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Autore: Toshiya    03/07/2005    2 recensioni
È andata via da più di sette mesi. Forse otto. Sembra essere passato molto più tempo. Le coperte sembrano ancora calde, come per una serie infinite di mattinate che amavamo trascorrere seduti sul letto a parlare. Lei in quella sua vestaglia bianca, semi trasparente. L’unica cosa che mi ha lasciato. Appesa nel suo armadio vuoto, vicino alla finestra, così ogni volta che arriva una ventata mi sembra di vederla ballare al suono di una musica che solo lei sente.
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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È andata via da più di sette mesi. Forse otto. Sembra essere passato molto più tempo.
Le coperte sembrano ancora calde, come per una serie infinite di mattinate che amavamo trascorrere seduti sul letto a parlare. Lei in quella sua vestaglia bianca, semi trasparente. L’unica cosa che mi ha lasciato. Appesa nel suo armadio vuoto, vicino alla finestra, così ogni volta che arriva una ventata mi sembra di vederla ballare al suono di una musica che solo lei sente.
Continuo a dormire rannicchiato in un angolo dell’enorme letto. Prima non c’era mai abbastanza spazio, per entrambi. Ora sembra troppo grande per contenere solo me. Una vocina ogni tanto mi suggerisce dolcemente di stendermi su tutto il letto, occuparlo. E smettere di sperare che lei ritorni da me, che bussi alla mia porta con in mano la valigia piangendo e chiedendo scusa. Forse sarebbe la cosa migliore da fare. Anzi, sicuramente.
Ma anche la cosa più difficile.
La mattina, quando mi alzo per poi andare in cucina, sento ancora l’odore del suo profumo.Ogni tanto mi sembra quasi di sentire la sua presenza, dietro di me. E tutte le volte che succede, quando mi accorgo che lei non è dietro di me, che lei non tornerà mai da me, che nulla sarà più come prima, è come ricevere una pugnalata nel cuore.
Le ore passate a fissare il telefono, nell’attesa che squilli sono insopportabili. Come un’enorme ragnatela che pian piano ti circonda. E alla fine sai di non poterne più uscire. Mai più. Le giornate sembrano tutte uguali. Quasi non riesco ad accorgermi della differenza fra il giorno e la notte. Che infondo è minima. Forse inesistente. La televisione perennemente accesa. Giusto per farmi sentire meno solo, anche se non aiuta. Bisogna preoccuparsi per la tua squadra del cuore che ha la pessima abitudine di perdere sempre. Di farsi umiliare in modo terrificante. Ogni tanto vince, certo. Ma non ha più senso senza lei vicino che ti abbraccia contenta. Continuano a trasmettere, puntuali come la morte, la telenovela americana che lei amava tanto guardare. Era di una stupidità immensa, ma a lei piaceva. Quindi non si discute.
Sembra un vero affronto che continuino a trasmetterla anche adesso. Ogni volta che vedo la pubblicità cambio canale. È più forte di me.
Sentirla vicino, ricordarla è come morire.
Gli alberi hanno iniziato a fiorire. Bellissimi. Gioiosi. Lei amava stare ore e ore affacciata alla finestra a guardarli. Io non la capivo. Troppo occupato a pensare al calcio, alla squadra che non vince mai (e che, di conseguenza, non potevo far altro che tifare), ai soldi da pagare a destra e a manca.
Prima, in effetti, erano cose a cui tenevo molto. Moltissimo. Andavo spesso allo stadio, urlando e saltando come tutti gli altri tifosi. Insultando gli avversari. Impazzivamo di gioia quando un trentenne ignorante e stupido faceva entrare una palla dentro a una porta.
Io avevo dato importanza a cose stupide, calcio, soldi, birra, e così via. E ti avevo persa per questo. E lo sapevo benissimo. Lo so tutt’ora.
Non sono più andato allo stadio, da quando ha chiuso la porta con violenza urlandomi << Addio! >>, quel giorno. Non sono più uscito al bar a parlare con gli amici, da quando hai detto che non mi sopportavi più, che ero stato solo una perdita di tempo.
<< Una perdita di tempo durata nove anni, >> avevo specificato. La cosa la fece arrabbiare ancora di più. Stava piangendo come mai aveva fatto in vita sua.
E io l’avevo vista piangere molte volte. Al funerale di suo padre ero lì, ad abbracciarla. Quando abbiamo perso il bambino, ero lì in ospedale, a piangere con lei.
A volte mi fermo a pensare che forse dipendeva tutto da lui. Da quel bambino che dovevamo avere. Io, in verità, avevo già pensato al nome. O forse no, forse mi avrebbe lasciato ugualmente. Senza urlare, per non spaventarlo.
<< Basta, non ce la faccio. Me ne vado! >>, aveva annunciato. Non alzava più la voce, ma sentivo ugualmente la sua rabbia. La riuscivo a capire, anche quando non parlava. << No, Sarah! Aspetta! Fermati! >>, avevo implorato. Probabilmente non mi ha sentito neanche. O forse non ci aveva fatto caso. Perché non voleva rendere l’addio più pesante e doloroso di quanto non lo fosse già. Non lo saprò mai.
Quando chiuse bruscamente la porta dell’ingresso, sussurrai << Ti amo >>. L’amavo davvero. E l’amo tutt’ora. È difficile spiegare cosa provavo per lei. Nessuno è mai riuscito a spiegarlo, e non credo che ne sarò capace. È come entrare in casa dopo una notte fredda passata all’aperto e sedersi davanti al fuoco. Sentire come ti riscalda lentamente, finché il freddo diventa solo un ricordo sbiadito. Lontano. Amare qualcuno è sentire che non si è mai del tutto persi. Che c’è sempre qualcuno che ti capisce, che ti ascolta. E che ti consola finché non sussurri << Sto meglio, davvero >>. È una sensazione del tutto indescrivibile, soprattutto per chi non ha mai avuto la fortuna di provarla.
E ora che l’ho provato, l’amore, quello vero, ho solo voglia di tornare a quando ‘eravamo solo amici’.
Il ricordo è molto pallido. In effetti è voluto poco tempo per farci innamorare. Amavi dire che eravamo anime gemelle. Magari lo pensavi veramente.
Amavo il suono che avevano quelle due parole, quando le dicevi. Le scandivi in maniera delicata. Dolcissimo. Anime gemelle. Semplicemente angelico.
Credevo che sarebbe durato in eterno, il nostro amore. Credevo che nessuno sarebbe riuscito a dividerci.
Mi sbagliavo. Ora lo so.
Ora sono un cinquant’enne con una vestaglia bianca semi-trasparente e dei ricordi di una donna che non tornerà mai più da lui. Ed è difficile, estremamente difficile, riuscire ad uscire da questa situazione del cazzo.
Devi aspettare un giorno.
E quel giorno ti alzi, e dentro di te scatta qualcosa che ti dice che hai ancora molti anni da vivere. Che la vita è bella. Che lei ormai non c’è più e non tornerà, che quel telefono non squilla ed è inutile starlo a fissare sperando che accada qualcosa, che è inutile pensare che gli alberi in fiore la faranno tornare indietro.
E quel giorno, quel fatidico giorno, decidi che è ora di cambiare. Ora di tornare ad essere l’uomo che eri una volta; ubriaco, scontroso, egoista, aggressivo, scapolo. Ma felice. Sono tornato allo stadio. A urlare, agitare bandiere, cantare, insultare gli avversari, bestemmiare, appendere striscioni, saltare. A perdere e a vincere. E, stranamente, quest’anno abbiamo pure vinto la Coppa.
Sono tornato al bar sotto casa. Gli amici sono ancora tutti lì. Disposti a bere birra per tutta la notte. Contenti di rivedermi, anche se non lo danno a vedere. Una stretta di mano, nulla più. Perché è così l’amicizia tra uomini. Prendere o lasciare. Che ci vuoi fare?
Così sono tornato a vivere. Senza di lei.
E per la prima volta tutto mi sembra più vero.






piccola nota: la squadra di cui si parla in alcuni tratti è l'inter u_u pfff
  
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