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Autore: mery_wolf    11/01/2010    1 recensioni
La vita è l'infanzia della nostra immortalità.
[Johann Wolfgang von Goethe]
La spagnola dal punto di vista di Edward:
"E se la Spagnola ci avesse raggiunto?"
Un’ondata di angoscia mi invase.
[...]Stava morendo mia madre. Stavo morendo io.
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Edward Cullen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Spagnola's Date

 

13 Settembre 1918

 

La vita è l'infanzia della nostra immortalità.

 [ Johann Wolfgang von Goethe ]

 

<< Davvero non c’è nessuno che ti piace? >>, ripeté Elisabeth ancora una volta. << Nessuno? >>, disse e io scossi il capo lentamente con un piccolo sorriso.

<< No, mamma >>, risposi guardando la sua faccia divertita quanto me. << Nessuno, nessuno >>.

Passò qualche istante e vidi le sue labbra inarcarsi in un sorriso comprensivo.

Eravamo seduti vicino al tavolo, in cucina, e discutevamo da un’ora buona del mio matrimonio.

Non ne avevo nessuna voglia, non in quel momento, ed Elisabeth ne approfittava per punzecchiarmi.

A volte sembrava più lei la ragazzina che io.

Ebbi un brivido quando si alzò dalla sedia su cui era seduta e mi si avvicinò posandomi una mano sulla spalla.

<< E dai >>, disse ridendo. << Non mi dire che nessuna delle ragazze di Chicago ti interessa! >>.

Risi senza ritegno della sua espressione, il suoi occhi si fecero giocosi.

<< No, non c’è nessuna ragazza, dico sul serio >>, dissi. << E non fare quella faccia, mamma cara. Non offenderti, non credo di poter trovare moglie così giovane >>.

<< E invece sì! >>, esclamò scompigliandomi i capelli. << Sai che se non sceglierai una ragazza abbastanza meritevole, tuo padre sarà costretto a trovartene una lui. Che ti piaccia o no, dovrai sposarla >>, disse più seria.

Fissai calmo i suoi occhi verdi e intensi, che cercavano di trasmettermi più avvertimenti possibili. Mi scrutavano intensi con una starna luce negli occhi – tristezza? – e più continuavano imperterriti a fissarmi più mi sentivo costretto. Obbligato.

Sospirai. << Mamma. Non sono interessato alle donne – almeno non per ora – non ho trovato ancora nessuno che faccia al caso mio >>.

<< Oh, Edward, sei impossibile >>, sbottò di nuovo giocosa, interrompendo il mio discorso.

Fece per continuare, la sua lamentela, ma io alzando la mano la bloccai.

<< Fammi continuare, ti prego >>, dissi ridacchiando e poi tornando subito serio. << Voglio avere un altro po’ di tempo. Ancora un anno e poi ti prometto che mi metterò alla ricerca della mia anima gemella >>, che parola grossa! Pensai mentre m’incupivo. << E poi lo sai quali sono le mie aspirazioni. Lo sai meglio di mio padre >>.

Subito il suo volto si fece criptico, come il mio, e i suoi occhi si accesero d’ira.

Non le piaceva mai quando parlavo delle mia aspirazioni a diventare soldato, ad arruolarmi nell’esercito – come mio padre prima di me – e di partire per la guerra.

Nessuno, nemmeno mio padre che mi avvertiva continuamente, riusciva a distogliermi dal mio principale obbiettivo.

Tutto per l’onore della patria, era il mio costante pensiero.

Sapevo cosa provava. Sapevo sempre decifrare i pensieri delle persone. Era un mio dono.

<< Edward Anthony Masen >>, mi disse attenta a controllare le lacrime. I suoi occhi erano lucidi. << Ti prego, non dire questo. Sai che non ti permetterò di arruolarti >>, la sua voce ardeva di convinzione.

<< Lo so fin troppo bene. Ecco perché cercherò di dimostrarti che ti sbagli, che ritornerò valoroso e la guerra non mi terrorizza affatto >>, dissi tutto ad un fiato.

<< E cosa ti terrorizza, figlio mio? >>, chiese con filo di amarezza.

Bloccai il respiro pronunciando una sola frase. << L’idea di diventare un mostro. Di uccidere la gente senza ragione >>.

<< Allora perché desideri arruolarti così ardentemente, Edward? >>, mi chiese spiazzata dalla mia confessione.

<< Perché voglio dimostrare alla gente che non si possono uccidere delle persone, anche se non sono innocenti, per ragioni futili. Voglio stravolgere il modo di fare la guerra, non voglio che delle vite vengano sprecate, che lo meritino o meno >>, dissi di slancio. << Non temo la morte; no. Temo solo di rimanere indifferente di fronte ad essa >>, la mia voce si vece più flebile sull’ultima frase.

<< Non vuoi essere un mostro >>, disse dopo una pausa di riflessione. Sentivo che stava per dire una delle sue sagge frasi. << Ma il fatto che temi di poterlo diventare t’impedisce di esserlo davvero. Le tue idee mi lusingano, all’idea che io abbia un figlio da questi bellissimi pensieri >>, sospirò.

<< Ma, figlio mio, non voglio perderti; non posso permetterti di fare un errore del genere. Hai ancora tutta la vita davanti, tu devi vivere! >>, esclamò piena di tensione scrutando il mio viso serio.

<< In qualsiasi modo? >>, chiesi acido. Non volevo esserlo, non con mia madre. Ma non avevo mai sopportato di buon grado il criticare i miei ideali.

Elisabeth annuì. << Sì, in qualsiasi modo. Anche se non combinerai niente di speciale, anche se non cambierai il mondo. Anche se dovessi perdere la strada della fede, tu rimarrai sempre il mio adorato figlio Edward >>, sorrise debolmente e mi carezzò leggera una guancia.

Percepivo dal suo tocco quanto sforzo ci avesse messo in quelle parole, in quella sua confessione. Percepivo la sua disperazione, la speranza che lei provava di farmi finalmente cambiare idea.

<< Tu non puoi essere un mostro, non puoi esserlo >>, ripeté.

Scossi la testa con rammarico. << Mi dispiace tanto, mamma >>, ero triste ora, non volevo ferirla.

Mi voltai verso il suo viso e vi lessi preoccupazione, tristezza, rabbia.

Le stesse emozioni che vivevo io dentro di me. << Non voglio rinunciare al mio sogno. Non desidero altro che dimostrare che sono più umano di quei cani nell’esercito >>.

<< I tuoi ideali sono tutti mal fondati, caro! >>, scoppiò in un esclamazione di furore cieco. << La guerra non è come pensano tutti. Si perde se stessi mentre si è in mezzo ai fischi dei proiettili che ti passano attorno, a vedere il sangue versato senza motivo, a vedere esseri umani che perdono la ragione. Non puoi farlo – per quanta fiducia abbia in te – ma non posso permettere che tu sia costretto a far emergere il tuo demone interiore >>, mi disse, il volto rosso dall’ira.

<< Siamo fatti per ragionare, non per agire d’istinto >>.

Ognuno di noi ha un demone dentro se stesso, mi diceva sempre lei, questo lo sapevo bene.

Non dobbiamo permettere per nessun motivo al mondo di farlo emergere, di fargli prendere il posto di noi stessi.

<< Lo so >>, dissi duro, abbassando lo sguardo. Ma sento di potercela fare, fu il mio pensiero.

Ma non lo dissi. Temevo di degenerare la situazione. Respirò a fondo e mentre la fissavo sottecchi, di nascosto. La vidi arrancare e perdere l’equilibrio.

Subito scattai a mantenerla per un braccio, prima che cadesse, sul mio viso un’espressione terrorizzata.

<< Mamma! >>, gridai, mentre la facevo sedere sulla sua seggiola e le accarezzavo dolce una guancia. << Mamma, rispondi, ti prego! >>, gridai e fissavo il suo viso stanco e rosso.

Pensavo che fosse tutto ereditato dal suo eccessivo ardore della sfuriata, ma avevo un altro presentimento. Ora temevo per lei, per la sua vita. Prima avevo mentito.

La morte mi faceva paura; eccome. Non avevo paura per me, non riuscivo a pensare a me stesso in quel momento. Più di tutto avevo paura di perdere le persone a me care.

E se avesse preso anche lei l’influenza della spagnola?

Possibile che il virus avesse raggiunto anche loro?

No, era impossibile, i medici dicevano che l’epidemia non avrebbe mai colpito Chicago.

Ma io non ci credevo.

<< Sei così giovane >>, disse debole Elisabeth. Tossì e riprese a guardarmi assorta.

<< Non permetterò che il mio bambino abbia a che fare con la morte già a diciassette anni >>, disse in un sussurro esile e mi fissava con quegli occhi verdi e accesi. Tossì ancora.

<< Non... lo permetterò >>, e detto questo poggiò la testa sulla mia spalla e svenne.

 

15 Settembre 1918

 

<< Mamma, stai ferma >>, dissi alzando la voce e scattando a rimetterla seduta. << Ci penso io >>.

<< Quale vuoi? >>, le chiesi rivolto verso una delle mensole più alte della libreria.

Scosse il capo. << Edward, caro, non devi prenderti troppa cura di me. Sono ancora giovane, sai? >>, provò a ridacchiare, ma la tosse la colpì ancora alla sprovvista.

Corsi da lei tentando di aiutarla in qualche modo. Le accarezzai i capelli mentre l’eccesso di tosse si calmava ed Elisabeth si riappoggiava ancora allo schienale della grande poltrona rossa, stanca.

L’avvolsi dentro un’altra coperta e le baciai la fronte sudata.

<< Non dovresti sforzarti, mamma. Sta al caldo e riposati: presto questa orrenda influenza passerà >>, dissi ripensando all’ultima visita del dottore per Elisabeth.

Aveva detto: “Non preoccupatevi, è solo una febbre passeggera” e poi “In qualche giorno, con le cure adeguate e qualche attenzione si rimetterà in sesto”.

E nel frattempo lei tossiva ancora.

Edward S., mio padre, mi aveva ordinato di non farla sforzare e di non farle prendere freddo.

E mentre lui era a lavoro lei si ostinava a voler fare qualcosa.

Un’attività di qualsiasi genere solo per stare un po’ in movimento, diceva lei.

Ma in questi casi, anche se capivo bene che non sopportava rimanere inattiva, ero più testardo di lei.

<< Dai, Edward, solo una piccola passeggiata in giardino >>, e mi guardò con quegli occhi lucidi e convincenti. Ma non convincenti nel modo in cui sperava lei.

Quella luce negli occhi di Elisabeth m’impediva anche di farle fare un minimo movimento. Mi mettevano sempre più in allarme.

E se la Spagnola ci avesse raggiunto? Pensai e la testa mi girò all’idea.

Mia madre non era l’unica che aveva un’influenza del genere...

<< No >>, risposi secco.

Si imbronciò e fissò il pavimento con la fronte corrugata.

L’avevo offesa.

<< Mi sottovaluti, figlio mio >>, soffiò e mi sorprese per la sua durezza. Assomigliava al tono di quella sfuriata di due giorni fa; prima che...

Niente sforzi, ripetei a me stesso.

Le accarezzai i capelli folti sorridendo per la sua espressione corrucciata.

Alzò lo sguardo ed incatenò i suoi occhi a i miei, fulminandomi. Mi scappò una risatina e lei sbuffò.

<< Ti prego, Elisabeth, ti sto pregando di stare buona e farti assistere da me >>, le dissi con il mio tono più morbido e convincente possibile.

Sospirò. << E va bene >>. Non le piaceva mostrarsi debole, lo sapevo.

<< Non ti piace farti vedere così debole, vero? >>, le chiesi e lei mi fissò stupita.

Poi sorrise. << Riesci a capirmi così bene, Edward. A volte mi domando come fai >>.

<< So leggere molto bene il comportamento delle persone. Le so capire, specialmente se si tratta della mia cara mamma >>, ridacchiai punzecchiandola.

Mantenne il sorriso sforzandosi di non tossire.

Mi domandavo se questa tosse non fosse un sintomo della...

<< Edward? >>, mi richiamò. << Potresti, per favore... se non ti dispiace... >>, balbettò imbarazzata.

<< Hai sete, mamma? >>, dissi tirando a indovinare. Lei annuì debole.

Risi e mi avviai in cucina.

In quel momento dall’ingresso sentii mio padre entrare. Percepii un gran trambusto mentre chiudeva la porta. Poi capii il senso dello strano rumore. << Sono a casa! >>, esclamò col fiato corto. 

Spagnola, pensai inconsciamente. Un’ondata di angoscia mi invase mentre mio padre entrava in cucina con lo sguardo acceso.

Tossiva.

Stranamente quel suono mi parve la melodia di una marcia funebre.

 

19 Settembre 1918

 

L’infanzia è il regno in cui nessuno muore

[ Edna St. Vincent Millay ]

Volavo.

Una voce mi faceva volare.

<< Buona notte angelo mio... È ora di chiudere gli occhi e di conservare le tue domande per un altro giorno... >>.

Queste parole. Le parole che da bambino mi cullavano e mi portavano nel mondo incantato e meraviglioso di Morfeo. Un posto dove si sognava e non ci si doveva preoccupare di niente, e si volava spensierati. Anche ora mi sentivo bambino, perso nei ricordi dell’infanzia.

Quella ninnananna invece mi portava sempre nello stesso posto. Era lo stesso, ma ora Morfeo l’aveva abbandonato; vi erano solo angoscia e disperazione ed io vagavo in quel posto desolato e dimenticato. Non abbastanza cosciente, non abbastanza incosciente.

I miei timori erano fondati, e si erano realizzati in meno di pochi giorni.

Il morbo aveva colpito la città e già tante persone erano morte.

Stava morendo mia madre. Stavo morendo io.

Ero consapevole che Elisabeth mi stringeva tra le sue esili e deboli braccia. E cantava, cantava per me che non volevo aprire gli occhi. L’ultima volta che vidi il suo viso fu quando ci annunciarono la morte di mio padre.

Lei non aveva urlato, non aveva pianto. Nel suo viso pallido e scarno le uniche tracce di una sofferenza immensa. Ed io ero svenuto e non ho più voluto aprire gli occhi. Non volevo che il mio ultimo ricordo di mia madre fosse l’immagine del suo viso pallido e indecifrabile nell’eterna maschera della morte. Eppure rimaneva immobile e cantava e tossiva.

Mi abbracciava, mi dava conforto e versavo lacrime silenziose ed inutili.

Lei che aveva perso suo marito, il suo amore.

Lei che stava morendo e tossiva sangue.

Se sarebbe morta io l’avrei seguita a ruota. Nella vita non avevo più niente, se lei fosse morta il mondo sarebbe stato per me qualcosa di immensamente estraneo.

Volevo combattere per lei. Volevo morire insieme a lei. Il primo desiderio era quello che voleva Elisabeth. Il secondo era il mio.

Volevo dormire, ero troppo stanco solo per pensare. Ma avevo paura che poi non avrei più rivisto Elisabeth.

Desideravo solo la sua voce, il suo amore.

Ardevo di rabbia. E rimanevo immobile, di ghiaccio a subire il dolore.

Volavo sopra la landa desolata e mia madre cantava. << Dovunque tu andrai... Non importa dove sei... Non sarò mai lontana da te... >>.

Il mio debole cuore si lacerava a quei sussurri così dolci. Desideravo ritornare a quando ero bambino: quando mio padre era ancora vivo e noi due stavamo bene ed eravamo sereni.

Non desiderai altro per non so quanto tempo, agognando con tutte le mie forze quel tempo passato dove non c’era dolore.

Bramavo solamente rimanere sospeso in quel tempo per l’eternità, pur di prolungare gli attimi felici.

Nessuno avrebbe dovuto morire. Nessuno avrebbe dovuto soffrire.

Anelavo la sospensione di quei giorni spensierati.

La ninnananna mi trascinava lentamente giù e non volavo, stavo affogando. E piangevo.

<< Buona notte angelo mio... È ora di sognare... Sogna quanto sarà magnifica la tua vita... E certi giorni quando il tuo bambino piangerà come fai tu... forse ti ricorderai di me. E nel tuo cuore... >>, la sua voce era sempre più debole.

E non desideravo altro che sentire la sua voce. << Ci sarà sempre una parte di me  >>.

Furono le ultime parole che sentii prima di sprofondare lentamente nel mio incubo dell’incoscienza.

 

Un giorno ci separeremo...Non voglio, non posso vivere senza una ragione di vita. Ma la mia ninnananna continuerà ancora e ancora... Voglio solo la tua voce. Essa non morirà mai... Non mentire, mamma. Sta morendo come lo stai facendo tu. Proprio come te.

Riaprii gli occhi, ansimando e sudando freddo.

Mossi le mani e tossii più volte finché il battito del mio cuore rallentò.

Ero sul letto d’ospedale, in una camera scura e annebbiata; sentivo un respiro affannato.

Voltai lento la testa e vidi la figura ansante e tremante di Elisabeth sul letto. Ancora dolore.

Richiusi gli occhi angosciato da quella visione di morte.

 

Vagavo con la mente ripercorrendo la mia vita passo, passo che diventavo più grande.

Il viso di Elisabeth compariva sempre, nei più svariati ricordi di ogni tempo.

Sentivo che la mia temperatura corporea era salita ancora. Era altissima, quasi quanto mia madre.

Non sapevo da quanto stessi lì, con gli occhi serrati – come una difesa –  a divagare.

Ogni tanto sentivo qualcosa di freddo e duro sulla mia mano.

Non m’importava. Non mi dava nessun sollievo. Desideravo solo poter morire come forse aveva fatto mia madre.

Era già morta...

Volevo morire anch’io.

Ed invece, nel bel mezzo della mia preghiera silenziosa al cielo sentii delle voci.

Forse ero già morto.

Ma qualcuno tossiva. No, non poteva essere l’aldilà, c’era ancora quel dolore ai polmoni.

Poi i sussurri presero definizione come se stessi ritornando nell’inferno dell’ospedale.

<< Salvalo! >>, una voce rauca, il tono forte che riconobbi subito.

Ma non aprii gli occhi.

<< Farò il possibile >>, una voce solenne e ferma. Ero certo che mia madre fosse ancora viva.

<< Devi >>, implorò Elizabeth più debole, riprendendo fiato. << Devi fare tutto ciò che puoi >>, m’immaginai i suoi occhi smeraldo mentre diceva quelle parole. << Ciò che agli altri non è consentito. Ecco cosa devi fare per il mio Edward >>, la sua voce riprese intensità e divenne severa e implorante. Non capivo cosa volesse dire.

Era preoccupata per me. E lei stava morendo.

Poi di nuovo mi sembrò di cadere e le voci si affievolirono fino a scomparire.

Avevo ancora perso coscienza.

Non so quanto tempo passò. Un’ora, forse.

Mi sembrò un’eternità.

Ero consapevole del fatto che stesse cercando di salvarmi la vita. Era inutile.

Non avrei potuto vivere senza di lei. Mai.

Mi allontanavo ancora e affondavo e tutti i miei sogni diventavano sfocati come i pensieri.

Solo una cosa rimase intatta e solida nell’incoscienza confusa.

Il volto dolce, gli occhi verdi e giocosi, i capelli lunghi scompigliati dal vento leggero di Elizabeth.

Della mia mamma.

E nel tuo cuore ci sarà sempre una parte di me, la ninnananna risuonava nella mia mente.

 

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Note:

Malgrado questa sia la prima volta che scriva in questo fandom, non è la prima che scrivo per il fandom.

Ho voluto postare questa one-shot per iniziare perchè è stata la prima in assoluto che ho scritto su Twilight. Mi ci ero particolarmente affezzionata e anche se è un pò triste - in questo periodo scrivo molte cose tristi, mannaggia XD - e mi è sembrato un peccato non pubblicarla! B'è, che ci posso fare, quando l'ispirazione c'è... Ma ciancio alle bande... ehm, no non era così... bando alle ciancie!, ecco ora si ragiona; volevo sottolineare che la ninnananna che canta Elisabeth è la canzone di Billy Joel Lullaby (Goodnight My Angel), stessa canzone che ha usato la Meyer per la ninnannanna di Bella, nel libro.

To', coincidenza! XD

E, non me ne vogliate, vi prego!, ho usato anche un pezzo di New Moon, quello in cui Carlisle racconta a Bella quando la madre e Edward erano moribondi in ospedale. Il fato ha voluto che scrivessi questa one-shot proprio nel periodo in cui leggevo quel libro!

B'è, non trovo nessun altro argomento su cui tormentarvi... ah, sì, dimenticavo!

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