Lunedì 3 Novembre
Quella mattina, per qualche strana ragione,
fui io ad andarlo a cercare. Generalmente era lui quello che mi compariva
improvvisamente accanto, e io non potevo far altro che accusare il colpo,
ammettere di non averlo nemmeno visto arrivare e salutarlo cercando di
riprendermi dallo shock che il suo volto ammaccato mi procurava ogni
volta.
Sapevo che la quarta B, la sua classe, era all'ultimo piano vicino
alle macchinette del caffè, ma non ero sicura che l'avrei trovato lì. Avevo
bisogno di fare sei rampe di scale per poter raggiungere quel piano e non ne ero
entusiasta, ma desideravo vederlo e cercare di capire come aveva realmente
reagito alla sfuriata che gli avevo fatto la settimana prima.
La classe,
quando entrai, sembrava deserta. Tutti erano scesi a fare ricreazione, qualcuno
era in cortile a fumare. Avevano aperto le finestre e l'aria all'interno era
gelida. Stavo già per andarmene quando la sua voce, che arrivava da in fondo
alla classe, mi fermò.
«Ciao.» lo sentii dire, un po' più forte delle altre
volte in cui aveva parlato con me. Mi avvicinai al fondo della stanza e solo
allora riuscii a vederlo. Stava fermo, seduto per terra, con le ginocchia
raccolte al petto e le mani abbandonate lungo i fianchi, con i dorsi a contatto
con il pavimento freddo e i palmi rivolti verso l'alto. Mi guardava. Gli occhi
erano gonfi e arrossati, come se avesse appena finito di piangere, ma non ebbi
il coraggio di domandargli se fosse davvero così. Faceva così impressione,
rannicchiato lì! Un bambino spaurito, un cucciolo braccato da un leone! Non
aveva niente di un normale ragazzo di diciassette anni. Pareva aver terrore del
mondo.
Eppure si alzò e mi venne vicino.
«Come mai sei venuta qui?»
chiese, sinceramente interessato. Ma aveva ricominciato a parlare a bassa voce,
evitava il mio sguardo e le mani, che fino a pochi istanti prima aveva tenuto
inermi lungo i fianchi, furono infilate nelle tasche dei jeans scoloriti a
velocità strabiliante.
«Ti cercavo.» risposi con sincerità afferrando una
sedia e lasciandomici cadere. «Ho pensato che magari potevo passare io a vedere
come stavi, una volta tanto. Senza che fossi tu a comparirmi alle spalle
all'improvviso, come fai di solito.»
«Oppure per vedere se sono arrabbiato
con te per vedere quello che è successo lunedì scorso.» considerò a voce bassa,
ma con tono neutrale. A sentir parlare lui sembrava una cosa del tutto
normale.
«Anche.» ammisi, senza nemmeno tentare di svicolare. Sapevo che non
aveva senso. Per qualche strana ragione, Gioele sembrava capire perfettamente
tutto quello che mi passava per la testa.
«Non sono arrabbiato.» m'informò
allora. Si sedette sul banco di fronte a quello in cui mi ero sistemata io e
afferrò una penna dall'astuccio poggiato davanti a me. Prese a rigirarsela tra
le mani, tolse il cappuccio e si segnò il dorso della mano con dei segni curvi
privi di significato. Tante spirali, una accanto all'altra. Lo faceva senza
pensare, guardando appena la sua pelle bianca che si riempiva di linee nere, poi
rimise a posto la penna e tornò a guardarmi. «A dire la verità, non lo sono mai
stato.»
«Sei sempre così tranquillo?» gli domandai allora, alzandomi e
avvicinandomi a lui, che però rimase fermo dov'era. «Insomma... Non ti arrabbi
mai?»
«A volte.» rispose con un piccolo sorriso. Piegò un po' la testa verso
sinistra, come per guardare meglio davanti a sé. Aspettai che proseguisse, ma
non lo fece.
«Ah, davvero? E quando?» lo incitai, sperando che mi dicesse
qualcosa di più.
«Quando mia sorella finisce il dolce, per esempio.» esordì.
Aveva una voce dolcissima nel pronunciare quelle parole, e gli occhi gli si
illuminarono quando nominò la sorella.
«Quanti anni ha?» Speravo,
chiedendogli della sorella, che sembrava essere un argomento piacevole, per lui,
di farlo parlare un po'. Volevo capire che tipo fosse ed era troppo difficile
farlo se non parlava.
«Sette.» replicò a bassa voce. Fece un respiro
profondo, poi, senza che lo spronassi, proseguì: «Si chiama
Nguyet.»
«Nguyet?» ripetei, credendo d'aver capito male. Gioele era un nome
che non si sentiva spesso, ma Nguyet era un nome che non si sentiva
affatto.
«Viene dal Vietnam.» spiegò allora lui. Sembrava che avesse le corde
vocali rivestite di miele, tanto era dolce la sua voce. «L'abbiamo portata in
Italia... diciamo un paio d'anni fa. Forse tre, non ricordo. E' come se fosse
sempre stata con noi. Be', ecco, quando Nguyet finisce la torta mi
arrabbio.»
«Vorrei proprio vedere come!» commentai ridendo. «Non sembri il
tipo capace di arrabbiarsi, sai?»
Sorrise anche lui, condiscendente, e
mormorò:
«Eppure ne sono in grado.»
«Questo non lo metto in dubbio.»
risposi. «Ma... non so, dovresti essere infuriato con me e non lo sei. Capisci
quello che voglio dire? Come faccio a credere che tu te la prenda con una
bambina di sette anni per un pezzo di dolce?»
«Ma io non ho mai detto che me
la prendo con lei.» ribatté, sorpreso. Aveva utilizzato un tono di voce appena
più alto, ma nel silenzio surreale della stanza, possibile solo grazie al fatto
che anche il corridoio era stato abbandonato, sembrò che avesse urlato. Si morse
il labbro inferiore, chinò lo sguardo e sussurrò:
«In realtà non ricordo
d'aver mai litigato con qualcuno. Di solito preferisco arrabbiarmi per conto mio
ed evitare di farlo notare agli altri.»
«Non sei quello che si potrebbe
definire un tipo da combattimento.» conclusi.
Annuì.
«Già.» Seguì qualche
minuto di silenzio, ma non sentii il bisogno di romperlo, come invece mi era
successo il sabato con Gabriele. Gioele sembrava a suo agio in quell'assenza di
suoni, e io, con lui, stavo altrettanto bene. Non diceva né faceva nulla di
eclatante, eppure la sua sola presenza mi tranquillizzava.
«Te ne stai
sempre qui da solo, a ricreazione?» gli domandai senza riflettere, dando voce a
un pensiero che mi era passato momentaneamente per la testa.
Sembrò stupito
dalla domanda. Mi guardò qualche istante, senza incrociare il mio sguardo, prima
di rispondere.
«Ti interessa davvero?» chiese di rimando. Ci pensai per un
po'. Sì, mi interessava. Non erano affari miei, ma volevo sapere per quale
motivo fosse sempre e costantemente solo. Era lui che allontanava gli altri, o
erano gli altri ad averlo allontanato? O forse nessuna delle due, forse
semplicemente non si erano nemmeno mai avvicinati? Oppure un po' tutto
quanto?
«M'interessa.» risposi con sincerità. «E' una cosa che non
capisco.»
Fece con la mano un piccolo cenno ai banchi vuoti intorno a
noi.
«Pensano che io sia strano.» spiegò con tono pacato. I suoi occhi, però,
avevano assunto un'espressione che non riuscii a comprendere. «Dicono che è
impossibile parlare con me, che non li ascolto, che rispondo solo a metà delle
domande, che sono troppo silenzioso.»
«Te l'hanno detto loro?» chiesi,
incredula. Non erano frasi di particolare impatto, ma che cosa avrebbe voluto
dire sentirsele sputare in faccia da venticinque persone – contai velocemente i
banchi per accertarmi del numero – con cui eri costretto a dividere metà della
tua giornata?
«No.» rispose però lui, con la solita voce dolce e appena
udibile.
«E allora come fai a dire che pensano questo?»
«E' evidente.»
Scrollò le spalle, come se la cosa non lo interessasse, e aggiunse in un soffio
tanto inudibile che, come spesso ero stata costretta a fare con lui, mi
costrinse a seguire il contorno della sue labbra sottili con lo sguardo per
cercare di decifrare le parole che aveva pronunciato: «Oltre ai miei genitori e
a mia sorella, sei l'unica con cui parlo, in effetti.»
«Che cos'ho di diverso
dagli altri?» Da sola non lo capivo. Non ero migliore di nessuno, né più
intelligente. Semplicemente, trovavo strano e affascinante quel suo modo di fare
che era tutto suo e che non avevo mai trovato in nessun altro. Mi incuriosivano
i suoi jeans consunti, le camicie larghe a quadri, così simili a quelle che mio
padre indossava per andare a pesca, le scarpe nere prive di personalità. Un
abbigliamento anonimo ma lui, senza dubbio, anonimo non era affatto. Non era
appariscente, non voleva essere al centro dell'attenzione e non cercava la
compagnia di qualcuno che non lo desiderava, ma c'era e si faceva notare,
dopotutto, con discrezione. E quasi non ci si accorgeva della sua presenza,
eppure la si avvertiva. Era una sensazione strana. Accadeva solo a me?
Gli ci
vollero diversi minuti per rispondere alla domanda. Mi sembrava di sentire i
suoi pensieri accavallarsi l'uno sull'altro, la mente fremere, in cerca di
qualcosa da dire, ma era tranquillo. Con quella sua espressione pacata, gli
occhi azzurri che guardavano davanti a sé e probabilmente non vedevano nulla in
particolare, perché c'era solo un muro giallo pallido di fronte a noi, rimaneva
immobile.
Poi, all'improvviso, fece schioccare la lingua, dischiuse le labbra
sottili e sussurrò:
«Sai aspettare le mie risposte. Ti accontenti di quello
che ti dico. Non insisti più di tanto...»
«Se lo dici tu...»
«Non è vero?
Ho sbagliato?» chiese lui, ma non erano vere domande. Non si aspettava una
risposta e dal suo tono era fin troppo evidente. Mi aveva messa a parte dei suoi
pensieri, gli andava bene così.
«Come fai a capire sempre quello che penso?»
gli chiesi ancora, sperando che mi desse una risposta accettabile e
sufficientemente esauriente. Ma speravo invano, e lo sapevo.
«In realtà non
lo capisco.» mormorò Gioele guardando verso il basso. «Mi pare di intuirlo,
provo a dirtelo e a volte faccio giusto.»
«Hai un ottimo intuito, allora.»
ribattei, aspra. Non volevo rivolgermi a lui con quel tono e me ne pentii
immediatamente, ma l'idea che riuscisse a comprendermi così bene mi irritava,
considerato che quella era solo la terza volta che parlavamo insieme. «Voglio
dire che è straordinario che tu ci riesca così bene.» aggiunsi addolcendo il
tono. Se un attimo prima si era decisamente irrigidito, forse pronto a subire
un'altra strigliata, sembrò rilassarsi immensamente. L'impressione che mi diede
fu di un pupazzo di neve che si scioglieva sotto il sole. «Non molti sono in
grado di farlo.»
«Osservo molto.» rispose lui con semplicità.
Lo capivo.
D'altra parte, che altro poteva fare, se nessuno gli rivolgeva la parola? Chissà
quanto aveva capito dei suoi compagni di classe, che era abituato a vedere ogni
giorno. Chissà quanto, dei loro comportamenti, aveva imparato. Sapeva
riconoscere tutti i loro stati d'animo? Sapeva capire, dal modo in cui stavano
seduti, se temevano l'interrogazione o se l'aspettavano con tranquillità? Quanto
era in grado di capire, con la semplice osservazione? Me lo chiedevo e avevo
paura di rispondere.
«Credi che io sia molto strano?» chiese a voce
bassissima all'improvviso, con un tono di voce strano, che mi diede
l'impressione che lo stesse domandando più che altro a se stesso.
Mi attardai
a rispondere. Che cosa dovevo dire?
«Voglio la verità.» sussurrò dopo qualche
istante. «Non è per... insomma... non... voglio dire...» appariva davvero in
difficoltà. Farfugliava parole incomprensibili, concentrato, parlava come se
faticasse a respirare e non mi guardava. Gli posai una mano sulla spalla e lui
sussultò. Mi fissò con gli occhi sgranati e attese che dicessi
qualcosa.
«Stai tranquillo, Gio'. Non è necessario che termini la frase. Non
mi farò idee strane su di te.»
Sorrise, davvero grato.
«Sai» commentò in
un filo di voce, mentre sentivo che i ragazzi cominciavano a ripopolare il piano
«sei la prima persona al mondo che mi chiama così.»
«Così come?» replicai.
«Intendi Gio'?»
Annuì. Mi voltai verso l'orologio appeso alla
parete. Mancava un minuto al suono della campanella, perciò avrei dovuto
allontanarmi e tornare in classe. Ma non ne avevo voglia. Volevo che continuasse
la frase, che mi dicesse per quale motivo aveva notato quell'insignificante
particolare. Io avevo l'abitudine di abbreviare tutti i nomi e l'unica con cui
non c'ero riuscita era Ines, ma anche a quello stavo lavorando. Nessuno sembrava
averlo notato, fino a quel momento, o meglio, nessuno l'aveva ritenuto
importante. Ma lui sì. Perché forse, nonostante tutto, era davvero diverso dagli
altri. E sì, era strano.
«Sì.» rispose lui saltando giù dal banco. «Di
solito, quei pochi che dicono il mio nome, lo pronunciano per intero.»
Non
capivo dove volesse andare a parare, perciò gli domandai:
«Ti dà fastidio se
io, invece, al contrario di tutti, lo abbrevio?»
Scrollò le spalle. Due o tre
ragazze entrarono chiacchierando nella classe, ci guardarono per un po',
meravigliate, poi scoppiarono a ridere.
Gioele rivolse loro una malinconica
occhiata di sottecchi, poi mi guardò e sussurrò:
«Dovresti tornare in classe,
sai? Arriverai tardi.»
Feci per replicare, ma, esattamente come se fossi
scomparsa, si sedette al suo posto – in ultimo banco accanto alla finestra -,
estrasse il libro dallo zaino e afferrò una matita mezza masticata
dall'astuccio. Era pronto a seguire la lezione e io, che pure ero lì, ero come
trasparente.
Me ne andai, un po' rammaricata. Non aveva risposto alla mia
domanda.
Lo rividi all'uscita da scuola. Stava fermo
davanti al cancello, dall'altra parte della strada, con le mani affondate nelle
tasche dei jeans e il giubbotto chiuso solo per metà. La sciarpa di lana gli
pendeva dal collo in maniera anomala, aveva un berretto infilato nella tasca
della giacca e tra i passanti dei pantaloni e la cintura era riuscito a
incastrare un paio di guanti dal colore improbabile. Sembrava un vagabondo che
qualcuno aveva misericordiosamente lavato.
Dietro a lui, impeccabile nella
sua giacca di pelle, con i capelli pettinati e lo zaino su una spalla, stava
Gabriele. Mi stava cercando tra la folla di studenti che si accalcavano
all'uscita. Quando mi individuò mi sorrise e mi fece segno di avvicinarmi a lui.
Mi feci largo tra gli altri ragazzi e lo raggiunsi. Quando gli fui vicino mi
scoccò un bacio sulle labbra, mi cinse le spalle con il braccio e fece per
girarsi, ma io lo fermai.
«Aspetta un attimo.» lo pregai allontanandomi da
lui.
Mi diressi verso Gioele, che aveva lo sguardo fisso nel vuoto e
sembrava non essersi accorto di me, e per attirare la sua attenzione gli sfiorai
appena il braccio. Sobbalzò e alzò in fretta lo sguardo. Quando si accorse di me
sorrise.
«Non mi dà fastidio.» disse prima ancora che potessi aprire bocca.
Aveva avuto la decenza di utilizzare un tono sufficientemente alto perché
potessi sentirlo, ma la sua voce era ancora poco più che un sussurro.
«Sembra...» Ma non mi disse cosa gli sembrasse. Gabriele si era avvicinato a
noi, mi aveva stretto a sé e aveva salutato Gioele con un cenno della
mano.
«Ciao.» lo salutò allegramente. Gioele parve ritrarsi. Incurvò le
spalle e chinò la testa. Non sembrava avere il coraggio di guardare Gabriele,
che proseguì: «Non sapevo che frequentassi questa scuola.»
Gioele non
rispose. Si limitò a scrollare le spalle. Al che Gabriele commento, con un
sorriso strano stampato in faccia:
«Loquace come sempre.»
E fu allora –
ancora non so come sia potuto accadere – che Gioele alzò lo sguardo. I suoi
occhi azzurri incontrarono quelli neri di Gabriele e l'occhiata che gli riservò
fu la più cattiva che avessi mai visto. Rabbrividii e non seppi spiegarmi il
perché di tutta quell'ostilità. Non distolse lo sguardo, come era solito fare:
rimase immobile a guardare Gabriele, in una lotta che mi sembrò senza fine, fino
a che Gabriele, che pure mi era sembrato assai sicuro di sé, non fece un passo
all'indietro e chinò lo sguardo.
Dichiarava la propria sconfitta e alzava
bandiera bianca.
E solo allora Gioele tornò a essere quello di sempre. I suo
occhi saettarono verso l'asfalto scuro, mi salutò con un frettoloso «Ci vediamo,
Carlotta.» e se ne andò camminando in fretta. Sparì all'interno della solita
Jaguar nera in poco più di un secondo, disse qualcosa all'uomo al volante, che
annuì e mise in moto. Si dileguarono più velocemente del solito, come se fossero
stati inseguiti.
Gabriele mi sorrise e non riuscii a non notare qualcosa di
crudele nel suo sguardo.
Mentre eravamo in macchina, con la radio a
massimo volume che mi martellava nelle orecchie, non riuscii a smettere di
pensare nemmeno per un secondo alla stranissima occhiata di Gioele. Mai, in
tutta la mia vita, mi ero trovata davanti a un simile sguardo. Non era paura né
timore né disprezzo né odio né alcuno dei sentimenti che pensavo di potrebbero
provare per una persona: era disgusto. Semplicemente. Gioele, con quell'occhiata
terribile che mi avrebbe perseguitata per settimane, stava dicendo a Gabriele:
mi fai schifo. E mi turbava il fatto che Gabriele, accanto a me, non
sembrasse minimamente toccato dalla faccenda: ripeteva allegro le parole della
canzone battendo il ritmo sul volante con una mano. Con l'altra stringeva la mia
e di tanto in tanto mi lanciava qualche occhiata trasognata.
«Lo conosci?»
gli domandai all'improvviso, incapace di trattenermi. Se era successo qualcosa
tra quei due, io dovevo saperlo.
«Gioele?»
Annuii. Si rabbuiò.
«Non
dargli troppa confidenza.» mi ammonì. «E' un idiota.» S'interruppe per un po',
serio, poi proseguì: «Sembra tanto buono, sai, con quella faccetta da angelo che
si ritrova. Occhioni azzurri da cucciolo braccato dai cacciatori e vocina da
suora di campagna... E' tutta una farsa.»
Rimasi di sasso. Non mi sarei mai
aspettata simili parole da Gabriele. Non mi sarei aspettata simili parole su
Gioele. Era assurdo! Come poteva essere tutto finto? Come poteva nascondere così
bene il carattere che Gabriele mi stava descrivendo? Eppure ci riusciva, a
quanto pareva. Non credevo che Gabriele mi avrebbe mentito, e il comportamento
di Gioele era fin troppo strano per non avermi destato qualche sospetto riguardo
alla sua sincerità.
«Che vuoi dire?» insistetti, dato che avevo capito che
finalmente sarei riuscita a ottenere qualche informazione in più su di lui. Mi
incuriosiva troppo e non riuscivo a trattenermi.
Gabriele sospirò.
«Non si
fa mai gli affari suoi.» m'informò. «Non parla mai, hai visto? Non saluta
nemmeno, maleducato com'è. Sembra uno scemo, ma non lo è. Lui sa tutto di tutti.
Ascolta le conversazioni, ho saputo che ha persino seguito della gente e che
l'ha spiata. Non devi fidarti di uno così, credimi. Sembra tanto un amico ed è
una carogna. Se ti rivolge la parola è perché ha fiutato qualche pettegolezzo
che in qualche modo può risultargli comodo, ci scommetto.»
«A vederlo non si
direbbe.» obiettai cautamente.
«No, infatti. E' per quello che anch'io mi
sono fidato di lui. Era mio amico, sai?» rivelò. La sua voce era quasi
sofferente, il volto crucciato. Capivo che parlarne gli costasse una grande
fatica, ma non lo interruppi. Lui, dal canto suo, proseguì: «Quando l'ho
conosciuto ero al settimo cielo. Avevo proprio bisogno di un amico così. Lui
c'era sempre, quando lo chiamavo, questo sì. A qualsiasi ora. Un giorno avevo
bisogno di un consiglio per una cosa – è furbo come una volpe, mi serviva uno
come lui – e gli ho telefonato alle undici e mezza di sera. Quaranta minuti dopo
era a casa mia con la soluzione pronta proprio sulla punta della lingua. E se
avevo bisogno di qualsiasi cosa e mi rivolgevo a lui non mi diceva mai di no. E
poi, all'improvviso, ancora non so perché, ha smesso di rispondere al telefono.
Se mi vedeva in giro non mi salutava nemmeno. L'ho sentito personalmente dire
alla sua sorellina, un giorno che ci siamo trovati nello stesso negozio, di
starmi lontana. Lontana da me!» Scosse la testa, come se ancora non si
capacitasse di quello che era accaduto.
Io ero in uno stato di shock. Quello
che mi stava dicendo era incredibile. Mai avrei pensato cose simili di Gioele!
Il suo viso era troppo sereno, la sua voce troppo dolce, il suo sguardo troppo
timoroso. Come poteva aver fatto ciò che Gabriele mi stava raccontando? Chi, dei
due, mentiva?
Ci riflettei in fretta. Gioele, senza dubbio. Che motivo
avrebbe avuto, Gabriele, di diffamare in quel modo un ragazzo con cui avevo
avuto solo qualche incontro occasionale, tra l'altro piuttosto burrascoso?
Mentre l'altro... Avrebbe avuto motivo di prendermi in giro, dopo tutto ciò che
gli avevo fatto. E ci sarebbe riuscito in pieno, perché di uno come lui mi
veniva istintivo fidarmi.
«E' un bugiardo.» aggiunse all'improvviso Gabriele
entrando nella strada che mi avrebbe portata davanti a casa. «Non fidarti di
quello che dice.»
Aveva un'espressione strana mentre mi faceva quest'ultima
raccomandazione, ma il suo sguardo sembrò all'improvviso sollevato quando,
sempre più perplessa, scesi dalla macchina. Lo salutai con un movimento rapido
della mano, entrai in casa correndo e a malapena salutai i miei fratelli, che in
salotto bisticciavano per il controllo del telecomando. Arrivata in camera mia
mi gettai sul telefono, sollevai la cornetta e composi il numero di
Francesca.
Ed ecco il settimo! Molto
imparzialmente confesso che adoro Gioele... Lo preferisco di gran lunga a
Gabriele.
Detto questo... ringrazio tantissmo tutte le persone che
stanno leggendo e/o commentando la storia, quelle che l'hanno inserita
tra le preferite e quelle che l'hanno inserita tra le seguite, grazie
infinite!
Baci,
rolly too