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Autore: Puffy93    04/01/2010    0 recensioni
Citazione
Nulla è per sempre, nemmeno la morte.
[parnassus, l'uomo che voleva ingannare il diavolo]


Proemio
Il gelo si stava impossessando di me, i suoi occhi color del ghiaccio mi fissavano, bramosi del mio sangue, della mia carne. Di me.
E anche se cercavo di non superare la dura regola che mi ero imposta, non pensare a lui, in quel momento non riuscivo a non farlo, lo desideravo, accanto a me. Piu di ogni altra cosa, ma lui non c’era e presto sarei scomparsa, nel buio della foresta. Come chissà quante altre milioni di persone per il mondo, da secoli.
Genere: Fantasy, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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                      Insonnia

Anche se la musica era ad un volume altissimo, non riusciva a soffocare i miei pensieri, fatti anche d’immagini.
Damy canticchiava stonando molte note, la sua voce era così squillante da superare il volume della radio. Urlava.
Detestavo le canzoni che tutti ascoltavano frequentemente, come milioni di pecore che copiano l’una dall’altra. Non le consideravo nemmeno canzoni, o musica. Il ritmo era sempre lo stesso, con la solita cantante barra bambola gonfiabile, una di quei artisti con una maschera sulla faccia, si creano un personaggio immaginario, ne prendono atto sapendo che milioni di ragazzi e ragazze l’adoreranno per ciò che vedono e non per ciò che è veramente.
«Terra chiama Hebany Glawer!» squillò Damienn, mentre entravamo nel parcheggio della scuola.
Mi voltai verso di lei, mentre cercava uno spiazzo per l’auto. «Cosa?» domandai stralunata.
«Stai zitta, zitta. Cos’hai oggi?» domandò con gli occhi fissi davanti a se, concentrata per fare una manovra.
«Niente, sta notte non ho dormito, come al solito» risposi schietta senza giri di parole.
A volte le persone si chiedevano perché mai io e Damy fossimo amiche inseparabili. Eravamo il contrario dell’una e dell’altra.
Damy aveva lisci capelli biondi, gli occhi erano color nocciola ed era aggraziata e slanciata, vestiva sempre alla moda e femminile, faceva parte del gruppo più popolare della scuola. Mentre io ero sciatta e goffa, avevo i capelli ondulati e così scuri da sembrare neri come il petrolio, la pelle era bianca come la neve, anche d’estate, i miei occhi erano un strano colore, un misto verde giallo con sfumature azzurrine, forse erano l’unica cosa positiva del mio aspetto, di certo non mi vestivo femminile, ero tutta jeans vecchi, camice a quadri o maglie anonime e scarpe da ginnastica. Non avevo amici, solo Damy, non uscivo mai. Due stereotipi completamente opposti, ecco cosa eravamo io e Damy.
«Di nuovo? Ma perché non ti prendi uno di quei sonniferi che abbatterebbero un cavallo, vedrai come dormi!» spense il motore e afferrò la sua borsa.
«Vedrò, dopo la scuola passo in farmacia» risposi non tanto convinta. Aprii la portiera e scesi dal veicolo.
La Waterbury Pubblic High School aveva gia preso vita, anche se eravamo arrivate molto in anticipo dall’inizio delle lezioni, gli studenti erano sparsi qui e la, chi chiacchierava allegramente nel parcheggio, chi nell’entrata, mentre magari cercava qualche annuncio sulla bacheca, alcune ragazze che salutarono Damy erano sedute sui scalini di marmo bianco e vecchio della scuola.
«Devo andare in segreteria per chiedere una cosa, vieni con me?» Damienn era propesa gia verso il corridoio a est, verso l’ufficio di informazioni.
Feci spallucce. «D’accordo».
La seguii in silenzio, mentre percorrevamo il lungo corridoio affollato, ogni tanto mi scontravo con qualcuno, ripetei più volte scusa come un cd incantato, mentre Damy camminava senza problemi davanti a me.
«Buongiorno!» trillò la sua voce aprendo la porta dell’ufficio, dietro ad un bancone alto, di legno rossiccio e laccato in lucido si trovava una signora minuta, con capelli riccioluti e quasi della stessa tonalità del bancone. Era immersa in varie scartoffie.
«Buongiorno signorina Van Goderr» accennò un sorriso di cortesia. Lasciò cadere sulla scrivania un fascicolo e ritornò con attenzione alla mia amica.
«Volevo sapere se era possibile spostarmi o cambiarmi una lezione, presto inizierò gli allenamenti per le cheerleader… »
La segretaria annuii di scatto, come se chissà quante altre ragazze le avessero fatto la stessa richiesta.
«Vediamo» mormorò concentrata, mentre apriva un cassetto in alluminio e frugò in alcuni fogli.
Tornò al banco con in mano almeno una ventina di tabulati uniti da una spilletta.
«La posso spostare ad economia, le va bene?» alzò lo sguardo verso il viso illuminato di damy, che sorrise.
«Si, perfetto. Grazie mille ed arrivederci» si voltò verso di me e prendendomi sotto braccio uscimmo dall’ufficio.
Il corridoio si era affollato ancor di più, era quasi l’inizio delle lezioni.
«Hey, ora devo andare, ci vediamo a pranzo!» esclamai distaccandomi da lei, che annuii per poi voltarsi diretta alla lezione che le spettava.
Quando mi voltai andai a sbattere contro un ragazzone alto e biondo.
«Sc-scusami!» esclamai rimettendomi dritta.
Mi fissò come se fossi un verme. «Guarda dove cammini imbranata!» e se ne andò per la sua strada.
Sospirai alzando gli occhi al cielo, poi mi diressi verso la classe di Storia.
La lezione di storia iniziò e finì in un lampo, non perché adoravo quella materia, ma perché mi perdevo nei miei pensieri, era come se finissi in un mondo tutto mio, a volte il professore Sharpet mi riprendeva e buttando lì una battuta sul mio viso quando andavo sull’isola che non c’è, così diceva ogni volta, oppure annuivo meccanicamente, cosi ingannando gli altri con la mia finta attenzione.
La mattinata scolastica proseguì con la mia materia preferita, Arte. Ad insegnarla era una stravagante donna di nome Martha Monrow, gli altri studenti della scuola che partecipavano alle sue lezioni e non, la ritenevano un po’ bislacca, no forse più di un po’. Vestiva hippy, aveva dei lunghi capelli ricci e rossi, tirati indietro da una fascia colorata e bizzarra, portava dei occhiali da vista doppi che mi ricordavano i fondi di bottiglia. gesticolava e parlava teatralmente e una cosa che mi metteva in soggezione era che osservava, meditava ed esaminava ogni minimo particolare di una persona. Molte volte, i miei particolari.
«Signorina Glawer, mi sta ascoltando?» per quanto rintronata poteva sembrare, a lei non la fregavano i miei gesti meccanici quando la mia mente è al di là della classe, della scuola.
Battei gli occhi più volte. «Ahm, si certo» abbozzai un sorriso.
«Bene» battè una mano sull’altra. «Ripeterò comunque ciò che avevo detto» mi esaminò come di sua abitudine faceva. «Farà lei il quadro per la rappresentazione della mostra, a fine anno».
Spalancai la bocca, mentre a razzo l’ansia s’impadroniva di me. «Co-co…» ci riprovai. «Come? Ma io non sono all’altezza di…».
«Cicici!» esclamò per zittirmi, gli altri ridevano sotto i baffi. «Se ho deciso che sarai tu l’artista vorrà dire che sei all’altezza, hai creato alcuni lavori così…. Artistici!» esclamò fissando un punto invisibile della classe e alzando una mano col fare teatrale. «Vedrai. Ne sarai capace!».

Camminavo verso la mensa soprapensiero, le parole della professoressa Monrow continuavano ad echeggiare qui e là nella mia testa.
«Hey Bany! Hebany!» sentivo qualcuno chiamarmi ma non mi fermai, era come se non l’avessi sentito.
«Hebany!» qualcheduno mi aveva afferrato per un braccio.
«Hey!» esclamai scontrosa e infastidita. Ma poi mi accorsi che era Damy. «Oh, sei tu» dissi mordendomi un labbro.
«Ma sei sorda? Ti ho rincorsa per mezza scuola!» esclamò quasi senza fiato.
Scossi la testa. «Scusa» mormorai.
«Sei strana oggi?!» mi esaminò in volto. «C’è qualcos’altro oltre all’insonnia?» domandò, mentre ricominciavamo a camminare verso la mensa, assieme alla massa di folla.
«Beh, forse… no, non lo so» mormorai confusa.
Damy arricciò le labbra. «D’accordo me ne parlerai sta sera. Andiamo a mangiare» a volte Damienn ricordava una mamma chioccia, mi domandava sempre se avevo dormito oppure no, se mi serviva qualcosa, se avevo fame. Era come se cercasse di non farmi sentire la mancanza di una madre, ma lei poteva essere solo la mia migliore amica, un amica chioccia.
Ci sedemmo al tavolo delle cheerleader e dei giocatori di basket ball della scuola. Quello era il suo mondo e a volte, spesso volentieri, mi ci faceva entrare, sperando che diventassi meno asociale.

«Hebany, c’è un problema» m’informò la mia amica quando la campanella annunciò la fine delle lezioni. Mi trovavo alle porte d’ingresso, mi voltai verso di lei «Quale?».
«Ho gli incontri con le cheerleader in palestra…» spiegò.
Arrivai alla conclusione in un attimo. «No, non mi faccio accompagnare da Mark Tayslar!» esclamai imbronciata come una bambina. «Preferisco andare a piedi».
Sbuffò facendosi cadere le braccia lungo i fianchi. «Oh andiamo! Cos’ha che non va Mark?».
«E’ uno stupido buffone senza cervello con solo muscoli e capelli biondi, niente di che, no?» mi sentivo molto acida nei confronti di quel ragazzo, forse perché i primi anni di liceo me li fece passare un inferno.
«E va bene, spero solo che non incominci a piovere» mormorò chiocciolosamente.
Ruotai gli occhi al cielo. «Sta tranquilla mammina» feci un piccolo sorriso e uscii dalla scuola.
Naturalmente, mi ero dimenticata della mia sfortuna, cominciò a piovere e più camminavo decisa, ma nella mia testa ronzava la mia voce automatica che diceva “non cadere, non cadere!” iniziò a diluviare, in lontananza incominciarono i tuoni e i lampi illuminavano la tetra luce del pomeriggio con flash argentati.
Il risultato? Arrivai a casa zuppa come un pulcino!
Come fui al coperto mi sfilai le scarpe sporche di fango, e mentre salivo le scale diretta in camera mia mi tolsi la giacca gocciolante. Fui sorpresa di trovare la finestra spalancata, le tende violette svolazzavano smosse dal vento. Si era inzuppata la moquette per colpa della pioggia. Sbuffai e entrai in bagno, con ancora i capelli gocciolanti, presi un asciugamano e l’asciuga capelli ritornai in camera e chiusi la finestra. Continuavo a percorrere la mattinata cercando di ricordare se fossi stata io a lasciare la finestra aperta, ma niente. ricordavo solo di essermi svegliata con il carboncino in mano e il blocco da disegno sul letto, la nottata precedente mi ero addormentata dopo l’ennesimo incubo. Sulle lenzuola azzurre con disegnini floreali erano macchiate di nero. Mentre cambiavo le coperte al mio letto, il telefono squillò.
«Pronto» risposi con voce traballante, cercavo di rimanere in piedi mentre scendevo le scale con le coperte in mano e il telefono stretto tra l’orecchio e la spalla.
«John Smith mi ha invitata ad uscire!» urlò dall’altra parte la voce squillante di Damy. Inciampai nei miei stessi piedi e feci gli ultimi due scalini di sedere. Il telefono era finito a terra, si sentiva comunque la voce di Damienn.
«Bany? Che è successo? Hey ci sei!?».
Sbuffai e afferrai la cornetta. «Sono caduta» borbottai rimettendomi in piedi. «Ma non uscivi con Tom?» domandai mentre raccoglievo le lenzuola.
«Beh si, però. Tom è noioso, devo sempre essere io a chiedergli di uscire e mi aveva rotto. John è più divertente, bello, atletico… » la lista su John Smith continuò per qualche minuto, mentre io infilavo le coperte nel cesto dei panni sporchi. Chiusi la porta della lavanderia e andai in cucina.
«Comunque, ti volevo chiedere una cosa…» attese qualche minuto, voleva una mia risposta.
«Dimmi» ruotai gli occhi, mentre tiravo fuori dal cassetto una padella.
«Ecco, Sabato faranno una festa a casa di Emma e…» ruotò attorno a ciò che veramente voleva chiedermi. Così ci arrivai da sola.
«Scordatelo!» enfatizzai ogni singola lettera.
«Ti prego Bany! Ti prego!» la sua voce si fece implorante. «Mia madre non mi ci manda da sola con lui, per piacere!».
Accesi il fornello e misi in padella un filo d’olio e la cipolla, li lasciai soffriggere. L’odore si espanse per tutta la piccola cucina.
«No, lo sai bene che odio quel tipo di feste, potrei rivelarmi una catastrofe peggio di ora» presi due uova e le misi in un piatto, iniziai a sbatterle mentre ci aggiungevo altri ingredienti.
«Giuro che non ti lascerò cadere o rovesciare qualcosa addosso a qualcuno, giuramento con il mignolo!».
Feci un risata aspra. «Guarda che il patto con il mignolo non vale al telefono».
«Hebany!» fece l’offesa.
Sospirai, aspettai un minuto e poi dissi: «E va bene! Ma niente tacchi, niente mini abito, niente trucco o capelli alla super star!» spiegai bene le condizioni.
«Oh, andiamo! Un po’ di trucco non fa male a nessuno!» protestò lei.
«Un velo di ombretto e basta!» presi le zucchine dal frigo e le pelai, per poi farle a quadretti. Le misi nella padella e poi aggiunsi le uova.
«Ok, però solo una cosa»
Sbuffai con il naso. «Cosa?»
«Non ti mettere le tue classiche camice a quadri» il suo tono era alla Paris Hilton quando giudica un capo orripilante.
«Ma perché? Non sono brutte» mi opposi, appoggiandomi al ripiano della cucina, mentre la cena cucinava nella padella.
«Fanno tanto da… boscaiola! » quel termine lo aveva usato più volte, per descrivere il mio modo di vestire.
Borbottando alla cornetta tirai fuori dal frigo le bistecche di maiale, le posai ancora confezionate sul piano da lavoro e riempii una pentola di acqua, immersi in essa cinque patate e la lasciai sul fuoco per bollirle.
«Damy, ti devo lasciare, tra poco arriva mio…» mi bloccai quando sentii un tonfo in lontananza, in casa. «…Padre» finii la frase con un sussurro, fissai con le orecchie tese la porta della cucina.
«Ok, ci vediamo domani; un bacio!» fece il classico rumore di un bacio e attaccò.
Lasciai il telefono sul tavolo e andai in salotto. Mi guardai attorno osservando ogni minimo dettaglio. Un altro tonfo echeggiò nella casa, questa volta riuscii a capire da dove proveniva. Il garage, che per arrivarci bastava attraversare il salotto e raggiungere la porta dipinta di bianco.
La spalancai e tastai con una mano la parete in cerca dell’interruttore. Lo trovai e accesi la luce. La stanza era silenziosa ed addormentata, la nuova tela bianca mi fissava cupa, posizionata sul cavalletto. Quando feci un passo per scendere il primo gradino, udii la porta di casa chiudersi.
«Bany?» mio padre mi chiamò, mentre sistemava come sempre la giacca sull’appendi abiti.
Mi voltai in direzione dell’entrata, invisibile dietro la parete del corridoio.
«Si, sono qui!» risposi, per poi spegnere la luce e chiudere la porta.
«Fammi indovinare…» mormorò mentre si levava la cravatta, annusava l’aria. «Uova e zucchine?».
Sorrisi entrando in cucina, superandolo. «E bistecca con purè di patate» dissi, mentre spegnevo la pentola che conteneva le patate bollite. Levai l’acqua e iniziai a schiacciarle. «Papà, mi prendi la bistecchiera?» chiesi, mentre prendevo il latte e il burro.
«Sissignora» rispose. Aprì l’anta del mobile giallo.
«Sbaglio o siamo di buon umore?» amalgamai gli ingredienti alle patate, facendole diventare una pasta morbida.
«No, solo che sono felice di essere a casa, sono stanchissimo» mi passò la bistecchiera e la misi sul fuoco a riscaldare. Senza che glielo chiedessi prese le zucchine e uova e le mise in un piatto. Iniziò ad apparecchiare. «Ma non quanto te, non hai dormito nemmeno sta notte?» domandò con un tono preoccupato. Ma anche se gli occhi trasmettevano preoccupazione, le forme del suo viso ricordavano sempre un sorriso. Sebbene aveva quarantacinque anni, ne dimostrava trentacinque, i suoi capelli biondi non avevano perso colore, cosi come il profondo castano scuro dei suoi occhi. M’immaginai mia madre, giovane assieme a lui in giro per Parigi, spensierati, insieme.
Irrazionalmente quella voce si mise in moto nella mia testa, una voce melodiosa e perfetta, da farmi venire i brividi.

 

  
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