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Autore: rolly too    03/01/2010    2 recensioni
«Ehi!» lo chiamai ad alta voce, cercando di sovrastare il rumore della pioggia. La voce mi uscì più roca e vibrante di quanto avessi immaginato, ma non ci feci caso. Lui non rispose. Non si mosse, e non diede nessun segno di avermi sentito. «Ehi!» ripetei più forte, e solo allora si voltò verso di me. Una macchia di sangue scuro gli copriva la parte sinistra della fronte e il liquido scarlatto, unito alla pioggia, gli era colato sul volto e sulla maglietta inzuppata di acqua. Rabbrividii, mentre il cuore iniziava a rimbalzarmi in bocca e mi coglieva un fortissimo senso di nausea. Mi si offuscò per un attimo la vista, mentre il fischio nelle orecchie si faceva insopportabile. Che cosa avevo fatto?
Genere: Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Lunedì 3 Novembre

Quella mattina, per qualche strana ragione, fui io ad andarlo a cercare. Generalmente era lui quello che mi compariva improvvisamente accanto, e io non potevo far altro che accusare il colpo, ammettere di non averlo nemmeno visto arrivare e salutarlo cercando di riprendermi dallo shock che il suo volto ammaccato mi procurava ogni volta.
Sapevo che la quarta B, la sua classe, era all'ultimo piano vicino alle macchinette del caffè, ma non ero sicura che l'avrei trovato lì. Avevo bisogno di fare sei rampe di scale per poter raggiungere quel piano e non ne ero entusiasta, ma desideravo vederlo e cercare di capire come aveva realmente reagito alla sfuriata che gli avevo fatto la settimana prima.
La classe, quando entrai, sembrava deserta. Tutti erano scesi a fare ricreazione, qualcuno era in cortile a fumare. Avevano aperto le finestre e l'aria all'interno era gelida. Stavo già per andarmene quando la sua voce, che arrivava da in fondo alla classe, mi fermò.
«Ciao.» lo sentii dire, un po' più forte delle altre volte in cui aveva parlato con me. Mi avvicinai al fondo della stanza e solo allora riuscii a vederlo. Stava fermo, seduto per terra, con le ginocchia raccolte al petto e le mani abbandonate lungo i fianchi, con i dorsi a contatto con il pavimento freddo e i palmi rivolti verso l'alto. Mi guardava. Gli occhi erano gonfi e arrossati, come se avesse appena finito di piangere, ma non ebbi il coraggio di domandargli se fosse davvero così. Faceva così impressione, rannicchiato lì! Un bambino spaurito, un cucciolo braccato da un leone! Non aveva niente di un normale ragazzo di diciassette anni. Pareva aver terrore del mondo.
Eppure si alzò e mi venne vicino.
«Come mai sei venuta qui?» chiese, sinceramente interessato. Ma aveva ricominciato a parlare a bassa voce, evitava il mio sguardo e le mani, che fino a pochi istanti prima aveva tenuto inermi lungo i fianchi, furono infilate nelle tasche dei jeans scoloriti a velocità strabiliante.
«Ti cercavo.» risposi con sincerità afferrando una sedia e lasciandomici cadere. «Ho pensato che magari potevo passare io a vedere come stavi, una volta tanto. Senza che fossi tu a comparirmi alle spalle all'improvviso, come fai di solito.»
«Oppure per vedere se sono arrabbiato con te per vedere quello che è successo lunedì scorso.» considerò a voce bassa, ma con tono neutrale. A sentir parlare lui sembrava una cosa del tutto normale.
«Anche.» ammisi, senza nemmeno tentare di svicolare. Sapevo che non aveva senso. Per qualche strana ragione, Gioele sembrava capire perfettamente tutto quello che mi passava per la testa.
«Non sono arrabbiato.» m'informò allora. Si sedette sul banco di fronte a quello in cui mi ero sistemata io e afferrò una penna dall'astuccio poggiato davanti a me. Prese a rigirarsela tra le mani, tolse il cappuccio e si segnò il dorso della mano con dei segni curvi privi di significato. Tante spirali, una accanto all'altra. Lo faceva senza pensare, guardando appena la sua pelle bianca che si riempiva di linee nere, poi rimise a posto la penna e tornò a guardarmi. «A dire la verità, non lo sono mai stato.»
«Sei sempre così tranquillo?» gli domandai allora, alzandomi e avvicinandomi a lui, che però rimase fermo dov'era. «Insomma... Non ti arrabbi mai?»
«A volte.» rispose con un piccolo sorriso. Piegò un po' la testa verso sinistra, come per guardare meglio davanti a sé. Aspettai che proseguisse, ma non lo fece.
«Ah, davvero? E quando?» lo incitai, sperando che mi dicesse qualcosa di più.
«Quando mia sorella finisce il dolce, per esempio.» esordì. Aveva una voce dolcissima nel pronunciare quelle parole, e gli occhi gli si illuminarono quando nominò la sorella.
«Quanti anni ha?» Speravo, chiedendogli della sorella, che sembrava essere un argomento piacevole, per lui, di farlo parlare un po'. Volevo capire che tipo fosse ed era troppo difficile farlo se non parlava.
«Sette.» replicò a bassa voce. Fece un respiro profondo, poi,  senza che lo spronassi, proseguì: «Si chiama Nguyet.»
«Nguyet?» ripetei, credendo d'aver capito male. Gioele era un nome che non si sentiva spesso, ma Nguyet era un nome che non si sentiva affatto.
«Viene dal Vietnam.» spiegò allora lui. Sembrava che avesse le corde vocali rivestite di miele, tanto era dolce la sua voce. «L'abbiamo portata in Italia... diciamo un paio d'anni fa. Forse tre, non ricordo. E' come se fosse sempre stata con noi. Be', ecco, quando Nguyet finisce la torta mi arrabbio.»
«Vorrei proprio vedere come!» commentai ridendo. «Non sembri il tipo capace di arrabbiarsi, sai?»
Sorrise anche lui, condiscendente, e mormorò:
«Eppure ne sono in grado.»
«Questo non lo metto in dubbio.» risposi. «Ma... non so, dovresti essere infuriato con me e non lo sei. Capisci quello che voglio dire? Come faccio a credere che tu te la prenda con una bambina di sette anni per un pezzo di dolce?»
«Ma io non ho mai detto che me la prendo con lei.» ribatté, sorpreso. Aveva utilizzato un tono di voce appena più alto, ma nel silenzio surreale della stanza, possibile solo grazie al fatto che anche il corridoio era stato abbandonato, sembrò che avesse urlato. Si morse il labbro inferiore, chinò lo sguardo e sussurrò:
«In realtà non ricordo d'aver mai litigato con qualcuno. Di solito preferisco arrabbiarmi per conto mio ed evitare di farlo notare agli altri.»
«Non sei quello che si potrebbe definire un tipo da combattimento.» conclusi.
Annuì.
«Già.» Seguì qualche minuto di silenzio, ma non sentii il bisogno di romperlo, come invece mi era successo il sabato con Gabriele. Gioele sembrava a suo agio in quell'assenza di suoni, e io, con lui, stavo altrettanto bene. Non diceva né faceva nulla di eclatante, eppure la sua sola presenza mi tranquillizzava.
«Te ne stai sempre qui da solo, a ricreazione?» gli domandai senza riflettere, dando voce a un pensiero che mi era passato momentaneamente per la testa.
Sembrò stupito dalla domanda. Mi guardò qualche istante, senza incrociare il mio sguardo, prima di rispondere.
«Ti interessa davvero?» chiese di rimando. Ci pensai per un po'. Sì, mi interessava. Non erano affari miei, ma volevo sapere per quale motivo fosse sempre e costantemente solo. Era lui che allontanava gli altri, o erano gli altri ad averlo allontanato? O forse nessuna delle due, forse semplicemente non si erano nemmeno mai avvicinati? Oppure un po' tutto quanto?
«M'interessa.» risposi con sincerità. «E' una cosa che non capisco.»
Fece con la mano un piccolo cenno ai banchi vuoti intorno a noi.
«Pensano che io sia strano.» spiegò con tono pacato. I suoi occhi, però, avevano assunto un'espressione che non riuscii a comprendere. «Dicono che è impossibile parlare con me, che non li ascolto, che rispondo solo a metà delle domande, che sono troppo silenzioso.»
«Te l'hanno detto loro?» chiesi, incredula. Non erano frasi di particolare impatto, ma che cosa avrebbe voluto dire sentirsele sputare in faccia da venticinque persone – contai velocemente i banchi per accertarmi del numero – con cui eri costretto a dividere metà della tua giornata?
«No.» rispose però lui, con la solita voce dolce e appena udibile.
«E allora come fai a dire che pensano questo?»
«E' evidente.» Scrollò le spalle, come se la cosa non lo interessasse, e aggiunse in un soffio tanto inudibile che, come spesso ero stata costretta a fare con lui, mi costrinse a seguire il contorno della sue labbra sottili con lo sguardo per cercare di decifrare le parole che aveva pronunciato: «Oltre ai miei genitori e a mia sorella, sei l'unica con cui parlo, in effetti.»
«Che cos'ho di diverso dagli altri?» Da sola non lo capivo. Non ero migliore di nessuno, né più intelligente. Semplicemente, trovavo strano e affascinante quel suo modo di fare che era tutto suo e che non avevo mai trovato in nessun altro. Mi incuriosivano i suoi jeans consunti, le camicie larghe a quadri, così simili a quelle che mio padre indossava per andare a pesca, le scarpe nere prive di personalità. Un abbigliamento anonimo ma lui, senza dubbio, anonimo non era affatto. Non era appariscente, non voleva essere al centro dell'attenzione e non cercava la compagnia di qualcuno che non lo desiderava, ma c'era e si faceva notare, dopotutto, con discrezione. E quasi non ci si accorgeva della sua presenza, eppure la si avvertiva. Era una sensazione strana. Accadeva solo a me?
Gli ci vollero diversi minuti per rispondere alla domanda. Mi sembrava di sentire i suoi pensieri accavallarsi l'uno sull'altro, la mente fremere, in cerca di qualcosa da dire, ma era tranquillo. Con quella sua espressione pacata, gli occhi azzurri che guardavano davanti a sé e probabilmente non vedevano nulla in particolare, perché c'era solo un muro giallo pallido di fronte a noi, rimaneva immobile.
Poi, all'improvviso, fece schioccare la lingua, dischiuse le labbra sottili e sussurrò:
«Sai aspettare le mie risposte. Ti accontenti di quello che ti dico. Non insisti più di tanto...»
«Se lo dici tu...»
«Non è vero? Ho sbagliato?» chiese lui, ma non erano vere domande. Non si aspettava una risposta e dal suo tono era fin troppo evidente. Mi aveva messa a parte dei suoi pensieri, gli andava bene così.
«Come fai a capire sempre quello che penso?» gli chiesi ancora, sperando che mi desse una risposta accettabile e sufficientemente esauriente. Ma speravo invano, e lo sapevo.
«In realtà non lo capisco.» mormorò Gioele guardando verso il basso. «Mi pare di intuirlo, provo a dirtelo e a volte faccio giusto.»
«Hai un ottimo intuito, allora.» ribattei, aspra. Non volevo rivolgermi a lui con quel tono e me ne pentii immediatamente, ma l'idea che riuscisse a comprendermi così bene mi irritava, considerato che quella era solo la terza volta che parlavamo insieme. «Voglio dire che è straordinario che tu ci riesca così bene.» aggiunsi addolcendo il tono. Se un attimo prima si era decisamente irrigidito, forse pronto a subire un'altra strigliata, sembrò rilassarsi immensamente. L'impressione che mi diede fu di un pupazzo di neve che si scioglieva sotto il sole. «Non molti sono in grado di farlo.»
«Osservo molto.» rispose lui con semplicità.
Lo capivo. D'altra parte, che altro poteva fare, se nessuno gli rivolgeva la parola? Chissà quanto aveva capito dei suoi compagni di classe, che era abituato a vedere ogni giorno. Chissà quanto, dei loro comportamenti, aveva imparato. Sapeva riconoscere tutti i loro stati d'animo? Sapeva capire, dal modo in cui stavano seduti, se temevano l'interrogazione o se l'aspettavano con tranquillità? Quanto era in grado di capire, con la semplice osservazione? Me lo chiedevo e avevo paura di rispondere.
«Credi che io sia molto strano?» chiese a voce bassissima all'improvviso, con un tono di voce strano, che mi diede l'impressione che lo stesse domandando più che altro a se stesso.
Mi attardai a rispondere. Che cosa dovevo dire?
«Voglio la verità.» sussurrò dopo qualche istante. «Non è per... insomma... non... voglio dire...» appariva davvero in difficoltà. Farfugliava parole incomprensibili, concentrato, parlava come se faticasse a respirare e non mi guardava. Gli posai una mano sulla spalla e lui sussultò. Mi fissò con gli occhi sgranati e attese che dicessi qualcosa.
«Stai tranquillo, Gio'. Non è necessario che termini la frase. Non mi farò idee strane su di te.»
Sorrise, davvero grato.
«Sai» commentò in un filo di voce, mentre sentivo che i ragazzi cominciavano a ripopolare il piano «sei la prima persona al mondo che mi chiama così.»
«Così come?» replicai. «Intendi Gio'
Annuì. Mi voltai verso l'orologio appeso alla parete. Mancava un minuto al suono della campanella, perciò avrei dovuto allontanarmi e tornare in classe. Ma non ne avevo voglia. Volevo che continuasse la frase, che mi dicesse per quale motivo aveva notato quell'insignificante particolare. Io avevo l'abitudine di abbreviare tutti i nomi e l'unica con cui non c'ero riuscita era Ines, ma anche a quello stavo lavorando. Nessuno sembrava averlo notato, fino a quel momento, o meglio, nessuno l'aveva ritenuto importante. Ma lui sì. Perché forse, nonostante tutto, era davvero diverso dagli altri. E sì, era strano.
«Sì.» rispose lui saltando giù dal banco. «Di solito, quei pochi che dicono il mio nome, lo pronunciano per intero.»
Non capivo dove volesse andare a parare, perciò gli domandai:
«Ti dà fastidio se io, invece, al contrario di tutti, lo abbrevio?»
Scrollò le spalle. Due o tre ragazze entrarono chiacchierando nella classe, ci guardarono per un po', meravigliate, poi scoppiarono a ridere.
Gioele rivolse loro una malinconica occhiata di sottecchi, poi mi guardò e sussurrò:
«Dovresti tornare in classe, sai? Arriverai tardi.»
Feci per replicare, ma, esattamente come se fossi scomparsa, si sedette al suo posto – in ultimo banco accanto alla finestra -, estrasse il libro dallo zaino e afferrò una matita mezza masticata dall'astuccio. Era pronto a seguire la lezione e io, che pure ero lì, ero come trasparente.
Me ne andai, un po' rammaricata. Non aveva risposto alla mia domanda.

Lo rividi all'uscita da scuola. Stava fermo davanti al cancello, dall'altra parte della strada, con le mani affondate nelle tasche dei jeans e il giubbotto chiuso solo per metà. La sciarpa di lana gli pendeva dal collo in maniera anomala, aveva un berretto infilato nella tasca della giacca e tra i passanti dei pantaloni e la cintura era riuscito a incastrare un paio di guanti dal colore improbabile. Sembrava un vagabondo che qualcuno aveva misericordiosamente lavato.
Dietro a lui, impeccabile nella sua giacca di pelle, con i capelli pettinati e lo zaino su una spalla, stava Gabriele. Mi stava cercando tra la folla di studenti che si accalcavano all'uscita. Quando mi individuò mi sorrise e mi fece segno di avvicinarmi a lui. Mi feci largo tra gli altri ragazzi e lo raggiunsi. Quando gli fui vicino mi scoccò un bacio sulle labbra, mi cinse le spalle con il braccio e fece per girarsi, ma io lo fermai.
«Aspetta un attimo.» lo pregai allontanandomi da lui.
Mi diressi verso Gioele, che aveva lo sguardo fisso nel vuoto e sembrava non essersi accorto di me, e per attirare la sua attenzione gli sfiorai appena il braccio. Sobbalzò e alzò in fretta lo sguardo. Quando si accorse di me sorrise.
«Non mi dà fastidio.» disse prima ancora che potessi aprire bocca. Aveva avuto la decenza di utilizzare un tono sufficientemente alto perché potessi sentirlo, ma la sua voce era ancora poco più che un sussurro. «Sembra...» Ma non mi disse cosa gli sembrasse. Gabriele si era avvicinato a noi, mi aveva stretto a sé e aveva salutato Gioele con un cenno della mano.
«Ciao.» lo salutò allegramente. Gioele parve ritrarsi. Incurvò le spalle e chinò la testa. Non sembrava avere il coraggio di guardare Gabriele, che proseguì: «Non sapevo che frequentassi questa scuola.»
Gioele non rispose. Si limitò a scrollare le spalle. Al che Gabriele commento, con un sorriso strano stampato in faccia:
«Loquace come sempre.»
E fu allora – ancora non so come sia potuto accadere – che Gioele alzò lo sguardo. I suoi occhi azzurri incontrarono quelli neri di Gabriele e l'occhiata che gli riservò fu la più cattiva che avessi mai visto. Rabbrividii e non seppi spiegarmi il perché di tutta quell'ostilità. Non distolse lo sguardo, come era solito fare: rimase immobile a guardare Gabriele, in una lotta che mi sembrò senza fine, fino a che Gabriele, che pure mi era sembrato assai sicuro di sé, non fece un passo all'indietro e chinò lo sguardo.
Dichiarava la propria sconfitta e alzava bandiera bianca.
E solo allora Gioele tornò a essere quello di sempre. I suo occhi saettarono verso l'asfalto scuro, mi salutò con un frettoloso «Ci vediamo, Carlotta.» e se ne andò camminando in fretta. Sparì all'interno della solita Jaguar nera in poco più di un secondo, disse qualcosa all'uomo al volante, che annuì e mise in moto. Si dileguarono più velocemente del solito, come se fossero stati inseguiti.
Gabriele mi sorrise e non riuscii a non notare qualcosa di crudele nel suo sguardo.

Mentre eravamo in macchina, con la radio a massimo volume che mi martellava nelle orecchie, non riuscii a smettere di pensare nemmeno per un secondo alla stranissima occhiata di Gioele. Mai, in tutta la mia vita, mi ero trovata davanti a un simile sguardo. Non era paura né timore né disprezzo né odio né alcuno dei sentimenti che pensavo di potrebbero provare per una persona: era disgusto. Semplicemente. Gioele, con quell'occhiata terribile che mi avrebbe perseguitata per settimane, stava dicendo a Gabriele: mi fai schifo. E mi turbava il fatto che Gabriele, accanto a me, non sembrasse minimamente toccato dalla faccenda: ripeteva allegro le parole della canzone battendo il ritmo sul volante con una mano. Con l'altra stringeva la mia e di tanto in tanto mi lanciava qualche occhiata trasognata.
«Lo conosci?» gli domandai all'improvviso, incapace di trattenermi. Se era successo qualcosa tra quei due, io dovevo saperlo.
«Gioele?»
Annuii. Si rabbuiò.
«Non dargli troppa confidenza.» mi ammonì. «E' un idiota.» S'interruppe per un po', serio, poi proseguì: «Sembra tanto buono, sai, con quella faccetta da angelo che si ritrova. Occhioni azzurri da cucciolo braccato dai cacciatori e vocina da suora di campagna... E' tutta una farsa.»
Rimasi di sasso. Non mi sarei mai aspettata simili parole da Gabriele. Non mi sarei aspettata simili parole su Gioele. Era assurdo! Come poteva essere tutto finto? Come poteva nascondere così bene il carattere che Gabriele mi stava descrivendo? Eppure ci riusciva, a quanto pareva. Non credevo che Gabriele mi avrebbe mentito, e il comportamento di Gioele era fin troppo strano per non avermi destato qualche sospetto riguardo alla sua sincerità.
«Che vuoi dire?» insistetti, dato che avevo capito che finalmente sarei riuscita a ottenere qualche informazione in più su di lui. Mi incuriosiva troppo e non riuscivo a trattenermi.
Gabriele sospirò.
«Non si fa mai gli affari suoi.» m'informò. «Non parla mai, hai visto? Non saluta nemmeno, maleducato com'è. Sembra uno scemo, ma non lo è. Lui sa tutto di tutti. Ascolta le conversazioni, ho saputo che ha persino seguito della gente e che l'ha spiata. Non devi fidarti di uno così, credimi. Sembra tanto un amico ed è una carogna. Se ti rivolge la parola è perché ha fiutato qualche pettegolezzo che in qualche modo può risultargli comodo, ci scommetto.»
«A vederlo non si direbbe.» obiettai cautamente.
«No, infatti. E' per quello che anch'io mi sono fidato di lui. Era mio amico, sai?» rivelò. La sua voce era quasi sofferente, il volto crucciato. Capivo che parlarne gli costasse una grande fatica, ma non lo interruppi. Lui, dal canto suo, proseguì: «Quando l'ho conosciuto ero al settimo cielo. Avevo proprio bisogno di un amico così. Lui c'era sempre, quando lo chiamavo, questo sì. A qualsiasi ora. Un giorno avevo bisogno di un consiglio per una cosa – è furbo come una volpe, mi serviva uno come lui – e gli ho telefonato alle undici e mezza di sera. Quaranta minuti dopo era a casa mia con la soluzione pronta proprio sulla punta della lingua. E se avevo bisogno di qualsiasi cosa e mi rivolgevo a lui non mi diceva mai di no. E poi, all'improvviso, ancora non so perché, ha smesso di rispondere al telefono. Se mi vedeva in giro non mi salutava nemmeno. L'ho sentito personalmente dire alla sua sorellina, un giorno che ci siamo trovati nello stesso negozio, di starmi lontana. Lontana da me!» Scosse la testa, come se ancora non si capacitasse di quello che era accaduto.
Io ero in uno stato di shock. Quello che mi stava dicendo era incredibile. Mai avrei pensato cose simili di Gioele! Il suo viso era troppo sereno, la sua voce troppo dolce, il suo sguardo troppo timoroso. Come poteva aver fatto ciò che Gabriele mi stava raccontando? Chi, dei due, mentiva?
Ci riflettei in fretta. Gioele, senza dubbio. Che motivo avrebbe avuto, Gabriele, di diffamare in quel modo un ragazzo con cui avevo avuto solo qualche incontro occasionale, tra l'altro piuttosto burrascoso? Mentre l'altro... Avrebbe avuto motivo di prendermi in giro, dopo tutto ciò che gli avevo fatto. E ci sarebbe riuscito in pieno, perché di uno come lui mi veniva istintivo fidarmi.
«E' un bugiardo.» aggiunse all'improvviso Gabriele entrando nella strada che mi avrebbe portata davanti a casa. «Non fidarti di quello che dice.»
Aveva un'espressione strana mentre mi faceva quest'ultima raccomandazione, ma il suo sguardo sembrò all'improvviso sollevato quando, sempre più perplessa, scesi dalla macchina. Lo salutai con un movimento rapido della mano, entrai in casa correndo e a malapena salutai i miei fratelli, che in salotto bisticciavano per il controllo del telecomando. Arrivata in camera mia mi gettai sul telefono, sollevai la cornetta e composi il numero di Francesca.

 

Ed ecco il settimo! Molto imparzialmente confesso che adoro Gioele... Lo preferisco di gran lunga a Gabriele.
Detto questo... ringrazio tantissmo tutte le persone che stanno leggendo e/o commentando la storia, quelle che l'hanno inserita tra le preferite e quelle che l'hanno inserita tra le seguite, grazie infinite!

Baci,

rolly too

   
 
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