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Autore: Karyon    14/01/2010    1 recensioni
Ripensa al passato in una notte gelida di Gennaio, quando i pensieri sembrano come nebbia cristallizzata nell'aria.
Joe era come quei cuccioli ancora poco abituati alla vita in un mondo reale ed amaro... perfino limitato, per il modo esagerato in cui affrontava le cose; parlava troppo, si muoveva troppo, toccava troppo, sentiva troppo. Poteva leggerti dentro, sotto la pelle e al di là degli occhi e attraverso i nervi, fin dentro al cervello e ti toccava, ti abbracciava, ti annusava come un animaletto addestrato poco e male.
Questa fiction partecipa al "A year together" del Collection of starlight.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia partecipa al "2010 - A year Together" del Collection of Starlight.
Venite a dare un'occhiata! (L)

Il passato.
Il fottutissimo passato.
Quello che t'insegue - veloce - con passo fermo,
mentre tu barcolli come un imbecille al buio.
Quello che ti scorre - dentro - assieme al sangue,
nelle vene.

Solo il tempo,
il tempo cura tutte le ferite.
Che cazzata.

13 Gennaio ~ 279. Spiriti nella nebbia

That day



'Cause nothing lasts forever and we both know hearts can change…
La porta scrostata sul retro dell’affollato locale si aprì a riversare musica sul parcheggio improvvisato, stranamente vuoto.
Un colpo e la voce vibrante del cantante, mescolata ad altre mille tonalità eterogenee, tornò ad essere risucchiata verso l’interno, mentre fuori tutto rimaneva immobile, freddato in un’istantanea di oscurità e aria quasi palpabile.
Brian si alzò il colletto del lungo cappotto scuro, mentre strizzava gli occhi all’aria gelida della notte, poi bevve un lungo sorso della Coors che teneva tra le mani intirizzite.
Le luci sfolgoranti della Sunrise Boulevard sembravano scolorire, avvolte in un drappo invisibile di foschia – lontane e silenziose in quel weekend così rumoroso.
Un’improvvisa fiammata illuminò un viso squadrato e stanco, intanto che un oggetto dai bagliori metallici scivolava sotto al cappotto, nella tasca inferiore dei jeans scuri; aspirò lentamente dalla sigaretta che teneva in bilico tra indice e medio, sentendo finalmente la nicotina andargli in circolo, rilassandogli i nervi. Un leggero sentore di cannella lo avvolse, scivolandogli via la stanchezza dai muscoli, facendogli chiudere gli occhi – per un istante.
Quella notte, più di molte altre, aveva temuto di non farcela, di dover chiedere una sostituzione e ammettere di conseguenza la sua totale incapacità di lasciarsi indietro le situazioni. Perché, non poteva farci un cazzo, lui le cose con calma non sapeva farle; il suo cervello era ancora lì a contemplare i possibili significati della parola “aspettare”, mentre il suo cuore ancora non poteva capacitarsi del suicidio a cui si era sottoposto.
Solo un perfetto idiota poteva starsene lì, a farsi fottere la pelle da quel gelo micidiale e a cercarsi un silenzio che nemmeno voleva, ma di cui aveva palesemente bisogno come ossigeno nei polmoni; due giorni passati in apnea di vita – tornato a respirare solo allora, con quel fottuto freddo addosso e quei dannati pensieri in testa.
Nella quiete, la vibrazione che applicava sempre al cellulare quando era a lavoro risuonava come un richiamo nella nebbia… e una nuova seccatura per lui, visto che sembravano tutti affetti da incompetenza cronica, quella sera.
Con un profondo sospiro, afferrò il cellulare «Hm?» Mugugnò, appoggiando la bottiglia ormai vuota sul freddo asfalto.
«Rambo, dove diavolo ti sei andato a infilare?» La voce trillante di Joe lo investì e lui si portò – ormai automaticamente – la mano alla tempia.
«Cristo Jay, sono ancora in pausa! Dammi aria!»
Dall’altra parte, Joe si finse indignato «Lo so benissimo uomo, volevo solo sapere come stavi! »
Brian inarcò un sopracciglio, guardando l’orologio da polso «Sono via da cinque minuti e siamo a circa tre metri di distanza, se sei tanto preoccupato potresti muovere le chiappe…»
Joe lo interruppe con uno sbuffo sprezzante, seguito da alcune note di Iron Butterfly «Tesoro, con tutto il mio amore… l’ho visto il ghiaccio là fuori, non ho nessuna intenzione di gelarmi il culo!»
Brian lanciò il terzo mozzicone di sigaretta che ando a disegnare una parabola luminosa in aria e fece aderire la schiena alla parete scrostata, alzando gli occhi in cielo; quando se ne usciva con quelle stronzate, le soluzioni erano sempre due: assecondarlo, bruciando così un bel po’ di neuroni e di sanità mentale, o ignorarlo.
Quella particolare notte, sentiva di non essere in grado di sopportare un viaggio a Delirio city.
«A dopo, Jay» salutò, attaccando e spegnendo il cellulare.
In qualunque situazione si trovasse, la presenza di Joe gli assicurava un bel mal di testa che persisteva nel tempo – anche per giorni. Ricordava perfettamente come avesse faticato ad accettare persino la sua esistenza, nella sua vita: Joe era come quei cuccioli ancora poco abituati alla vita in un mondo reale ed amaro... perfino limitato, per il modo esagerato in cui affrontava le cose; parlava troppo, si muoveva troppo, toccava troppo, sentiva troppo. Poteva leggerti dentro, sotto la pelle e al di là degli occhi e attraverso i nervi, fin dentro al cervello e ti toccava, ti abbracciava, ti annusava come un animaletto addestrato poco e male.
Lui era stato abituato a ben altro, a crescere – per esempio.
Era stato abituato a contare solo e soltanto sulla sua persona, senza neanche avere il bisogno di chiedere agli altri, con la consapevolezza che farlo era da deboli. Lui non voleva esserlo – non poteva – perché era un uomo, perché era forte, perché alcune persone avevano bisogno delle sue spalle, per reggersi.
E ora quel posto era divenuto una benedizione e, al contempo, una maledizione.
Assediato da una famiglia sconclusionata, caotica, scorretta ma presente; realistica – tanto, troppo – e dolorosa, di quelle che vorresti abbandonare ma non puoi, che vorresti proteggere con ogni fibra del tuo essere, al costo di ammazzarti di fatica.
Brian guardò in alto, verso quel cielo scuro e freddo e senza stelle che Mia amava tanto perché era "vero e duro come la vita”, poi sospirò profondamente: odiava quel locale perché era una casa, poco calda e persino poco accogliente nel suo essere sempre in frenetico movimento, però era sua, sua e l’amava con tutto se stesso. Odiava quel posto perché lo aveva strappato via da un’altra vita, da una persona che gli mancava ma che gli spariva dai monitor della vita, come mal sintonizzata. Lo odiava, perché sapeva che non era più quella, la sua esistenza, non era più al fianco di una donna straniera dai mossi capelli mori e gli occhi profondi e una laurea in arte moderna, perché ormai era lì e voleva restarci, al fianco di quella famiglia sgangherata e di quel cucciolo troppo poco cresciuto.
Sorrise amaramente, mentre accendeva una nuova sigaretta e gettava volute di fumo nell’aria cristallizzata «Io qui che faccio il romanticone… bah, sei quello mi vede non me lo staccherò più dal collo…» borbottò a denti stretti, ma sorrideva nel rendersi conto di come sentiva e conosceva quelle persone che, ormai, gli erano entrati dentro.
«Ahh un eterosessuale romantico!» Urlò una voce dietro di sé e Brian alzò gli occhi al cielo.
Neanche volendo avrebbe potuto contare le volte in cui aveva anticipato le mosse degli altri – le sue in particolare.
Si girò e fissò un ragazzo biondo, più basso di lui, con una sciarpa appoggiata alla bell’è meglio sul collo sottile e un broncio incazzato sul viso.
«Oh, siamo vivi?» Grugnì.
Brian ghignò «Ti avevo detto che era più semplice venire…»
«Non cominciare a blaterare e entra, mi sto congelando il naso» replicò quell’altro, mentre se lo tirava per una manica.
«Che palle, poi ti lamenti che non mi prendo un momento di riflessione… beh, ora stavo riflettendo e su cose serie anche!» Lo prese in giro Brian, mentre si toglieva il cappotto e lo buttava a caso su uno dei divanetti della Playing Room.
Joe sbuffò «Sì, ci credo» fece, inarcando un sopracciglio, poi gli afferrò una mano tra le sue – più piccole e calde. «La prossima volta, vedi di riflettere in piena estate o, comunque, non con quella fottuta nebbia gelida che ti manda in ipotermia!»
Brian si lasciò un attimo contagiare dal calore di quei polpastrelli delicati (e da femminuccia) che lo massaggiavano, poi sibilò «Grazie, mamma!» Con voce fin troppo roca.
Due secondi dopo si ritrovò con la mano abbandonata a penzolare su un fianco e una capigliatura bionda che si allontanava «Ripeti dopo di me: non provarci mai con quello che ti salva la vita» gli urlò Joe, ormai quasi sparito tra la folla.
Brian rise – questa volta apertamente – e si passò una mano tra i capelli castani «E’ l’amore, non posso farci niente!»
«Vaffanculo!» Gli fece una voce rabbiosa, ormai lontana.

N/a

Che cosa orrenda.
No, che cosa davvero orrenda.
E’ stata pubblicata perché – essenzialmente – le idee per quel prompt sono scappate e, quindi, sono entrata in panico totale (come farsi dell’ottima pubblicità).
Se vorrete uccidermi vi capisco benissimo e accetterò la mia fatale sorte.
Per le note: la canzone iniziale “November Rain” dei Guns ‘n’ Roses – ma non dovrei nemmeno dirvelo. ù_ù
Brian, Mia e Joe sono miei.
E intendo, miei per davvero. No toccateli, potrei mordervi.
Nel caso qualcuno se lo chiedesse, sì sono gli stessi della drabble di Natale “Taste cinnamon”.
Bon, buona lettura!



   
 
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