Capitolo
dodicesimo
Ottanta
aveva sempre idee nuove. E su questo nessuno potevo dire nulla. Peccato che
erano tutte gigantescamente stupide. Come quando venne a dirci che dovevamo
provare a pattinare su una pista da bowling, o come quando ci chiese cosa
sarebbe secondo voi l'acqua se fosse asciutta. O perché il Galak avesse come
simbolo un delfino. Voglio dire, il delfino mica fa il latte. O come si
riempiono i tubetti del dentifricio, e soprattutto di cosa è fatto il
dentifricio? Perché, voglio dire, lo shampoo fa niente se non so di cosa è
fatto, ma il dentifricio me lo metto in bocca tutti i giorni! Se fosse fatto di
lardo di maiale spremuto più foglie di aloe vera?
L'ultima
trovata fu grandiosa. Ci disse che dovevamo assolutamente
inventarci un chip che registrasse tutta la nostra vita, sogni compresi. Questo
chip, il magazzicordi, doveva essere
installato alla nascita in un area del cervello in cui avrebbe potuto
immagazzinare tutte le memorie di un uomo. Il fatto è che Ottanta non sapeva
neanche lontanamente quali fossero le aree del cervello, né se fosse
lontanamente fattibile, né se esistesse una tecnologia simile. Ottanta era
l'uomo più utopico che noi tutti avessimo mai conosciuto. Solo che lui non si
accorgeva molto di esserlo ed, anzi, si sorprendeva che gli altri non gli
dessero corda. Tutti noi ci scherzavamo sopra su questo suo estro, quasi tutti
non consideravano la persona che si nascondeva sotto quelle magliette
"Ottanta Voglia Disco Party". Lo vedevamo come un buffone, uno così,
un Peter Pan eterno perso dietro alla barzelletta del pomodoro che non riesce a
dormire perché l'insalata russa, un sognatore con in testa una visione del
mondo alla Dawson's Creek. Un immaturo, a volte anche un insensibile.
La
verità era che Marco era il ragazzo più sensibile che fosse mai esistito sulla
faccia di questo mondo del cazzo. Lui era davvero un cazzo di genio. Era un
grande. Uno che aveva capito tutto un attimo prima del resto del mondo ma che
era stato zitto, senza prendersi la gloria aveva aspettato pazientemente che
qualcun'altro ci arrivasse con la sua testa e si prendesse tutto il merito. Era
un mediano, uno che si faceva il culo per tutti i novanta minuti più di tutti
quanti, colui che faceva davvero vincere le partite mentre i giornali, i tifosi,
tutti, idolatravano l'attaccante di turno. Lui era il migliore. Migliore di gran
lunga di tutti quanti noi. E aveva accettato che altri, pur peggiori di lui, si
prendessero la fama di migliori.
Ma
tutti lo videro, tutti videro l'uomo che era. Improvvisamente a tutti fu chiaro.
Io lo sapevo già che uomo fosse, lo ammiravo già da tempo. Ma quando si
presentò, un giorno di pioggia, bagnato di fronte a casa mia, dicendomi che ora
sapeva quali fossero le parti del cervello e che me le avrebbe svelate così
potevo costruire il chip, dicendomi che ora le sapeva tutte benissimo perché
aveva un tumore proprio lì, singhiozzando come chi ha paura di non poter più
aiutare le persone che ama e non come chi ha paura per se stesso, piangendo
sotto la pioggia mi abbracciò, la maglietta nera con un grande 80 stampato
sopra appiccicata al petto, come se volesse sorreggere me più che farsi
sorreggere. Tutti seppero che lui era il
migliore.