You Don’t Care About Us
Stravolgimenti mattutini senza nome. Ho la neve bianca dentro gli occhi, le suole lisce da caderci e rompersi il collo senza star tanto lì a menarsela.
Insomma oggi potrebbe essere il giorno perfetto.
Invece no, ultimo giorno di scuola prima di vacanze mai richieste, risultati di compiti invecchiati sopra ai banchi verde agghiacciante. Ma wow! Ho l’entusiasmo di una centrale nucleare incamminata verso l’implosione.
Che in realtà poi avrei dovuto aspettarmelo, con tutte le stronzate che ho scritto quel giorno lontano e sconfitto. Il voto della mediocrità per eccellenza: un bel sei scarabocchiato in rosso, proprio sopra ad una firma indecifrabile che dovrebbe essere il nome della mia prof. Perché sì, un sei in italiano è proprio un marchio di mediocrità. E’ diverso prenderlo in matematica o in biologia. Quelle sono materie del cazzo in cui un sei è quasi motivo di orgoglio. Il sei in un tema di italiano vuol dire solo una cosa: insignificante. Quindi suppongo di essere questo, in fondo. Insignificante. Ci penso per un po’, realizzo che forse è il voto più azzeccato di dieci anni persi a scuola. Senza significato anche quelli.
Ecco Marco che mi sventola sotto il naso il compito con entusiasmo schifoso, quasi fosse suo, che cazzo. Un po’ di pietà! Ma la curiosità è forte, lancio uno sguardo così, di finta indifferenza, e i miei occhi si scontrano contro le forme tonde ed invitanti di un bell’otto obeso come i ciccioni americani.
Non lo so cosa guardo, dopo, forse il vuoto grigio di sempre fuori dalla finestra. Resta il fatto che mi prende un’angoscia insopportabile, e così realizzo, istantaneamente, di non farcela più davvero. Magari, nella vita, le conclusioni fottutamente importanti arrivano sempre dopo avvenimenti molto stupidi, chissà. Magari prima o poi lo scoprirò, o magari no.
Ho una voglia matta di andare al cesso, in ogni caso.
Eccomi, nello stesso posto, quello perfetto per me, in mezzo ai corridoi deserti e lucidamente sadici di una scuola che ancora fatico a riconoscere. Mi rifletto sui vetri, negli occhi della bidella baffuta appostata all’ingresso dei bagni, che infila il naso in culo a tutti quelli che passano per captare l’odore delle sigarette. Che possa morire di sinusite fulminante, o qualcosa del genere, un giorno.
Piscio. Prendo a ripetere dentro di me ogni processo e movimento, come fossi lì a mettere in atto un qualche rito sacro, e non a pisciare. Guardandomi il Gianni, nome proprio di persona con il quale nonna ha ribattezzato il mio pisello nella prima infanzia, rimpiango amaramente i giorni delle medie, in cui ero ancora relativamente normale, e passavo le mezz’ore a misurarmi il cazzo insieme ai miei fidatissimi amici nei bagni della scuola. Quella era vita. Totale inconsapevolezza di qualunque altra cosa all’infuori di vagine e peni. Un traguardo dal quale i tredicenni non dovrebbero mai elevarsi, perché dopo, è il suicidio. Quando inizi a fare pensieri un po’ più complessi, più articolati, finisci sempre o con il diventare un coglione per eliminare quel senso di vuoto assoluto che banchetta con le tue budella, oppure… beh, finisci come mio padre. Dopo aver considerato mentalmente le ipotesi, realizzo di non essere davvero convinto del mio attuale schieramento. Perché sicuramente non vivrò a lungo, con tutta questa tendenza ereditaria all’autodistruzione, ma per essere coglione, sono coglione, e anche parecchio, questione dimostrata dal fatto che sono qui a riempirmi di seghe mentali per merito di un cazzuto sei in italiano. Patetico, ecco.
Ma, poi… e’ così importante, non lo so, identificarmi? Capire? Perché capire se sono in continua evoluzione, se cambio con la velocità folle di un missile terra aria. E’ una stronzata. Sto perdendo tempo inutile ad inseguire una risposta insignificante. Come quel sei rosso semaforo.
Scoppio a ridere mentre infilo di nuovo il Gianni nelle mutande.
Mi sento leggero. Non lo so perché. Mi sento leggero.
Vorrei annunciarlo. Anche se naturalmente so che a nessuno importa davvero come posso sentirmi.
A nessuno importa di noi, naturalmente.
Elisa è nel corridoio davanti a me, quando esco per entrare in classe. Le guardo la forma delle spalle, della schiena, della vita. Ha una maglietta stretta e un paio di jeans normali, regolari. Non lo so. Mi sembra forse più bella, forse più Elisa del solito. Le arranco dietro fino a raggiungerla. Mi sorride, luminosa.
Decido di provare a sembrare un po’ più normale del solito, in suo onore. E in onore della mia nuova scoperta.
“Ehi”, faccio.
Lei si ferma, porta una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Sono magicamente consapevole della velocità del sangue nelle vene. Bum.
“Ehi”, risponde, piano. Quasi sussurrando.
“Che fai in giro?”, domando. Mica posso partire subito con un fottuto invito deprimente. No.
“Niente. Ho preso il numero dei genitori di una mia compagna di classe che ha dato di matto”, fa, sventolando un pezzettino di carta davanti al mio naso.
“Ah, ok. Senti, facciamo che mi aspetti fuori da scuola, oggi? Facciamo un pezzo di strada insieme, non lo so”, propongo.
Dirà di no. E’ matematico. Dirà di no.
“Ok, va bene. Ti aspetto”, risponde, invece, e sembra contenta. Sembra contenta.
Mi aspetterà.
Punto.
Mi aspetterà.
La bacerò.
*
Giulia Morazzoni è sempre stata una di quelle perfette che più perfette non si può. Una di quelle che riescono a tenere sempre i capelli miracolosamente in ordine. Una di quelle che hanno l’accessorio giusto al posto giusto, e tutto il resto. Io non potrei mai essere, per dire, una Giulia Morazzoni. I miei capelli si ribellano, il mio corpo ingrassa e dimagrisce come diavolo gli pare, ho la faccia sconvolta quando arrivo in ritardo e durante la lezione di fisica i pantaloni mi salgono sempre oltre le caviglie scoprendo i calzini. In ogni caso ho sempre creduto di essere decisamente poco normale rispetto a lei. Credevo che essere Giulia Morazzoni volesse dire essere normale. Perfettamente normale.
Normale un cazzo.
Oggi eravamo tutti tranquilli a seguire la lezione di storia. E per tranquilli intendo annoiati. Poi Paolo Besozzo detto Panzer ha pensato bene di iniziare a lanciare palline di carta in testa alla Morazzoni, che già dalla mattina era arrivata a scuola tutta scazzata per ragioni sconosciute al resto dell’umanità. Il fatto è che Panzer odia intimamente Giulia perché sa che non gliela darà mai, ma questo è solo quello che penso io, eh. Comunque, fosse stato un giorno come gli altri la Morazzoni avrebbe fatto il suo solito piantillo e si sarebbe preoccupata di far notare alla prof la cosa, per poi sibilare a Besozzo uno di quei vaffanculo ricamati ad arte che sono la sua specialità. Invece è rimasta zitta tutto il tempo, e continuava a ricalcare una parola sul foglio degli appunti, senza nemmeno spostarsi. Panzer non sopporta di essere ignorato, è qualcosa che lo manda fuori di testa, così ha cominciato ad insultarla a mezza voce, sporgendosi sul banco quando la prof voltava le spalle per tracciare infinite linee del tempo sulla lavagna, soffiandogli parolacce nell’orecchio. Naturalmente molti di noi stavano già guardando, ma tutti, proprio tutti, si sono risvegliati dal coma dello studente non appena la Morazzoni è scattata in piedi e ha afferrato Besozzo per i capelli. Ecco, è stato un momento in cui tante mie certezze si sono sfaldate come un castello di carte.
Giulia aveva la faccia stravolta da un pianto che fino a quel momento era rimasto nascosto dai capelli biondi, aveva la bocca serrata e le labbra bianche, gli occhi gonfi come quelli di un rospo. Ha cominciato ad urlare dopo un secondo di pausa gelata che ci aveva cementati tutti immobili in quello che stavamo facendo. Ha preso ad agitare la testa di Besozzo da un lato all’altro, avanti e indietro, strattonandolo per i capelli. E quello la graffiava, cercava di strapparle via le mani, sbilanciato in avanti e bloccato dal banco, ma non c’era verso di riuscirci. La Morazzoni era paonazza in faccia, orribile, e piangeva, piangeva. La prof e Massimo Crivelli si sono lanciati in avanti e l’hanno afferrata per le braccia e per la vita, l’hanno strattonata fino a quando non ha lasciato andare Panzer, che anche lui piangeva, ma per il dolore. Subito Giulia si è spenta, si è accasciata tra le braccia di tutti e due, come una bambola di pezza, ma continuando a lamentarsi e a farfugliare parole senza senso. Orribile. La prof l’ha abbandonata del tutto addosso a Marco e, terrorizzata, l’ha spedito in segreteria con la Morazzoni tra le braccia, gli ha strillato un paio di raccomandazioni e ci ha guardati tutti come se si aspettasse che le dicessimo che cosa fare. A quel punto mi sono alzata e ho proposto di chiamare i genitori per far portare via Giulia. Non ho nemmeno aspettato che la prof dicesse che andava bene. L’ho vista titubante e sono schizzata fuori dalla porta. Dopo una mezz’ora la madre è venuta a prendere Giulia e l’ha trascinata via scusandosi e assicurando che avrebbe chiesto un colloquio con la preside per discutere dei provvedimenti disciplinari. Besozzo è rimasto a scuola fino alla campanella, ma a guardare il crocifisso appeso sopra la lavagna.
Arrivo a casa con lo stomaco in subbuglio per tante cose. Per Giulia Morazzoni, per sua madre con gli occhialoni da sole, per Panzer e la sua fronte fucsia, per Kurt che mi ha accompagnata fino al portone di casa e mi ha dato un bacio freddo sulla bocca. Tutte queste cose mi travolgono, hanno l’effetto di sconvolgermi, rompere gli equilibri precari della mia testa. Non riesco a capire cosa provo, ad identificare. È tutto insieme. La vergogna di Panzer, la rabbia matta e la disperazione di Giulia, la mia angoscia, la malinconia di Kurt. Così non ce la faccio, non resisto. Scoppio a tavola e racconto tutto, parto chiedendo un sorso d’acqua e finisco con la Morazzoni trascinata da sua madre giù per le scale, che la tiene per il braccio come una bambina disobbediente. Mia madre mi accarezza la testa ed io la amo follemente.
Mio padre fa muovere un paio di volte le mascelle in un movimento che a me è sempre sembrato molto virile e che ho cercato di imitare spesso. Poi sputa fuori la notizia controvoglia, sofferente. Dice che il padre della Morazzoni lavora due piani più su in azienda, tra i dirigenti. Che si è dovuto dimettere due settimane fa. Che i dottori gli hanno detto che camperà al massimo un altro mese. Che gli hanno detto “metastasi epatica in fase avanzata”, e che in quella famiglia hanno ormai smesso tutti di vivere.