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Autore: francy91    29/12/2009    2 recensioni
Surreale, senza pretese di logicità, ambientata fra gli anni Trenta e Quaranta. Solo una vita, una minuscola vita e sè stessa. In tutto il resto.
Genere: Malinconico, Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Senza nome 1

Dedico questo lavoro all’omonima protagonista e al suo cognome. Spero solo che sia degno del precedente.

Piccola, ridicola e insensata, potreste definire questa storia, ma spero almeno che sia bella. In caso contrario, lamentatevi con la luna – il sole non lo sa.

Buona lettura.

 

 

Federica Mencra muore a Torino, nella Piccola Casa della Divina Provvidenza (il Cottolengo) il 14 luglio 1943, a dodici anni, avendo riportato ustioni gravissime, in particolare sul viso, in seguito al bombardamento del giorno precedente sull’edificio da parte dei Tedeschi.

 

***

Mi portarono via quando mia madre mi vide in terrazza: le labbra posate sul pavimento lurido e tiepido, cosparso di macchie scure – forse escrementi di piccione, non ho mai indagato.

“SEI PAZZA, SEI PAZZA, SEI PAZZAAA!”

Così, me l’aveva gridato a ripetizione, forse una domanda, forse un’esclamazione. Un’accozzaglia di suoni che non capivo, no, non capivo.

Sì, mi disse che ero pazza, ma non me ne accorsi. Baciarla, baciarla: l’avevo baciata, solo sfiorata, in realtà. Baciata, baciata. Ricordo solo che i capelli scivolarono via dalla schiena, scoprirono la nuca al sole. Oh, il sole. E i suoi? I suoi capelli? Scivolarono in avanti, verso di me. I nostri ciuffi si mischiavano, si confondevano: castani i miei, cangianti i suoi. Quel giorno, sul terrazzo, lì, in quel momento erano grigio scuro.

Mia madre mi rovesciò sulla schiena. Avevo ancora gli occhi spalancati – lo erano sempre. Mi difendevo il corpo con le braccia a croce, le gambe come scudo, le dita come maschera. E gli occhi sbarrati, a terra.

Mi ha scoperta.

No, non lo pensai allora; la consapevolezza giunse molto più tardi.

Ti ho baciata.

Che bella eri: il collo sottile, lontano… Così lontano che temevo di non poterti raggiungere, ma bastava chinare il capo. E i capelli scivolarono in avanti, mi lasciarono la nuca scoperta e il sole – Oh, il sole – erano le sue mani attorno al mio collo, le sue braccia che mi stringevano, per possedermi, per sentirsi mia. No, mi sbaglio.

Identità, non possesso: io ero lei, lei era me, nessuna apparteneva a nessuna. Eravamo – ero – io.

Quei bei capelli… E la fronte ruvida, il pavimento pregno del corpo di lei. Di lei. Lei.

All’inizio, anche quando il bacio si cristallizzò, divenne parte di me, me ne appropriai totalmente, anche quando il resto incombeva – o avrebbe dovuto farlo –, io non mi sciolsi in urla e giustificazioni, non piansi e non ebbi ragione di ridere.

Non mi togliete la luce, avrei voluto strillare, ma mi sembrava troppo melodrammatico e imbarazzante. NO, LA LUCE! E, ancora, non ebbi il coraggio di pronunciarlo.

Straziante. Delicato e straziante.

Fissai il sole, pur sapendo che era il contrario, era il contrario che avrei voluto fare; sentii le sue dita sotto le mie, sul mio viso, sulla schiena, fra i capelli, in bocca… L’estate mi espose, come un’orfanella, come la Piccola Fiammiferaia.

Rido, ora! Già, rido, perché quella bimba sventurata mi avrebbe venduto vita eterna, in cambio di un caldo Natale per lei.

 

***

Chissà dove mi portarono?

Non l’ho mai capito e non voglio pensarci.

Chiusi gli occhi e la immaginai: mi bastava solo quello, solo quello per vederla e amarla. I piedi grandi e i piccoli capelli in controluce… Così bella.

Prima di allora non avevo mai sentito parlare del Cottolengo, né della relativa Casa della Divina Provvidenza – in realtà c’era un’altra parola prima di Casa, ma le foglie di una quercia coprivano la targhetta. C’era vento quel giorno e non ero attenta.

Non lo ero affatto.

Pensavo alla prima volta in cui l’avevo notata – la prima che ricordassi. Mi persi nel… nell’ombra. In lei.

E non ne uscii più.

 

***

“Il saggio è alle dieci, mi raccomando.”

La mamma quel giorno era arrabbiata, non ricordo perché.

Era il 1934 – Emanuele sarebbe nato nell’estate dello stesso anno – sicuramente aprile, visto che mia sorella Vittoria si esibiva nelle gare ginniche.

“E a chi lasciamo Federica?”.

Il pancione della mamma si muoveva, come se sotto il suo largo abito si nascondesse un orsacchiotto che dormiva e si rigirava fra le coperte; il mio papà sfoggiava una bandierina tricolore sul manubrio della sua bicicletta bianca: lo vedevo dalla finestrella buia della cucina, che si affacciava sul pozzo luce.

Come sei bella, più bella stasera, Mariuuu’… Splende un sorriso di stella negli occhi tuoi bluuu…

Lo sentivo canticchiare, mentre trafficava con la bicicletta.

“Cristoforo, ascolta! A chi lasciamo la bambina?”, richiamò a gran voce la mamma dalla cucina.

“Fa’ venire mia madre, chiamala!”, urlò papà, non preoccupandosi degli altri inquilini; ma, probabilmente, nessuno era ancora a letto: non era né sabato, né domenica, dunque i ragazzi si erano già infiocchettati per le lezioni, i padri e i fratelli maggiori fischiettavano in fabbrica, le sorelle e le madri cucinavano, facevano il bucato, rammendavano le camicie da lavoro e smacchiavano i calzoni sporchi di vino rosso, retaggio dei festeggiamenti dominicali.

La mamma strinse il fiocchetto rosso del grembiule di Vittoria e le lisciò le maniche e il colletto, frettolosamente e con pretese di perfezione. “Ma legati bene quei capelli, santo cielo!”, sbottò esasperata, mentre mia sorella piagnucolava.

Ero seduta sul bordo di una sedia di legno, poggiavo la fronte al tavolo e mi fissavo le manine paffute, tentando di tirar indietro i polpastrelli per far apparire le unghie più lunghe, come quelle della mamma. Niente da fare, rimanevano sempre corte e quadrate. Gonfiai le guance e sbuffai.

“Allora, Federica…”, cominciò la mamma infilandosi le scarpe della Messa, dei matrimoni e dei colloqui con i maestri. Vittoria mi passò accanto con viso imbronciato e tirò la mia sedia all’indietro, impennandola e rischiando di farmi sbattere la testolina bruna sulle mattonelle del pavimento. Scattai istantaneamente verso la mamma, pronta a pretendere il suo soccorso, ma mi accorsi che teneva la testa inclinata e sorreggeva in una mano la cornetta nera e lucida del telefono, accanto alla poltrona color sabbia.

“Buongiorno, mamma. Sì, tutto a posto, tutto a posto… Senta, stamattina io e suo figlio dobbiamo assistere al saggio di Vittoria, a scuola… Sì, glielo dico. Sì. Ecco, proprio questo volevo chiederle… Ah, gliela portiamo noi? Va bene, va bene… È solo che, sa, siamo già un po’ in ritardo e… Ma sì, capisco, lei ha una certa età e… Ma no, era solo… Sì, d’accordo, a fra poco.”

Riattaccò con uno sfrigolio di campanelle.

La mamma ringhiò qualche parola contro nonna Rosina, qualcosa tipo “Quella vecchia serpe non riesce a fare neanche due passi… non… che schifo di… Dio non la vuole neanche all’Inferno, quella megera…”

Il giorno prima, mamma e papà avevano litigato molto, perché era sconveniente – secondo lui – che una donna nel suo stato uscisse di casa non solo per la Messa – rischio non solo accettabile, ma spronato – ma anche per gli eventi meno necessari e più galanti, proprio come il saggio ginnico di mia sorella, a cui avrebbero preso parte anche gli altri genitori e i maestri. Nessuno l’avrebbe guardata di buon occhio, questo era certo.

Ma la mamma si era intestardita, fin quasi ad urlare e battere i pugni sul tavolo – l’avrebbe fatto, se solo ne avesse avuto il diritto e l’autorità – ma, fortunatamente, mio padre aveva capito che il suo non era un bieco tentativo di ridicolizzare l’intera famiglia Mencra, bensì la volontà di una madre – garantita e autorizzata – di contemplare la propria opera in via di sviluppo.

“Fede, vieni qua, forza, ché dobbiamo andare dalla nonna Rosina, su!”

Paaarlami d’amore, Mariuuu’… Tuuutta la mia vita sei tuuu…

Papà continuava a canticchiare con qualcosa in bocca, forse un lembo del fazzoletto bianco che portava sempre in tasca, mentre la mamma mi riordinava i capelli e cercava di raddrizzarmi il vestitino dal busto un po’ storto.

“Su, Vittoria, muoviti! Quanto ci metti ad infilarti un paio di scarpe, eh? Forza!”

Sgambettai verso la porta d’ingresso e mi catapultai giù per le scale, ticchettando con le mie scarpette nere; voltai l’angolo e attraversai, sempre di corsa l’uscio che dava sul pozzo luce, sbattendo la spalla contro la stretta porticina di legno, ruvida e scheggiata.

“Mi fai andare sulla bici? Mi fai andare sulla bici? Mi fai andare sulla biciii?”, urlai correndo verso papà.

Si voltò e prese in braccio il mio corpicino di tre anni, stando attento a non sollevarmi il vestitino bianco sopra le ginocchia. “È già tardi, magari quando torniamo… Pensa a non far arrabbiare la nonna, eh?”

Mi baciò sul nasino e si limitò a poggiarmi sul sellino: i piedini non sfioravano nemmeno i pedali, benché m’impegnassi con tutte le forze ad allungare le gambe. Cominciai a piagnucolare.

“Su, su! Shhh…”; papà mi prese di nuovo in braccio e mi cullò un poco, ma io continuai a lamentarmi. “Voglio biciiiiiiii…”

Strillavo e stavo per scoppiare copiosamente a piangere, quando mia madre, ormai scesa con Vittoria, mi stampò un sonoro schiaffo sulla guancia e mi rimproverò. “Ma sta’ zitta, ché disturbi la gente!”

In risposta, io continuai a piangere in silenzio, tirando su col naso a ritmo regolare e inciampando nei miei piedi, il braccino sollevato tanto che mi doleva la spalla, per prendere la mano sudata di papà.

“Ieri all’OND abbiamo letto un articolo proprio bello sulla Gerarchia. Ci siamo emozionati tutti, non immagini il casino! Ad un certo punto, Giannino, il fratello del lattaio, ha letto un pezzo che… veramente, è stato commovente. Non ricordo bene le parole, però…”

Mentre ci affacciavamo sulla strada, papà con la bicicletta al fianco e io, la mamma e Vittoria a piedi, srotolò un fazzolettino umido su cui aveva annotato qualcosa.

“Ecco, l’articolo era di Ottavio DInale. Stava parlando del Duce e, sai, alcuni giocavano a carte in fondo alla stanza, altri ascoltavano e sbevazzavano qualcosa… Però, senti, quando Peppino…”

“Non era Giannino, il fratello del lattaio?”, chiese annoiata la mamma. Camminavamo sotto i balconi di via Ariosto; fiancheggiando i muri ingialliti, mi imbattei in un’accozzaglia di segni cubitali, impressi frettolosamente sulla pietra ammuffita. Nero su giallo, come se una gigantesca ape si fosse spappolata sul muro, spargendo le sue sgargianti macchie, sotto l’ombra dei balconi.

L’ombra.

“Sì, insomma, Giannino. Ecco, stava a parlare del Duce e diceva…”, papà riprese il foglio accartocciato e lo sollevò con gesto trionfale, come se stesse recitando un discorso solenne di fronte a tutta la nazione, come se l’esistenza di ogni singolo corpicino pendesse dal movimento della sua lingua. “Il Duce è l’Eroe in una luminosità solare… E poi, aspetta… il genio ispiratore e creatore! Dio, ma lo senti? Senti che… che potenza?!”

“Non bestemmiare”, borbottò la mamma, poggiando una mano sulla nuca di Vittoria, solo per sistemarle il nastro attorno ai capelli e lisciare il colletto del grembiule.

“E poi… Ah, questa è stupenda! L’Animatore che trascina e conquista! Mari’, non puoi capire che gioia, che impeto!”

Io e Vittoria ci fissammo, benché il pancione di mamma rendesse difficoltosa questo semplice sporgersi: stava sorridendo, allora risi anch’io. “Ha detto peto!”, sussurrai euforica.

Papà ci ignorò e continuò a declamare la propria commozione.

“Avresti dovuto esserci: tutti si sono alzati, anche quelli che giocavano a tressette, e hanno cominciato a urlare Dux mia lux, Dux mia lux, Dux mia lux! Alcuni sbagliavano anche a dirlo – sai, non è che tutti gli operai possono sapere il greco – però… Una commozione e una…”

Ferma!

Ecco, qui.

Come una radio, abbassai il volume della voce di papà, delle rare motociclette che rintronavano per la strada, dei panni sbattuti e… di tutto. La manopola invisibile era liscia e roteava così liquidamente. Era piacevole, solo piacevole.

Attraversammo la strada.

Fu lì.

I capelli sbattevano contro le sue spalle, il nasino spuntava come il becco di un pulcino. Il suo viso. Il suo viso fratturato dalla brecciolina, le pietruzze che la sfiguravano e lei, grigio scuro, lei, dai contorni precisi, lei, le labbra schiuse, lei, gli occhi grigio scuro, lei, le gambette sformate, lei, le labbra grigio scuro, lei, la pelle ruvida… grigio scuro.

Sembrava l’ombra del vento, del cielo, delle nuvole. Sembrava velata. Sembrava calpestarmi – e mi calpestava! – e io calpestavo lei, ci schiacciavamo, il dominio, non più un uomo dal balcone che mi dominava, non dovevo amare il dito di nessuno, che mi si puntava contro. Non dovevo abbassare lo sguardo sotto occhi di vetro e muco. Non dovevo farmi penetrare dalle sue braccia, dalle sue parole. Lui mi amava. Il Duce mi amava – amava tutti gli Italiani

(Ringrazia ogni giorno devotamente Dio perché ti ha fatto italiano, avevo più volte sentito alla radio del catechismo)

ma io non dovevo amarlo. Non dovevo farmi calpestare dai piedi dell’uomo, da piedi sporchi del fango da cui era risalito strisciando.

Non so come feci a capire tutto questo a tre anni – forse non lo capii, fu un’intuizione amorfa, senza forma né pensiero. Mi folgorò come la fede.

Lo sapevo: ero libera. Lo sapevo, ma l’avrei capito solo più tardi.

Il Duce mi amava e anche il mio papà. E la mamma, Vittoria, Emanuele, Beniamino e Cristoforo, che sarebbero nati verso la fine degli anni Trenta. Mi amavano tutti e mi calpestavano, perché era così che si amava: papà bacia la mamma, la domina. La mamma sopra papà, sul letto, quando non sapevano dove farmi dormire e dovevano far partorire la mamma sette volte per guadagnare l’assegno di cinquemila lire, l’assegno del Duce.

Lui mi amava, ero italiana.

Ma io amavo la strada, i portici, i quadri, le ringhiere, la gente che lei, sempre, lei calpestava. Lei calpestava il mondo, ma non me.

M’inginocchiai per strada, ricordo. Avevo certamente già visto la mia ombra, non era la prima volta, però… Era bella: il vestitino grigio scuro che si apriva, bidimensionale, piatto e sagomato. Uno spicchio di realtà, tutto qui. Era bella, con le scarpette grigio scuro più grandi della testolina. Forse per quello caddi sulle pietruzze, sbucciandomi le ginocchia lisce. Forse perché volevo calpestarla, ma non mi sentivo in colpa: nel mondo del suolo, il suo mondo, era lei a schiacciarmi.

Ed era bello.

Sentii a malapena la mamma che mi rimproverava, sibilava e sussurrava, come se fosse notte fonda. Gracchiava, a tratti.

Sentii a malapena le sue mani sotto le ascelle che mi sollevavano, la sua manata sulla guancia, il suo tentativo di nettarmi le ginocchia con un fazzolettino, gettando a terra i trucioli di pietra rimasti incollati alla mia pelle.

Non ebbi consapevolezza, ma

Lei

sapevo che quel… rapporto, quel riflettersi parziale era bello, senza

Lei

eccezioni. Perfetto. Dominio di… non so cosa, di me su di me, forse. O forse non basta: non era me, non era su di me. Era solo che

Lei

No, era solo

Lei

Era

Lei

Era solo lei.

 

***

Io non so, non so cosa abbiate capito o cosa speravate di capire. La mia vita parallela, potreste chiamarla. La mia follia, il mio pazzo egocentrismo. Narcisismo.

Ma è forse narcisismo, come dite voi, amare il riflesso della luna piuttosto che la luna stessa? Che cos’è, allora?

Adoravo insultare il sole, dandogli le spalle, e poggiare la schiena su una parete bassa, come quella della terrazza – ricordate? Quella da cui mi hanno portata via – solo per fingere di emergere da un mare piatto, da un solco d’acqua perfettamente regolare e divino, sollevare le braccia e ammirarla, mentre con dolcezza levita su di me. Saltare e distaccarmene, per poi caderle addosso.

E, infine, baciarla.

Se solo uno spiraglio di luce…

Se solo riuscissi a vederla ancora.

Ma hanno capito. Hanno capito tutto.

Quando sono arrivata al Cottolengo, mi hanno rinchiusa in una cella senza luci, senza finestre, senza porte. Murata viva.

Me ne sono accorta dopo molto tempo, chissà quanto? Ho perlustrato i muri, graffiato le pareti – le unghie non mi crescono più, sento solo una sfoglia di carne lucida, a tratti dura, che mi duole ogni volta che stendo le dita – ho strisciato sul pavimento di quella stanzina ben curata e pulita, almeno al mio arrivo. La porta per cui ero entrata era stata prelevata mentre dormivo, probabilmente. Sì, sentivo i cardini sotto le dita, ma fra loro solo cemento. Murata viva.

Perché arrivare a tanto? Me lo sono chiesta spesso e ancora non lo capisco: non ho mai fatto del male a nessuno, io. Amo un fantasma, amo la mia ombra, sono una Piccola Italiana che calpesta il mondo, proprio perché sono piccola.

Il sangue mi scorre fra le cosce e cola dalle dita, denso come colla. Muoio di fame anche se urlo, muoio di sete anche se piango, muoio all’ombra.

Neanche i ragni mi calpestano. Chissà da dove sono venuti, sono così piccoli. Forse non sono neanche ragni, non so.

Mi ritorna in mente la Piccola Fiammiferaia, chissà perché; se avessi un fiammifero, un fuocherello, un… una luce, Cristo, una luce! Potrei vederla…

E urlo, ma a che serve?

Mi fa male la pancia.

La mamma mi ha portata qui solo perché papà è in guerra, altrimenti… E poi lei non ha potuto sfornare sette figli, quella bagascia. E lei doveva lavorare in fabbrica al suo posto e crescere i miei fratelli e Vittoria doveva farsi ingravidare da un qualche soldato e io… e io…

E io?

Io sono pazza, bacio il pavimento cagato della terrazza pensando che sia la mia amata ombra, certo. Io non voglio essere calpestata da piedi umani, Io non credo che Molti nemici, molto onore sia la verità. Il Dux non è la mia lux.

Lux

Magari è banale, ma alla fine l’ho chiamata così: Lux. Se non ci fosse luce, lei esisterebbe, ma io non la distinguerei. Lei è sé stessa e il contrario di sé, lei è me e lei. Lei non ha, è soltanto.

Lei mi sorride e piange, ma non m’importa. Lei è il contorno e io la riempio, forse.

Lei è bella.

 

***

Continuo a parlare con il buio, ma ci pensate? Strillo e rido e mi ucciderei, Dio, lo farei davvero.

Uno spiraglio di luce.

Ho sete, amore mio.

Ma non chiuderò gli occhi, qualcosa, qualcuno, un angelo arriverà e…

No.

È questo il trucco, eh?

Se voglio la luce, devo amare il Duce.

L’Eroe.

Il Genio.

L’Animatore.

Lui mi illumina, vero? Lui mi dà vita, mi mette alla luce. Giusto.

Canto, non so perché.

Canto e basta – in realtà è un lamento.

Non chiedo soccorso, non chiamo la mia ombra, non l’agogno, non mi perdo nel mio amore.

Le unghie si sfrangiano ancora, però.

Canto e forse è sufficiente questo.

La mia voce rimbomba contro la pareti, mi perdo nei miei rantoli.

È più un lamento – ma forse l’ho già pensato.

Non credo che il canto...

 

***

Era notte fonda quando morì; non ebbe nemmeno il tempo di chiedere alla luna se l’avesse presa in giro, le palpebre non le si sollevarono, infiammate e brucianti, incollate dalle scottature alle guance scorticate.

Fu così che la trovai e, credetemi, non potei far altro che darle fuoco.

Lì, sotto la luna. Il suo lucido bagliore.

La sua ombra.

 

J’ai demandé à la lune
Et le soleil ne le sait pas
Je lui ai montré mes brûlures
Et la lune s’est moquée de moi
Et comme le ciel n’avait pas fière allure
Et que je ne guérissais pas
Je me suis dit quelle infortune
Et la lune s’est moquée de moi

 

(Indochine, “J’ai demandé à la lune”. Traduzione:

 

Ho chiesto alla luna
E il sole non lo sa
Le ho mostrato le mie scottature
E la luna si è presa gioco di me
E poiché il cielo non aveva un portamento fiero
Ed io non guarivo
Mi son detto: “Che sfortuna”
E la luna si è presa gioco di me )

 

   
 
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