata viva.
Perché
arrivare a tanto? Me lo sono chiesta spesso e ancora non lo capisco: non ho mai
fatto del male a nessuno, io. Amo un fantasma, amo la mia ombra, sono una
Piccola Italiana che calpesta il mondo, proprio perché sono piccola.
Il sangue
mi scorre fra le cosce e cola dalle dita, denso come colla. Muoio di fame anche
se urlo, muoio di sete anche se piango, muoio all’ombra.
Neanche i
ragni mi calpestano. Chissà da dove sono venuti, sono così piccoli. Forse non
sono neanche ragni, non so.
Mi ritorna
in mente la Piccola Fiammiferaia, chissà perché; se avessi un fiammifero, un
fuocherello, un… una luce, Cristo, una luce! Potrei vederla…
E urlo, ma
a che serve?
Mi fa male
la pancia.
La mamma
mi ha portata qui solo perché papà è in guerra, altrimenti… E poi lei non ha
potuto sfornare sette figli, quella bagascia. E lei doveva lavorare in fabbrica
al suo posto e crescere i miei fratelli e Vittoria doveva farsi ingravidare da
un qualche soldato e io… e io…
E io?
Io sono
pazza, bacio il pavimento cagato della terrazza pensando che sia la mia amata
ombra, certo. Io non voglio essere calpestata da piedi umani, Io non credo che
Molti nemici, molto onore sia la
verità. Il Dux non è la mia
lux.
Lux
Magari è
banale, ma alla fine l’ho chiamata così: Lux. Se non ci fosse luce, lei
esisterebbe, ma io non la distinguerei. Lei è sé stessa e il contrario di sé,
lei è me e lei. Lei non ha, è soltanto.
Lei mi
sorride e piange, ma non m’importa. Lei è il contorno e io la riempio, forse.
Lei è
bella.
***
Continuo a
parlare con il buio, ma ci pensate? Strillo e rido e mi ucciderei, Dio, lo farei
davvero.
Uno
spiraglio di luce.
Ho sete,
amore mio.
Ma non
chiuderò gli occhi, qualcosa, qualcuno, un angelo arriverà e…
No.
È questo
il trucco, eh?
Se voglio
la luce, devo amare il Duce.
L’Eroe.
Il Genio.
L’Animatore.
Lui mi
illumina, vero? Lui mi dà vita, mi mette alla luce. Giusto.
Canto, non
so perché.
Canto e
basta – in realtà è un lamento.
Non chiedo
soccorso, non chiamo la mia ombra, non l’agogno, non mi perdo nel mio amore.
Le unghie
si sfrangiano ancora, però.
Canto e
forse è sufficiente questo.
La mia
voce rimbomba contro la pareti, mi perdo nei miei rantoli.
È più un
lamento – ma forse l’ho già pensato.
Non credo
che il canto...
***
Era notte
fonda quando morì; non ebbe nemmeno il tempo di chiedere alla luna se l’avesse
presa in giro, le palpebre non le si sollevarono, infiammate e brucianti,
incollate dalle scottature alle guance scorticate.
Fu così
che la trovai e, credetemi, non potei far altro che darle fuoco.
Lì, sotto
la luna. Il suo lucido bagliore.
La sua
ombra.
J’ai demandé à la lune
Et le soleil ne le sait pas
Je lui ai montré mes brûlures
Et la lune s’est moquée de moi
Et comme le ciel n’avait pas fière allure
Et que je ne guérissais pas
Je me suis dit quelle infortune
Et la lune s’est moquée de moi
(Indochine, “J’ai demandé à la lune”. Traduzione:
Ho
chiesto alla luna
E il sole non lo sa
Le ho mostrato le mie scottature
E la luna si è presa gioco di me
E poiché il cielo non aveva un portamento fiero
Ed io non guarivo
Mi son detto: “Che sfortuna”
E la luna si è presa gioco di me )