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Autore: theSwamp    04/01/2010    0 recensioni
Renesmee è cresciuta, e della bambina deliziosa che incantava chiunque è rimasto davvero poco, rimane solo una ragazza costretta a vivere una vita sul filo di due mondi totalmente diversi. E arriverà il momento in cui dovrà capire quale sia il vero significato dell'amore.
Genere: Romantico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Renesmee Cullen
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Ciao a tutti! Bene, questa storia in realtà è piuttosto vecchiotta, e non posto da settembre o ottobre. Ok, ero andata in crisi di ispirazione, ma sono contenta di poter dire che sia passata, visto che ho appena finito di scrivere due capitoli e ho già un terzo in testa (e sono bloccata a casa dal raffreddore, quindi penso che lo scriverò stasera stessa ;) ). Cerco di farmi perdonare postando due capitoli, il secondo questa sera. Ai vecchi lettori SCUSATE, ma proprio non riuscivo a scrivere, e ci tengo troppo alla storia per inserire dei capitoli che alla fine non piacciono nemmeno a me! Vi prego perdono! L Ai nuovi lettori, se ce ne fossero: ok, ci sono un sacco di capitoli indietro, però non sarebbe male se deste un occhiatina…magari potete leggerla pian pianino se non avete niente di meglio da fare (però occhio che ci sono trilioni di cose migliori da fare piuttosto che starsene ore davanti a un computer, io lo faccio solo in casi di estrema necessità tipo super raffreddore), e dirmi come vi sembra nel complesso. Scusate ancora, spero di non aver postato davvero troppo tardi!

Un bacio e buon anno a tutti!

Giuls

PS: non ho scritto le risposte ai commenti perché devo andare a fare l’aerosol -.-.  però mi ricordo che Sily85 a suo tempo mi aveva chiesto i link per i personaggi, quindi li metto:

Benjamin: http://static.open.salon.com/files/james_dean1244780699.jpg (ok, è un po’ anni cinquanta e l’espressione è trash ma ci sta un sacco, e poi voglio dire è James Dean), oppure questo, che è un po’ meno super figo ma se ci si mettesse sarebbe da volare via …no scusate non lo trovo. Vaaaabe alla prossima! XD

Renesmee: non è rossa, ma è bellissima comunque, e per i lineamenti, le movenze, mi immagino lei http://filmblog.girlpower.it/wp-content/uploads/2008/01/marion.jpg , la bellissima e bravissima Marion Cotillard (cioè: http://www.themediaphiles.com/wp-content/uploads/2009/04/marion_cotillard.jpg, una più di così…).

Fatemi sapere cosa ne pensate!!

 

 

 

 

 

 

Mi addormentai in macchina poco prima di arrivare a casa, riuscii a riposarmi solo per una mezz’oretta. Ero assolutamente determinata a non perdermi un secondo della strana atmosfera perfetta che si era creata in macchina, in quell’intenso silenzio che avevamo creato. Quando mi risvegliai, l’oscurità della notte stava per lasciare posto al grigio pesante del giorno. Ero ancora stanchissima, e sentivo la paura lungo la schiena. Puro terrore. Mi veniva da battere i denti. Non avevo idea di cosa diavolo dovessi fare. non riuscivo a pensare coerentemente alla prospettiva vivida e reale di dovermi dividere in due entità distanti e indipendenti. Da una parte lui, dall’altra tutto il resto. O meglio, da una parte noi, dall’altra gli altri. Pensavo di non poter pensare agli altri come una minaccia, o come dei nemici, ma dal momento che era così che doveva andare, non ci misi molto ad abituarmi all’idea. Nel farlo, più che mai mi sentivo una vampira.

-Hai paura?-. Mi riscosse dai miei pensieri con le note basse della sua voce. Era pura poesia.

-Sì. Ma è normale, no?-

-Penso di sì-

-Hai idea di cosa gli dirai?-

-Forse dovresti essere tu, a parlare. Sarò con te-. Mi scrutava di sottecchi, curioso. Cercava di capire se aveva esagerato o no.

-Lo so. Non essere irragionevole, Benjamin-

-Farò del mio meglio-, si voltò. Il suo sorriso incerto mi rassicurò oltre ogni aspettativa.

Pensavo e ripensavo alle parole esatte che avrei detto dì li a una decina di minuti, e a ciò a cui avrei dovuto pensare non appena mio padre avrebbe potuto leggere i miei pensieri. Ma anche se continuavo a pensare, l’idea era sempre quella: dire la verità. In un secondo. In ogni caso le mie azioni avrebbero riflesso le mie reali intenzioni.

Amo Benjamin più di quanto possa amare tutti voi.

Non ci sarebbe stato altro da aggiungere, e speravo davvero che mi avrebbero capita. Non sapevo cosa mi riservava il futuro, e non ero tanto ingenua da credere che i Volturi non avrebbero più cercato qualcosa da noi. Ma per ora, la mia priorità assoluta era riuscire a tradire la mia famiglia, perché sapevo che sarebbe stato così che si sarebbero sentiti. Benjamin non era dei nostri, non potevano fidarsi. E soprattutto, tradire Jacob. Quello mi avrebbe fatto male veramente. Non dovevo dimenticarmi che senza Benjamin non erano niente di più e niente di meno che una ragazzina viziata e troppo egocentrica, e la perdita di Jacob, del mio Jacob, mi avrebbe sconvolta. Avrebbe scombinato tutto il mio equilibrio. Forse non sarei stata più la stessa, e non esageravo a pensarlo. Jacob era sempre stato più di un fratello, e più di un amico, aveva assunto un ruolo indescrivibile, e con il tempo sempre più complesso. A lui, che aveva dedicato la sua vita a me, cosa potevo dire? La verità era troppo crudele. Non riuscivo nemmeno a formularla in una frase dal senso compiuto.

Mi ricordai di averlo baciato, le mie labbra bruciarono come se le avessi appena cosparse di veleno. D’un tratto la possibilità di rimanere accanto a Benjamin, il mio desiderio, divenne una necessità oggettiva. La presenza di Benjamin mi permetteva inspiegabilmente di essere più ragionevole, più chiara. Non c’era spazio per dubbi e trepidazioni, se lui era lì con me: potevo essere me stessa senza nessuna colpa o paura, senza l’obbligo costante di dovermi chiedere chi fossi.

Jacob, senza Benjamin non sono capace di essere me stessa.

Forse non avrebbe capito subito che era solo un modo come un altro per dire che senza lui non vivevo. Non come avrei voluto. Ma quando lo avesse capito, allora lo avrei sentito eccome. Avrei sentito una fitta da qualche parte, vicino al cuore. Ma sarebbe stata la mia giusta punizione.

-Benjamin, pensavo che la tragedia è ovunque. E per quanto cerchiamo di evitarla, di qualsiasi forma o specie noi siamo, lei è sempre lì-

-Non pensi mai che sia giusto sia così?-. rispose al mio impulso come se già da prima avesse saputo dove i miei pensieri mi avrebbero portata. Mi osservava con attenzione, degnando solo di qualche occhiata distratta la strada davanti a noi. Era semi deserta.

-Certo. È rassicurante, no? Intendo, la nostra possibilità di soffrire-. Mi ritrovai a gesticolare velocemente con le mani, foggiando i miei pensieri nell’aria tiepida dell’abitacolo. Sorrise mestamente.

-Devo farti conoscere un mio amico, prima o poi. Si chiama Thomas. Credo che avreste di che discutere-

-Perché?-. Cercai di immaginarmi un amico per Benjamin, e sebbene mi riuscisse difficile, mi affascinò l’idea che qualcuno oltre me potesse trovarlo abbastanza piacevole da ricercare volontariamente la sua compagnia. Stavolta rise sonoramente, al pensiero di chissà quale aneddoto, forse.

-Penso che abbiate visioni molto…distanti. Il suo pensiero fisso nella vita è evitare il dolore. Come la peste, non so se mi intendi. È l’occupazione della sua vita-

-E ci riesce?-

-Oh sì. Ma a spesa di molte vite innocenti-

Capii l’allusione al volo. Forse la chiave era davvero quella, l’unico modo per essere veramente indistruttibili, dentro e fuori. Ma era anche l’unico modo per morire veramente, e ci tenevo troppo alla vita per volermi perdermi nella visceralità dei miei istinti annacquati. Capì che il pensiero del vampiro mi aveva inquietata, forse quando mi vide fissare dal finestrino il paesaggio fuori.

-Non è cattivo Nessie. Ha una filosofia tutta sua, ma nemmeno tanto pazzesca-

-Può anche essere-

-Tu pensi che soffrire sia giusto-. Non era una domanda, ovviamente, come sempre.

-C’è chi me lo ha insegnato- Sorrisi, e pensai a mio padre. Come eravamo simili. Sperai che potesse essere orgoglioso di me, un giorno.

-Anche io lo credo. Ma mi ricordo sempre che non c’è mai giustizia, nella sofferenza-

-Che vuoi dire?-. Fui io ad osservarlo incuriosito, mentre aggrottava le sopracciglia e contraeva leggermente la linea precisa e morbida delle sue labbra, alla ricerca delle parole giuste. Non capivo ancora fino a che punto potesse essere perfezionista.

-C’è sempre chi soffre troppo, Renesmee, e chi non soffre abbastanza. È un sistema geniale ma imperfetto, e non ci possiamo fare niente-

-Jacob soffre troppo, vero?-

Posò su di me quei suoi splendidi occhi profondi come la notte, e non seppi cosa vide, ma prese la mia mano nella sua. E senza un sorriso, seppi che per quanto potesse, soffriva per noi. Soffriva per me, aveva orrore di ciò che sarebbe successo a Jacob. La sua innocenza infantile gli impediva di macchiarsi di alcuna colpa, in quel momento.

-Vorrei poter fare qualcosa-

-Se ci credi davvero, sono felice lo stesso-

Il discorso aleggiava ancora tra noi come un gas tossico ma inodore. Per quanto potesse essere comprensivo, ci sarebbe sempre stato un muro invalicabile tra Benjamin e Jake. Ero infantile nella speranza che potessero vivere nello stesso mondo. Fui colta dall’improvvisa consapevolezza che dal momento che Benjamin fosse entrato a far parte della mia vita, Jacob se ne sarebbe andato, e non sarebbe mai più tornato.

Ero sicura che non si sarebbe mai più trasformato. E tutta la storia sarebbe finita esattamente come era iniziata, e il cerchio si sarebbe chiuso. Non sarebbe tornato a La Push, non si sarebbe più trasformato.

Cercai di non piangere e ci riuscii, perché la prospettiva di poter essere un umano, un ragazzo come tutti, era la migliore che gli potessi augurare. Sarebbe stata la migliore anche per tutti noi. Mia madre sarebbe stata una donna bellissima, se avesse potuto diventarlo. Mio padre un uomo brillante e intenso. Forse anche io sarei stata migliore.

Ma non Benjamin. Quello che toccavo era il suo vero corpo, non quello dell’umano che era morto per una raffica di mitra nel tentativo di far saltare un ponte, probabilmente ancora mezzo ubriaco. Quella che sentivo era la sua vera e unica voce, quelli che vedevo i suoi veri occhi. Inspiegabilmente,  non poteva essere altro che un vampiro. E il mio destino mi sembrava un po’ meno ingiusto.

Percorremmo il viale di vecchi alberi che ci riportava a casa a velocità moderata, ciascuno immerso nei suoi pensieri artefatti. Nessuno si aspettava che tornassi con Benjamin, ma speravo comunque che in casa ci fossero tutti. Volevo parlare una volta sola, e volevo essere ben chiara con tutti. Parcheggiò l’auto alla fine del viale, in mezzo alla strada. La cosa mi ricordava una fuga, m non era un problema nemmeno quello. Respirò profondamente, provai il bisogno irrazionale di rassicurarlo, di cauterizzare dolcemente tutte le sue ferite. Posai le mie labbra sulla cicatrice sul suo collo che mi sembrava essere più evidente, e le allontanai con lentezza. Fu scosso da un lieve sussulto. Non mi importava molto che mio padre potesse leggere i nostri pensieri, perché dovevo occuparmi anche di lui, e non solo di me.

-Andiamo-. Mi rivolse un ampio sorriso, quasi luminoso, e scese dell’automobile. Aprii la portiera, scendendo mi porse la mano. Camminammo per il vialetto che serpeggiava lungo il giardino, costeggiato da cespugli rigogliosi di camelie, mano nella mano. Tremavo un po’, anche se avevo la ferma convinzione che il mio dovere era prendermi cura di entrambi, adempiere ai miei doveri.

La porta di casa si aprì prima che potessi bussare. Alice ci fissava, seria e pensierosa, quasi con fare accusatorio. Ma potevo anche capirla. Non le piaceva essere tagliata fuori per così tanto tempo, e probabilmente si era fatta venire un gran mal di testa nel tentativo di capirci qualcosa, almeno cercando Benjamin.

-Ah. Siete arrivati, allora-. Era impaziente: non ci aveva visti, ma aveva comunque saputo anticipare le mie mosse. Decenni di veggenza le avevano donato una notevole conoscenza delle azioni degli uomini. La seguimmo dentro casa, e come speravo c’erano tutti. I miei genitori, mio padre che strngeva a sé mia madre, agitati, seduti sul grande divano del salotto. Carlisle ed Esme stavano ancora scendendo le scale, lentamente. Emmett e Rosalie alla finestra, assieme, si erano voltati verso di noi. Jasper seduto al tavolo di mogano scuro, accanto a sé la sedia smossa su cui forse fino a poco prima era seduta Alice. La porta fu chiusa alle mie spalle, e cominciai a cercare dentro di me tutta la sicurezza che avevo sentito. Quasi non mi resi conto che tutti erano ammutoliti, nel vedermi rientrare con Benjamin. Lui aveva di nuovo assunto quella sua strana aria arrogante e taciturna che assumeva con coloro di cui non si fidava abbastanza.

-Renesmee! Sei andata fuori di testa? Non mi hai più risposto! Giuro che se non fosse successo qualcosa entro quindici minuti sarei venuta  cercarti-, riuscì a sputare fuori mia madre. Era abbastanza arrabbiata e preoccupata da riuscire a fregarsene della presenza di Benjamin. Le sorrisi, ignorandola. Cercavo di prendere coscienza di una cosa sola: la sua presenza, alle mie spalle. Inspirai, mi preparai al tuffo.

-Edward vi ha già parlato, vero?- Qualche cenno di assenso, altri che si limitavano a fissarmi immobili. -Credo che dobbiate conoscere la mia decisione- Erano tutti incredibilmente immobili. Mia madre però si torceva le mani, ansiosa, mio padre mi osservava con attenzione, teso. Cercai le parole dentro di me, e quando le trovai, dopo alcuni secondi di assoluto silenzio, ebbi il coraggio di dirle. Ero orgogliosa di me.

-Io e Benjamin ci amiamo. Credo che staremo insieme-

Ci fu un lungo attimo di silenzio, cercai di capire la reazione dei miei genitori, ma non la capivo bene. Mio padre fece una smorfia, come se non potesse crederci.

-Ma lui è…-

-Lo so. Mi fido-. Non lo lasciai finire, sapevo cosa stava per dire: che era un Volturo. Ma non mi piaceva che si parlasse di lui come se non fosse lì con noi, e soprattutto come se fosse un criminale. –E mi farebbe molto, moltissimo piacere se vuoi riusciste a smetterla con questa storia del pericolo. Se volessero farci fuori ci riuscirebbero benissimo, anche senza di lui-

C’era troppo silenzio attorno a me, andava oltre l’irreale. Era totalmente fuori dal tempo, come tutti loro. O meglio come tutti noi, se consideravo i miei ultimi sviluppi. Mi mordicchiavo il labbro inferiore, cercavo un qualsiasi appiglio. Mi sentivo molto sola, e sentivo il mio sangue pulsare ancora nelle vene solo perché ero fermamente convinta della sua presenza alle mie spalle. Mia madre mi sorrise, negli occhi una strana espressione tagliente.

-Allora è proprio amore, è così?- Annuii, anche se forse avrei dovuto incazzarmi. Ma era mia madre, e c’era molto silenzio attorno a noi. -Sono felice che tu te ne sia accorta in tre giorni soltanto-. Mi pietrificai. Sentii qualcosa di amaro, una sensazione sgradevole, nella mia gola.

-Non c’è niente da obiettare-

-Naturale. Perché voi vi amate-. Mia madre sputava veleno, era l’unica espressione che riuscisse ad esprimere ciò che vedevo di fronte a me. Faceva paura, davvero. Lei, che aveva sempre controllato la sua natura, che era rimasta così umana, disciplinata, civile. Le pupille leggermente dilatate, la voce leggermente rauca, stringeva i pugni in quella che sembrava una sorta di posizione di attacco. Una parte di me reagì alla paura facendo due passi avanti, schierandomi a difesa di lui. Come se ne avesse avuto bisogno. Non avevo mai visto mia madre come un’avversaria, non avevo mai sofferto di alcun tipo di complesso. Ma avevo già capito che cosa era successo quel giorno.

Non ero più parte di quel gruppo.

Non ero più legata a quella famiglia. Ogni legame era spezzato, davanti a me, un avversario. Non volevo litigare, ma davanti a me non trovavo un’altra prospettiva.

-Chiaro-

-Certo, certo. Ti ama talmente tanto da fare un resoconto dettagliato su di te a Demetri ogni due giorni. Vuoi raccontarle quello che hai fatto ieri sera, Benjamin?-

-So tutto-

-Ovviamente. Il vostro rapporto è nato all’insegna della sincerità, come potresti non conoscere tutti i dettagli della vita di questo sconosciuto-

-Come se potessi capire dal tempo-

-Giusto! Dopotutto, avete bruciato le tappe, non è vero? Insomma, vuol dire che sapete molto di voi-

-Esattamente-

-Sì, posso immaginare. Sai, il sesso aiuta la conoscenza reciproca, sicuramente-

-Ci hai preso di nuovo-

-Non lascerò che tu faccia questo-

-Piantala mamma-. Mi pulsava la testa, potevo sentire il ritmo del sangue che scorreva nelle mie vene come un fiume in piena. Forse mia madre non era per niente minacciosa, forse stava solo supplicando sua figlia, ma il mio sangue ormai pulsava e scorreva, e non avrei potuto fermarmi. Mi raccolsi ancor più come se stessi per attaccare, mio padre sospirò.

-Renesmee, ti prego. Vai se credi, ma non lasciarci così, come se ci volessi ammazzare-

Mi rilassai, la testa smise di pulsare., ricominciai a vedere, uscii dal vortice. Mi lasciai cadere e trovai due mani che conoscevo bene ad afferrarmi, per tenermi in piedi. Lasciai ciondolare la testa.

-Tua madre vuole solo questo-

Guardai mia madre e incontrai i suoi occhi pieni di angoscia, e mi vergognai per quello che avevo pensato, mi vergognai per tutto. Dovevo scappare, così nessuno avrebbe mai più potuto ascoltare, o intuire, i miei pensieri orribili. Le mani che mi sorreggevano erano così fresche che un brivido leggero corse lungo la mia schiena.

-Sono mortificata-. Non mi accorsi nemmeno di usare la parola che mi faceva sempre usare mio padre, non me ne importava molto.

-Teniamo troppo a te per tenerti qui. Anche la mamma lo pensa-

-Lo pensiamo tutti- Rosalie si voltò verso di me, e mi sorrise triste. La luce della grande vetrata la illuminava, sembrava una madonna. Mi risultò quanto mai strano che una creatura come lei potesse sembrare una santa di tanti secoli fa.

-Non mi era sembrato-

-Scusaci-

Tutto era molto confuso, e mi sembrava che la luce tenue dell’alba che entrava dalla finestra fosse troppo forte. Tutti nella stanza iniziarono a brillare, tranne me. Percepii il bagliore emanato da Benjamin alle mie spalle. Sentivo il suo fiato seguire il ritmo del mio.

-Posso andare?-. Dentro di me sentii nascere una risata. Era stupido chiedere qualcosa adesso, ma non potevo dimenticarmi di essere una bambina.

-Se sei convinta, tutto ciò che vuoi-. Parlava mio padre, ero più che sicura che mia madre non ce l’avrebbe mai fatta. Mi osservava da sotto quelle folte ciglia scure che le avevo sempre invidiato, con i miei stessi occhi, o almeno con quelli che erano stati i miei occhi. Chissà cosa si provava ad avere di fronte a sé qualcosa che era stato tuo, tanto, o forse poco, tempo fa. Non lo avrei mai scoperto. Non riuscivo a capire come potessero lasciarmi andare. Ero troppo cieca, e sorda, e distante, per capire che era solamente l’ennesima prova di quanto mi amassero. Quando davvero si ama non c’è spazio per l’egoismo. Era chiaro dagli occhi tristi e profondi di mia madre che mi salutavano come e più di un caldo abbraccio, non perché non ci saremmo più riviste, ma perché aveva già capito che era appena successo qualcosa di inderogabile. Mi sentii colpevole, ma alla fine libera. Dovevo ancora pagare il prezzo della mia libertà.

Tra noi stagnava un silenzio pesante e irreale. Capitava spesso che la casa fosse piena di silenzio, ma mai così profondo e cupo. Mi ricordava i momenti della mia prima infanzia, in cui tutti facevano bene attenzione a quel che dicevano, o a volte anche pensavano. Gli unici momenti che avevo passato senza Alice e Jasper. Avrei voluto fare qualcosa, ma non mi veniva in mente altro che guardarmi le mani. Per un secondo temetti che Benjamin potesse rimanere deluso dal mio comportamento. Poi mi sincronizzai di nuovo con il suo respiro, e non ci pensai più.

-Jacob sta per tornare- Una mano fresca si posò sui miei fianchi, chiusi gli occhi. –Dovrete parlare-

Aprii gli occhi, mi chiesi come gli eventi avessero potuto spingermi fino a quel punto. Mi sentivo annegare, sommersa da acque che non potevo combattere.

Ero così giovane. Sperai che Benjamin lo avesse già capito, già calcolato.

Non riuscivo a piangere. Dovevo fare qualcosa o sarei impazzita, mi sarebbe scoppiato il cervello.

Mi guardai attorno, vidi il vaso di cristallo del tavolino all’ingresso, lo buttai a terra. Il suono della lastra che si frantumava, delle schegge che fendevano l’aria, mi tranquillizzò. Trovai una statuetta di porcellana, un orrendo prendi-polvere  di chissà quanti anni fa, la gettai a terra. La fine ceramica si squassò a terra con un suono lieve e delicato, non mi soddisfò. Percorsi le scale di corsa, senza fare attenzione agli altri, entrai nella mia camera e mi chiusi la porta alle spalle, a chiave.

Ero totalmente fuori di testa. Andai in bagno e mi lavai la faccia, ma l’acqua non era abbastanza fresca, e la testa era ancora troppo calda. Decisi di bagnarmi la base del collo, ma avevo ancora più caldo, perché la testa mi scottava. Avevo l’impressione di produrre vapore, come le patate lessate. Misi tutta la testa sotto al rubinetto e mi rilassai, l’acqua sembrava più fredda. Poi diventò troppo fredda, e ritirai la testa, quando sentii di avere i brividi. Come potevo non essermi accorta che era gelata? Era assurdo. Poi mi sentii sporca, tutta sporca, anche i vestiti. Aprii la doccia cinque secondi, facendo scorrere l’acqua per farla scaldare per bene, mi ci buttai sotto con i vestiti. Piano piano mi tolsi tutto, mi pulivo bene perché mi sentivo sporca. Avevo l’impressione di non riuscire a pulirmi, ci rinunciai e mi misi un accappatoio addosso. Era un accappatoio molto morbido e profumato e mi dispiaceva che dovessi toccarlo con la mia pelle sporca.

Poi cominciai a mettere in pratica la mia idea, sperando che nessuno si accorgesse di quanto ero sporca.

Tirai fuori dalla cabina armadio un paio di valigie, di quelle enormi, che si usano per andare in quei posti in cui si ha la certezza di non poter trovare niente di quello di cui uno ha bisogno. Le aprii entrambe, in mezzo alla camera da letto, e aprii gli armadi. Cominciai a riempire, senza un vero ordine logico, mettevo un po’ di tutto. Shorts, giubbotti, bianche canottiere di lino, guantini di camoscio, sandali, sciarpe. Non sapevo ancora cosa sarebbe stato giusto portare.

Bussarono alla porta, andai ad aprire. Avevo quasi finito, potevo anche avere pubblico, dopotutto. Mi trovai di fronte mio padre e mia madre, affiancati da Carlisle. Mi suonò un campanello nella testa: l’asso nella manica Carlisle si usava solo in casi disperati, come per esempio attacchi da parte dei Volturi, o evidente schizofrenia di un membro della famiglia. Sospirai. Trovai lo sguardo di Benjamin, acquattato alle spalle dei miei famigliari, curioso e indecifrabile come al solito. Gli sorrisi. Avevo proprio bisogno di mettere la testa sotto l’acqua.

Ignorai il trio e ritornai alle mie valigie. Infilavo e schiacciavo tutto, infilavo e schiacciavo, mentre gli altri mormoravano. Trovai un altro paio di mani ad infilare e a schiacciare, e mi chiesi come facesse a capire sempre tutto. O forse semplicemente accettava i miei ridicoli sbalzi d’umore, cosa che non avrei mai fatto, fossi stata in lui. A volte le nostre mani si sfioravano, mentre preparavo la mia fuga. Presi una grossa borsa, la mia Fendi preferita: sul momento non ci feci nemmeno caso. Ci infilai dentro una bottiglia d’acqua, il telefono, il laptop e il passaporto. Presi dei vestiti dall’armadio, infilai anche un cardigan in borsa, non sapevo ancora quale fosse la mia meta. Andai in bagno e mi vestii velocemente, districai i capelli ancora fradici, non feci caso agli occhi gonfi. Durante tutto quel lungo rito, non avevo mai smesso di piangere. Mi sentivo secca, prosciugata. Quando tornai nella stanza, Benjamin aveva già chiuso le valige, e se ne stava seduto sul letto, a guardare negli occhi mia madre e mio padre.

Non capivo come potesse salvarmi anche solo restando in silenzio, immobile.

Ero ferma in mezzo alla stanza.

-Sta per arrivare?-

-Sento i suoi pensieri- Mio padre mi rispose cercando di decifrare i miei pensieri. Non ci riuscivo nemmeno io, non ce l’avrebbe fatta nemmeno stavolta. Inspirai.

-Glielo dirò. Ma voi dovete aiutarmi. Non lasciatelo solo, vi prego. Un giorno vorrò rivederlo, e vorrò vederlo vivo, e senza di me, e senza quel suo stra maledettissimo bisogno di me. Non lasciatelo solo-

-Non lo faremo. Dove te ne stai andando?-. Mamma aveva la voce più dolce di tutti noi.

-Non lo so-

Mi abbracciò. Si fece avanti e mi strinse forte e mi cullò un pochino.

-Ha solo bisogno di più tempo- La voce triste di Benjamin aleggiava nell’aria.

-Ha tutto il tempo che vuole- Papà prese il posto di mia madre nell’abbraccio, lo strinsi forte, sperando che capisse.

Benjamin e mia madre parlavano di cose pratiche, spezzoni di discorso che non capivo a fondo. Si chiedevano se sarei riuscita a guidare, se era meglio che lui andasse all’aeroporto prima, se forse qualcuno doveva accompagnarmi, se lui aveva una diavolo di idea di dove me ne potessi andare, e che il suo amico Thomas ci avrebbe sicuramente dato una mano, ci avrebbe prestato una delle sue case, ma doveva fare qualche telefonata, e poi c’erano i Volturi, ma non c’era problema, Tatiana avrebbe saputo cosa fare, si sarebbe inventata qualcosa, potevo lasciare il Paese senza problemi, almeno per ora.

-Renesmee, ricordati che qui c’è casa tua, no hai bisogno di scappare via. Ma lo accettiamo, e ti aspettiamo-

Mi chiesi perché cazzo dicessero sempre le cose giuste, quelle migliori, quelle che io non facevo mai.

-E’ solo che ci sforziamo di fare il meglio. Ma magari quello diciamo è diverso da quello che pensiamo- rise nervosamente, anche io afferrai l’ironia- puoi credermi-. Annuii, mi allontanai dall’abbraccio.

Benjamin era lì, che spiegava a mia madre che cosa avremmo fatto. Sapevo che avrebbe potuto sembrare impassibile, ma sapevo decifrarlo, nel suo codice tutto particolare. E non per me non era di certo un problema capire che era nervoso,e preoccupato, e forse anche intimamente felice della piega che la cosa aveva preso. Chissà se lo sapeva, che io capivo tutto.

-Vai all’aeroporto, prendi le valige, ti raggiungerò subito-

Strinse leggermente gli occhi scuri, si soffermò sul mio volto con singolare attenzione, ma non trovò nulla di cui preoccuparsi. Ovviamente i nostri oscuri movimenti gli altri non li potevano nemmeno avvertire. Mi sorrise, forse la prima volta in cui gli altri lo vedevano sorridere.

-Ti aspetto-

Non era esattamente un commiato romantico, vederlo uscire dalla porta di camera mia con due enormi valige da viaggio transoceanico, senza nemmeno un abbraccio, un bacio, qualche bella frase. Ma non era proprio un problema. Mi sedetti sul letto, esattamente di fianco  dove fino a poco prima c’era stato lui.

-Vuoi che diciamo a Jacob di salire?-. Non mi ero accorta che in camera era rimasta solamente mia madre. Feci un cenno di assenso. Mi ero persa a guardarmi attorno, a cercare di capire la mia camera. Avrei voluto spogliarla del tutto, dormire sul pavimento e contemplare un muro bianco. Non riuscivo più a capire tutta quella profusione di cose, oggetti, accessori, colori, tessuti. Erano così pesanti: mi toglievano il respiro.

-Mamma, ti prenderai cura di Jacob?-

-Ci proverò. Non devi sentirti in colpa-

-Non dirlo se non lo pensi- Non mi rispose.

-Cos’è che ti lega a lui?-. Forse volevo parlare con rabbia, ma riuscii solo a simulare una stanca curiosità. Lei si morse un labbro, allontanò lo sguardo.

-E’ una storia così vecchia che non ha nemmeno senso ricordarla-

-Quanto vecchia?-

-Una vita fa-. Certi riferimenti non erano mai casuali, non potevano esserlo in quella casa. Aggrottai le sopracciglia, disorientata.

-Qualcosa come quindici anni fa, o giù di lì?-. Silenzio, mentre mia madre mi fissava, eloquente e chiara nei suoi occhi dorati ed eterei. Rabbrividii: non era possibile credere a quello che avevo appena capito. Ma era del tutto inutile negare, e sebbene stentai a trovare la voce, non potei non chiederglielo. –Mamma, eravate insieme?-. Fece una smorfia, si guardò attorno.

-Non insieme-

-Ti piaceva?-

-Era il mio migliore amico, e forse sì, un po’ lo amavo. Ma io non volevo-

Ovviamente perché lui voleva.

Ero disgustata dalla malvagità della sorte.

Come diavolo era possibile che succedesse due volte? Perché qualcosa, qualche cazzo di forza pervertita, poteva fare questo a lui? Alla stessa persona.

Mi incazzai molto con il destino, con la storia di tutti, in quella mattina d’autunno color grigio chiaro, con la pioggia fine che entrava un po’ dalla finestra semi aperta., e le foglie appiccicate alla terra umida e mia madre che mi raccontava la storia sconosciuta di due ragazzi normali, o quasi, che si innamorano ma si trovano ad affrontare forze molto più grandi di loro. Sapevo bene che non me la potevo prendere con un semplice giro di destino, di quelli che con un soffio ci sbattono proprio dove non avremmo mai immaginato, m era sempre molto più semplice di prendermela con me stessa o con Benjamin.

C’è sempre chi rovina tutto, ma non era colpa mia se ero nata così, e non potevo farci proprio niente. Forse anche Jacob se la sarebbe presa col destino. Ci stavo ancora pensando quando entrò, e io alzai gli occhi, e la mia gola era secca, e il mio cuore batteva piano, un ritmo lento e silenzioso, come se si volesse nascondere. Sospirai e incredibilmente gli sorrisi. Ma non era di certo il sorriso che gli avevo sempre riservato: era quello di Benjamin, il suo sorriso triste di chi capisce perfettamente il tuo dolore.

Ormai era parte di me, per un semplice giro di destino.

 

 

 

 

 

 

 

  
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