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Autore: Happy_Pumpkin    22/01/2010    2 recensioni
Un saxofonista irlandese, una fidanzata psicopatica, una checca isterica e il suo rumoroso fidanzato. Tra i locali notturni di Londra e i ricordi delle villette a schiera nel Lussemburgo, un variegato viaggio di pochi giorni in un ipotetico spaccato di vita di Brian Molko.
Fiction interamente dedicata a Hiko_Chan; auguronissimi di buon compleanno
Genere: Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Brian Molko, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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God put a smile upon you face


Gave detestava lo squillo del telefono. Era un trillo insopportabile, netto e monotono, quasi peggio della sveglia all'alba; insomma, effettivamente era l'alba e si stava anche svegliando, seppure naturalmente controvoglia.
Nel tentativo di districarsi dalla massa di coperte e lenzuola, scoprì che Arja aveva beatamente steso una gamba sul suo torace. Invece un braccio, chissà come, era piombato direttamente sopra la sua testa, finendo schiacciato tra il capo e la spalliera del letto. Dopo essersi liberato dall'ingombrante fidanzata, Gavin camminò a piedi nudi sulla moquette, seppur faticando a trovare l'equilibrio e, cosa non di poca importanza, ad aprire gli occhi.

Dopo aver sbattuto contro lo spigolo della cassettiera entrò nel piccolo soggiorno, dove schivò il divano solo perché il rosso acceso della tappezzeria si sarebbe notato anche a chilometri di distanza e con una cataratta agli occhi. Quando afferrò la cornetta del telefono, ringraziò di non aver trovato in giro le mutande striminzite e leopardate di Val, visto che gli aveva fatto l'immenso piacere di restare a dormire da Christen e smaltire da lui i postumi della colossale sbornia al Way Out.

“Ponto?” strascicò dimenticando qualche lettera per strada.
“Sono Brian.” annunciò una voce neutra, più metallica del solito.
A Gavin bastò quel tono per intuire, seppure con tempi più ritardati del solito, che qualcosa non andava o, se andava, non era sicuramente per il verso giusto.

“Che succede?” domandò, mentre il mal di testa post-sbornia veniva accantonato in un angolo.
Un sospiro, talmente breve da durare meno di un battito di ciglia.
“Annie ha tentato il suicidio. E' in rianimazione, le hanno fatto una lavanda gastrica perché ha inghiottito pasticche su pasticche.” spiegò. Non tradiva emozioni, sembrava un automa con la frase registrata da ripetere all'infinito; era lo stesso modo di fare sicuro di sé e impersonale che adottava nelle interviste scomode, per difendersi da ciò che poteva uscire dalla sua bocca.
Brian, comprese Gave, si stava tutelando da se stesso in quel momento.

“Oh... – non seppe cosa dire, ogni sillaba gli rimase incastrata tra la faringe e il palato – ... cazzo.”
Si lasciò cadere sulla sedia scricchiolante accanto al mobiletto, schiacciando senza troppa cura la rubrica che in teoria sarebbe dovuta restare nel cassetto.
“Già – convenne Brian – l'ho pensato anch'io.”
“E adesso? C'è possibilità che migliori, che...”

Cos'altro, ancora, davvero non lo sapeva. Si trovò spaesato, persino piccolo e meschino, seduto in mutande su una sedia malandata. Annie, in qualche ospedale, era su di un letto, sospesa tra la vita e la morte; decisamente, qualcosa quel giorno doveva essere stato montato al contrario.

“Mi piacerebbe saperlo, sai – si interruppe un istante, poi riprese – siamo alla clinica, quella dove era stata ricoverata l'ultima volta.”
“Vi raggiungo subito, il tempo di vestirmi e sarò da voi.”
Non ci furono smentite, né cortesi rifiuti; Brian annuì, dall'altra parte del telefono, e sussurrò uno stanco: “Grazie, Gave.”
Riattaccarono quasi in contemporanea, lasciandosi entrambi andare ad un sospiro. Solo che nessuno dei due poteva saperlo, visti i chilometri di distanza a separarli.

Quando rialzò le palpebre, dopo aver contemplato i propri piedi nudi, Gavin vide Arja sostare di fronte a sé, con le gambe storte, la pelle pallida e indosso un top che mostrava il seno inesistente e le braccia piuttosto lentigginose.
“Gave?” lo richiamò, scuotendogli una spalla.
“Annie è in clinica. Sta... male.”

La finlandese non disse nulla. Annuì un istante, infine sparì camminando rapidamente, per poi ritornare di fronte al fidanzato e lanciargli i primi vestiti che le erano capitati sotto mano.
“Avanti, stare lì seduto non servirà a nulla. Sbrigati a vestirti, chiamiamo un taxi e andiamo da Brian e gli altri.”
Chissà perché, Arja già immaginava che ci fosse Brian ad aspettarli. Quello che era ovvio, a Gavin appariva sempre come un'inaspettata novità.

Guardò un istante la giovane donna saltellare su una sola gamba, intenta a infilarsi una vaporosa gonna multicolor, dirigendosi contemporaneamente in camera. Allora l'irlandese si alzò a sua volta cercando di vestirsi alla meglio, anche se in quel momento sarebbe andato volentieri con indosso un pigiama a quadri e un paio di pantofole, per quanto gli interessava.

Eppure, mentre inghiottiva un muffin pur non avendo fame, mentre si lavava alla buona i denti o si riassettava i capelli spettinati, continuò a non capire perché Annie avesse deciso di farla finita. Sentì che in qualche modo lei aveva cercato di chiamare tutti loro, di contattarli e comunicare la sua folle disperazione, ma nessuno era riuscito a recepire quello che lei realmente voleva.

Si morse un labbro, arrivando all'amara conclusione che, forse, quell'ingranaggio era rotto da molto prima, solo che non se ne erano mai accorti.

*

La clinica aveva un odore spocchioso, come amava dire Arja. Uno di quegli odori in parte asettici, in parte talmente esenti da qualsiasi cosa ricordasse la vita vera da sembrare fittizi.
Bisognava pagare per ricevere cure e attenzioni, anche tanto; Gave, stretto al suo magro stipendio e alle mance dei locali dove suonava, nell'entrarci avvertiva una sorta di orticaria fastidiosa, in parte forse dovuta anche alla cera che rendeva i pavimenti perfetti lisci come la pelle di un bambino, nonché potenzialmente pericolosi.

Dopo aver affrontato infermiere che squadravano lui e la sua ragazza alla stregua batteri da debellare, ottennero le informazioni necessarie per capire in linea di massima presso quale ala della clinica recarsi. Si stupì, strada facendo, di quanto quel luogo potesse essere grande e allo stesso tempo anche del conto in banca piuttosto florido di Annie, contrariamente alle sue aspettative.

Arja non si perse d'animo e dando un affettuoso pizzicotto sulle guance lentigginose di Gavin lo incoraggiò. Insieme entrarono in un atrio sobriamente arredato, ancora odoroso di un pulito troppo impeccabile.
Poi l'irlandese trapiantato nel Lussemburgo scorse Brian, seduto presso una delle poltrone con Stefan e Steve accanto. Si stupì nel vedere anche quest'ultimo, visto che da un paio di giorni a quella parte non avevano avuto occasione di incrociarsi.

Steve in effetti era una di quelle persone all'apparenza disorganizzate: dall'aria un po' sfatta, la parlata biascicata di chi fosse in perenne stato d'ubriachezza e la faccia da stordito, una sorta di marchio di fabbrica. Eppure quando serviva riusciva ad essere presente, coi suoi tempi e non mancando di qualche risata irrispettosa che ogni tanto si lasciava scappare.
Secondo Gavin, Steve Hewitt doveva essere ubriaco dalla nascita, a conti fatti.

Ma siccome non aveva prove che al posto del sangue possedesse alcool, non ebbe altro da pensare che fosse nel suo carattere più intrinseco quello di apparire completamente, inesorabilmente, partito per un altro pianeta.
Nel complesso era una brava persona e un ottimo amico, insostituibile nelle volte in cui si arrabbiava di brutto e finiva per scannarsi con Brian. Insieme, quei due offrivano ore di intrattenimento garantito.

Brian stava scompostamente seduto su di una poltroncina, con le gambe accavallate stese irrispettosamente sulla sedia di fianco e un braccio che gli copriva il volto nel misero tentativo di coprirsi dalla vista del sole; era evidente che avesse passato l'intera notte sveglio.

“Eccoci.” annunciò Gavin semplicemente.
Andò a salutare Stefan che gli batté una pacca sulla spalla, abbracciandolo:
“Ehi, ti saranno un po' girate a venir su così presto di mattina.”
“No, figurati, ero troppo stordito per incazzarmi. Al massimo rischiavo solo di presentarmi con indosso le pantofole ad orsacchiotto e la camicia hawaiana.” sdrammatizzò, facendo sorridere i presenti.

Steve si portò una ciocca di capelli scuri dietro le orecchie e lo andò a salutare a sua volta, scombinandogli affettuosamente i capelli.
“Merda, che situazione...” borbottò incredulo.
Brian si alzò in piedi stiracchiandosi e gesticolò, con una strana pacatezza:
“Lo è. Gave, mi accompagni a prendere un caffè al distributore?”
“Mi piacciono le tue domande retoriche. Ti accompagno a prendere un caffè, allora.” acconsentì, stropicciandosi gli occhi.

Percorsero un corridoio laterale e finirono in un angolo dedicato al ristoro, dotato di qualche tavolo perfettamente allineato e una serie di distributori che vendevano cibarie che andavano dalle merendine caloriche ai thé deteinati, una serie di splendidi controsensi in un edificio tutore della salute.

Brian offrì a Gave un caffè e colmò la tazzina in plastica di zucchero, rigirandola con calma senza parlare. Finché improvvisamente non disse, tenendo il cucchiaino come se si trattasse di una sigaretta:
“Sai, pensavo a parecchie cose. Una fra queste è che dobbiamo ringraziare di non essere ancora così famosi. Immagina per un solo istante le voci che sarebbero girate su di noi: i Placebo al completo vanno a disintossicarsi.”
“Pare che le terapie di gruppo funzionino meglio.” scherzò istintivamente Gavin.

Di fronte a quella battuta improvvisata, Brian scoppiò a ridere, sgranando appena gli occhi grandi. Alzò infine le spalle e confermò:
“Giusto, in effetti – sorrise, tirando poi un sospiro piuttosto pacato – non siamo ancora nessuno. Ci conoscono in pochi e la musica che facciamo non è delle più facili da ascoltare; non è uguale quelle canzonette pop degli Oasis, per intenderci.”

Eccolo che tornava a polemizzare su gruppi e persone. Musicalmente parlando, Brian era dotato di un'insana acidità praticamente nei confronti di tutti; si salvavano davvero pochi musicisti, tra i quali gli U2 solo perché – come segretamente sospettava Gavin – da poco avevano volato assieme ai Placebo sul loro aereo privato.

“Mmmh, ok, Noel e Liam ti ameranno spassionatamente dopo quello che dici su di loro.”
“Che si fottano.” borbottò noncurante.
“Giusto – confermò Gave – e poi? Dovevi parlarmi d'altro o solo evitare che comprassi il prossimo disco dei fratelli Gallager e soci?”
“Se l'avessi comprato te lo avrei bruciato personalmente. Eccetto questo, ho una richiesta da farti.”

Lo fissò intensamente, accartocciando tra le mani il bicchiere ormai vuoto. Tra le dita, teneva ancora il cucchiaino.
“Sarebbe?” Chiese Gave, più curioso che preoccupato, secondo la sua natura.
“Devo andarmene.” confessò a bruciapelo, guardando distrattamente il soffitto della stanza quadrata, quasi potesse fuggirvi oltre.

Gavin tacque per un istante. Per arrivare a dirgli una cosa simile in un momento tale, Brian doveva avere realmente la necessità non solo di non essere lì, ma di trovarsi il più lontano possibile da Annie. Forse perché Hope Davis era il simbolo di quello che il ragazzo poteva diventare, il simbolo di un'esistenza passata dietro le droghe, i problemi con l'alcool, l'incapacità di agire per potersi salvare.

Lei non era riuscita a reggere il peso di ciò che aveva creato con le proprie mani, il groppo sulla schiena che era la sua vita e la consapevolezza di aver fallito, di aver gettato quanto di più caro aveva in un cestino che non avrebbe potuto svuotare.

Poi, anche se sarebbe stato difficile da ammettere, c'era in fin dei conti quell'amore tanto tormentato e cercato: le dipendenze ai farmaci, ai vizi, glielo avevano fatto dimenticare, rendendoli indifferenti.
La droga rende incredibilmente egoisti.

“Dove andiamo?” chiese Gavin con strepitosa nonchalance, gettando nella spazzatura la tazzina in plastica per poi fissare attentamente l'amico.
Questi finse di pensarci, alzando le spalle, ma aveva tutta l'aria di chi sapeva cosa volesse fare:
“In Lussemburgo. Sai, ho bisogno di tornare a casa, Gave.

Pronunciò il suo nome con voce quasi strozzata; Brian faticava a parlare, a darsi un tono, a mantenere quell'aria da ragazzino strafottente e provocatorio. Gli occhi grandi dal trucco sbavato, lo smalto intaccato e i capelli disordinati non erano dettagli che lo rendevano grandioso come nei concerti o nei video, nei quali il caos era progettato con cura. Era una persona sfatta, quella mattina, che sapeva di sigaretta mischiata con l'odore d'ospedale.

Fu in quel momento che Gavin comprese di avere il destino segnato: era una sorta di forza sconosciuta che gli impediva di farlo fuggire come avrebbe voluto. Più intimamente, l'irlandese temeva di essere lui stesso l'ostacolo insormontabile che gli impediva di rifiutare un favore piuttosto scomodo.
“Va bene – confermò lui semplicemente – ci torneremo insieme allora.”

Poteva mandare a fare in culo i suoi impegni, in fondo. La rivista gli avrebbe dato una di quelle strigliate coi controfiocchi per l'assenza improvvisa da lavoro, ma ne valeva la pena e, in tutta onestà, in quell'occasione non aveva alcuna voglia di pensare alle conseguenze.

“Ehi, non sono ancora abbastanza famoso da avere un jet privato, sappilo.” ribadì il cantante, accennando ad un sorriso scherzoso.
“Peccato, credevo che Bono ti avesse lasciato il suo. Vorrà dire che voleremo come i comuni mortali, d'altronde penso che in un aereo verso il Lussemburgo ben pochi facciano caso a Brian Molko.”
“Aspetta un paio d'anni e mi riconosceranno anche da quelle parti.” asserì, puntandogli un dito contro.

Gavin sorrise e alzò le spalle, rassegnandosi all'idea che sarebbe anche potuto accadere. A dire il vero gli sarebbe spiaciuto, da una parte, se i Placebo avessero ricevuto un successo tale; già in quegli anni le cose erano cambiate parecchio: era diventato difficile uscire con loro, incontrarli o anche solo avere il tempo materiale per scambiare quattro chiacchiere.

Dall'altro lato però augurava ai tre ogni bene possibile, convinto che un ritaglio di tempo per vedersi ci sarebbe sempre stato. Ringraziò solo che avessero lasciato a piedi il precedente batterista, prima che i conflitti interni degenerassero in qualche omicidio.

Improvvisamente, prima di tornare dagli altri Gavin ammise:
“Non mi sarei aspettato che un giorno mi avresti proposto di tornare lì.”
“Nemmeno io – confessò l'amico, passandosi una mano tra i capelli – però per una volta ho riflettuto parecchio. Non ho buoni ricordi di quel posto, tantomeno delle persone che ci abitavano o abitano tutt'ora, eppure necessito di tornare un attimo sui miei passi. Sai, forse se non avessi odiato così tanto la città e non avessi avuto un rapporto che, eufemisticamente, definirei conflittuale con mio padre a quest'ora non sarei qui; magari mi trovavi in banca, in giacca e cravatta.”
Fece quell'ultima proposta alzando le sopracciglia divertito.

“Accidenti, che brutta immagine!” commentò Gavin, ridacchiando.
“Pessima – convenne con un sorriso serafico – per questo credo di dover ringraziare il Lussemburgo, in fondo è pur sempre casa mia.”
“Casa...” mormorò l'irlandese, infilando le mani in tasca.

Cosa voleva dire esattamente la parola casa? Comunicava un senso di calore, di affetto: era un porto sicuro nel quale rientrare e trovare rifugio, da ogni fallimento, da ogni sconfitta della vita; oppure, una gloriosa arena dove festeggiare le vittorie, i successi e i traguardi.

Era un perno.
Gavin non aveva perni, lui non era fatto per avere un punto fisso, così come Brian d'altronde. Però ritornare alle proprie origini, alla fuga dal primo unico e vero nido, avrebbe fatto bene ad entrambi che, alla stregua di tutti gli altri, erano inconsapevolmente alla ricerca di certezze.

*

Brian non aveva un buon rapporto con le segreterie telefoniche: o dicevano troppo, come nel caso dei messaggi minatori sparsi sul nastro, oppure non dicevano assolutamente nulla, lasciando un karmiko silenzio quanto a unico segnale di vita da chiunque avesse tentato di chiamarlo.
Nell'ultimo caso, il silenzio di Annie che lo aveva cercato – stranamente – un'unica volta, da una parte lo irritava, dall'altra lo terrorizzava.

Era un po' vittima di entrambi i sentimenti quando Brian aveva deciso di richiamarla: non voleva niente in particolare da lei, nessuna spiegazione per non averlo più cercato e tantomeno per non avergli lasciato il solito messaggio furente in segreteria. Gli sarebbe anche bastato un semplice “Come stai?” borbottato oltre la cornetta, davvero.

Stranamente non pretendeva altro. Forse si sentiva in colpa, forse aveva bisogno di chiederglielo perché, si rese conto, né lui né lei si erano mai posti quella domanda tanto banale. Probabilmente era tardi, ora che si trovavano spiaggiati tra gli ostacoli della vita, ma magari sarebbe stato sufficiente per incoraggiarsi a vicenda e riprendere ad avanzare.

Così, nel cuore della notte, il cantante aveva chiamato. Il giorno prima era andato a festeggiare con Gave e gli altri, mentre Annie era rimasta a casa; ora, sperava che fossero a casa entrambi così da trovarsi.
Il telefono squillò, noioso e monotono, tante volte: più squillava e più un'angoscia isterica iniziava a salire per la gola secca di Brian, bloccandosi lì, sul palato, schiacciata dalla lingua immobile.

Anche la saliva residua non voleva saperne di andare giù e sparire definitivamente: languiva tra i denti, in attesa che un colpo deciso la gettasse via. Nulla, ogni sforzo era inutile, perché Brian era come paralizzato dall'attesa snervante, dal suo bussare ad una porta che non voleva aprirsi e lui, stupidamente, non capiva cosa ci fosse dietro essa.

“La Manica – mormorò qualcuno al suo fianco – il mare sembra un'immensa piscina.” l'acuta osservazione del paesaggio si risolse con un paragone piuttosto infantile.
Brian accantonò i suoi pensieri e si sporse appena vicino a Gavin, così da intravedere il mare; sorrise, fingendo un certo stupore:
“Wow, trovi sempre il modo di divertirti, eh?”
“Si fa quel che si può.” rispose l'irlandese con una scrollata di spalle.
“Amo gli uomini che si dedicano al fai da te.” ammise, accavallando elegantemente le gambe.
“Lascerò correre sul doppio senso delle tue parole.” sbottò, voltandosi e riprendendo a guardare fuori dal finestrino.
“Oh, ma senti, senti!” esclamò il cantante, scoppiando a ridere.
Anche Gave sorrise, eppure mascherò bene l'accenno di risata spalmando la faccia contro il vetro rinforzato.

Volare con l'aereo non gli dispiaceva, anche se era da tanto tempo che non aveva occasione di farlo. Generalmente per le feste importanti tornava dai suoi, riprendeva i contatti con la sua famiglia, nonostante i rapporti col padre rimanessero sempre freddi e distaccati.

Sua madre si preoccupava sempre per la salute di quel giovane figlio privo del tetto famigliare e ogni volta che tornava lo strapazzava, come se servisse per impedire che se ne andasse ancora. Altro fatto non indifferente, sua mamma adorava Arja: chiedeva sempre di lei, di quello che faceva e se mai si decidesse a sposare il figlio fuggitivo.
Ogni volta Gave le dava le stesse risposte: “Sì, sta benissimo; sì, continua a fare l'avvocato per i diritti civili; no, non ci sposiamo.”
E lei, delusa, si limitava a rispondere con il tono di una bambina priva delle caramelle: “Capisco.”

Lo stesso rispondeva anche quando capiva che, no, non c'erano nemmeno bambini-nipotini strapazzosi all'orizzonte. La sua vita era tutta un'attesa: che il figlio si sistemasse, che finalmente mollasse quella casa editrice per dedicarsi a scrivere un libro decente e, insomma, che tornasse a casa, a condurre una vita normale lontana dalla sconosciuta Londra.

Oh, sì. I suoi sapevano che il loro figlio era omosessuale.
Sua madre preferiva definirlo come omosessuale potenziale. Amava illudersi che l'omosessualità fosse una cosa passeggera, una sorta di momentanea deviazione dovuta all'assenza di ragazze adatte per quel bellissimo e meraviglioso giovane che era suo figlio.

Quando anni dopo lui le aveva telefonato, avvisandola tra le altre cose che si era messo con una ragazza, Erin era scoppiata a piangere: aveva singhiozzato mormorando gioiosamente che grazie a un miracolo suo figlio era guarito, allontanandosi dalla strada sbagliata per rientrare in carreggiata.
Appena dette quelle cose, Gave aveva riattaccato senza pensarci due volte e non l'aveva più chiamata; era stata lei, un mese dopo, a cercarlo e a chiedergli come stesse.

Suo padre, beh, suo padre era un'altra persona: aveva capito anche troppo bene che suo figlio non avrebbe mai smesso di provare attrazione per gli uomini. Aveva capito bene anche che Gavin era confuso, indeciso, capace esclusivamente di prendere la prima strada a portata di mano, senza pensare alle conseguenze o a intrighi di particolare sorta.

Questo era accaduto nel fidanzarsi con Arja: una persona che amava, indipendentemente dal sesso o dalla nazionalità. Perciò nella testa di suo padre la fidanzata era un ibrido, una sorta di persona asessuata forte di un carisma a quanto pareva eccezionale.

“Chi l'ha trovata?” chiese Gavin all'improvviso, guardando fisso negli occhi Brian che – lo sentiva – probabilmente lo stava già mandando a quel paese.
“Non io.” si limitò a rispondere; forse amareggiato, forse stizzito. La verità era che Annie era stata rinvenuta a terra in stato di incoscienza, con gli occhi riversi e di fronte a sé una parete, con scritte parole che non aveva avuto la forza, il tempo o il coraggio di pronunciare.
Parole che erano arrivate a Brian, il principe senza regno a cui erano destinate.

Gavin annuì e poi, improvvisamente, strinse la mano del suo amico d'infanzia: non così forte da stritolargli le dita ma nemmeno tanto debolmente da risultare invisibile. Brian non si sentì soffocato da quella stretta, per una volta, bensì provò un certo conforto, la certezza di un appoggio. Strinse a sua volta quelle mani più pallide delle sue, coi calli a forza di scrivere sulla tastiera e prive dello smalto alle unghie tagliate cortissime.

Passarono in quel modo gli ultimi minuti del volo, senza guardarsi o contemplare lo spettacolo suggestivo dell'atterraggio che ricordava una sorta di gigantesca attrazione odorosa di pericolo. Si tenevano stretti, ripensando a tante cose.

Persino alla fortuna di aver trovato il giorno prima un conoscente di Brian che, lavorando presso un'agenzia di viaggio, era stato in grado di procurar loro in tempi record biglietti d'andata e ritorno per il Lussemburgo.
Certo, Gavin avrebbe preferito se questo miracolo fosse accaduto prima di spendere il pomeriggio in redazione a telefonare a destra e a manca, tra aeroporti e agenzie, in cerca di biglietti – anziché lavorare alla correzione di varie bozze, come avrebbe dovuto fare.
Ma, d'altronde, non si poteva voler tutto dalla vita: era ancora tanto che la Dea Bendata li avesse aiutati, anche se leggermente a scoppio ritardato.

La città del Lussembrugo si beava della sua stessa quotidianità; come in un filmato tutto uguale, la pellicola scorreva immutabile, mostrando le stesse identiche diapositive: tante casette a schiera dai giardini curati, ponti storici con dettagli rifiniti, chiese e parchi privi di ogni qualsivoglia pericolo. Era un bel posto in cui vivere, se si cercava non tanto la normalità in sé quanto la staticità. La garanzia, insomma, che alzandosi il mattino seguente si sarebbe trovata la stessa aiuola del giorno prima, lo stesso traffico ordinato dell'ora di punta, gli stessi agenti di pattuglia per le eleganti strade.
Poi, certo, come tutti i posti assolati anche la città aveva le proprie zone d'ombra, per quanto ben diverse dai mari neri appartenenti alle Metropoli affollate oltreoceano.

L'aeroporto distava sei chilometri dal Lussemburgo, dunque il viaggio in taxi per arrivare fino in città non fu particolarmente lungo o pesante: era piacevole viaggiare trasportati da un autista lungo le strade scorrevoli della cittadina, riscoprire come in un incantesimo luoghi già visti, esplorare angoli in passato poco considerati.

Brian e Gavin passarono diverso tempo a camminare. Alla stregua di quando erano bambini, anche in quell'occasione marinavano le loro responsabilità, fuggendo da esse per evitare di pensarci.
Ritrovando i negozi, le persone, l'aria immutabile di diversi anni fa fu come se in qualche modo avessero finalmente l'occasione di svuotare la mente: niente più preoccupazioni, dolori, ansie o problemi. Ma poi, quando il ricordo inziava a sbiadire, subdolamente tutto ciò che avevano tentato di dimenticare ritornava; lentamente, nella stessa maniera di una spina infilata sotto pelle: più si tentava di toglierla, più si affossava nella carne. E pungeva, per quanto piccola e quasi inconsistente fosse.

Entrarono infine in un pub all'angolo. Uno di quei posti tranquilli e senza troppe pretese, dove spesso si trovava eccellente compagnia per una bevuta. Faceva un certo effetto vederne di aperti anche all'ora di pranzo, anche se effettivamente vi era un regime diverso rispetto all'Inghilterra, dove i pub erano sacrosanti.

Quando Gavin e Brian vi entrarono, sentirono immediatamente l'odore di legno del bancone, degli alti sgabelli e del pavimento usurato dal passaggio di camerieri e clienti. Sorrisero entrambi nello scorgere un vecchio giradischi all'angolo. Le note di “Here I go again loving you” degli Shadows  risuonarono tra le foto polverose che immortalavano avventori ormai anziani, trofei con qualche ragnatela di troppo e uno specchio decorato da svariati ritagli di giornale, risalenti a un periodo lontano.

Il tempo pareva essersi fermato, la stessa musica degli anni '50 che in quel momento risuonava apparteneva ad un'altra epoca. Eppure le chitarre, la melodia ipnotica iniziale, le parole... era tutto così accattivante da sembrare essere stato creato apposta per chiunque entrasse.

Mentre Brian pagò due Guinness, Gavin dette un'occhiata in giro con le mani infilate nei jeans. Presso il bancone, un tizio guardava una televisione agganciata al muro, con le frequenze che spesso e volentieri saltavano. Una ragazza dotata di grembiule lavava le stoviglie, muovendo forse istintivamente il bacino al tempo della musica, le cui note ondeggiavano tra le pareti di mattoni a vista.

Brian prese le due bottiglie  per il collo e ne porse una a Gave, per poi farle toccare a vicenda. Tintinnarono appena e la schiuma bianca all'interno si agitò. A quel punto bevvero entrambi una sorsata, prima di dirigersi fuori con la bottiglia in mano con tutta l'intenzione di passare quelle ore che rimanevano al meglio o, almeno, così speravano.

Nel momento in cui Brian appoggiò la mano sulla porta, però, il proprietario del locale li richiamò, così che due dovettero voltarsi e attendere. L'uomo era un signore anziano, dalla corporatura robusta e le mani grosse, callose, di chi aveva lavorato tutta una vita. La barba tagliata corta era un po' diradata, al pari dei capelli brizzolati; gli occhi, invece, erano luminosi e attenti, capaci di ricordare ogni singola persona che fosse passata per la porta di ingresso.
“Scusate ma... non vi ho già visto da qualche parte?”

Brian e Gave si scambiarono un'occhiata divertita. L'irlandese alzò le spalle ma Brian non mostrò tanto apertamente il suo scetticismo, al contrario: “Dove avrebbe avuto il piacere di vederci?”
L'uomo scoppiò a ridere e batté un pugno sul bancone: “Ma certo! Voi eravate quei due ragazzini che ogni tanto passavano lungo la via. Mi capitava di vedervi verso pranzo, quando buttavo fuori la spazzatura. Certo, adesso siete un po' cambiati però quegli sguardi... accidenti, vi sentivate così importanti quando saltavate la scuola!”

Brian aggrottò le sopracciglia e assunse quell'aria un po' nauseata che aveva appena percepiva che qualcosa non gli andava propriamente a genio. Gavin invece si voltò verso la vetrata semi-oscurata del locale e scrutò diversi istanti al di fuori.

Sorrise quando ammise: “E' vero, allungavamo sempre la strada di qui per non farci beccare.”
“Ah, ecco, sapevo di non sbagliare allora! Questi vecchi occhi mi sono ancora d'aiuto qualche volta.” ridacchiò il signore, infine prese due bicchieri e li poggiò sul bancone.
“Complimenti per la memoria, farei carte false per arrivare tra un paio d'anni e avere ancora tutti i neuroni funzionanti.” disse Gavin con convinzione.
“Non contarci troppo.” replicò amabilmente Brian, storcendo la bocca in una leggera smorfia che poi si distese in un sorriso.

Il proprietario del pub prese una bottiglia di liquore tra quelle gelosamente custodite su uno scaffale un po' isolato ed esclamò:
“Avanti, ragazzi, prendete del buon whisky  d'annata, offre la casa!”
Al sentire il nome Whisky, Gave si ricordò della gatta rimasta nelle mani di Val e Christen. Scosse la testa e si limitò a dire: “No, grazie, gentile davvero ma mi accontento della birra.”
Non ci teneva a dover subire una lavanda gastrica proprio in Lussemburgo, con tutte le volte che l'aveva evitata a Londra.

Brian confermò e aprì la porta, per poi proporre: “Offra i nostri bicchieri alla ragazza che lavora con voi e al signore che tenta di guardare un canale che l'antenna non riuscirà mai a prendere.”
Il barista, perplesso, li fissò andarsene. Borbottò qualcosa, incredulo, poi alzò le spalle e dette una botta al televisore, sporgendo il whisky alla sua lavorante e allo sconosciuto cliente fisso che cercava canali fantasma. Sorrise, quando vide camminare in strada quei ragazzi che anni fa erano più giovani e probabilmente meno esperti del mondo. Chissà, adesso, cosa avevano accumulato sulle spalle.

Qualche metro più avanti, Brian e Gavin scorsero il parco cittadino principale. Lo costeggiava una strada curata, affiancata da un muretto sobrio che cingeva i caseggiati vicini. A quel punto, con in mano la bottiglia di birra, si sedettero su una delle tante panchine riverniciate da poco.

“Ho una teoria – annunciò infine Gave, annuendo – è da un po' che ci pensavo.”
“Sentiamo, è l'alcol a galoppare sui tuoi neuroni, in questo momento?” ironizzò Brian, per poi ridere amabilmente della sua stessa battuta.
“No – replicò, senza perdere la compostezza – credo che Dio, Buddah, Allah, Javeh o chi per esso abbia avuto un buon motivo per permetterci di sorridere.”

Cadde il silenzio.
Brian aggrottò le sopracciglia, per poi inspirare pazientemente e fare presente: “Temo di essermi perso al no, Gave.”
L'irlandese giocò distrattamente con l'etichetta della guinness e quando rialzò gli occhi scrutò l'amico al suo fianco.

“Possiamo sorridere, ma non lo facciamo mai quanto vorremmo. Penso che meritiamo tutti di essere più felici.”
Pronunciate quelle parole, Gavin O'Connell guardò fisso davanti a sé. Gli occhi verdi erano leggermente umidi, quasi come se un vento fastidioso gli soffiasse contro.
“Lo so – convenne Brian – solo che non è facile.”

Due ragazzini con lo zaino in spalle iniziarono a intraprendere la camminata lungo il ponte che dava sul grande parco: sarebbero passati davanti a Brian e Gave in una sorta di sfilata, ricordando loro quei momenti che essi a loro volta, anni fa, avevano passato, quelle stesse strade percorse, l'identica allegria spensierata dei sognatori.

“Andrai a trovare Annie in clinica quando si sarà ripresa?” chiese all'improvviso Gavin, lasciando il bicchiere vuoto accanto a sé.
E poi giunse la risposta di Brian, fredda quanto il sole d'inverno: “No. E' meglio se io e lei prendiamo strade separate. Sempre che si riprenda.”

Quel giorno Gavin avrebbe potuto accusare Brian di essere tante cose: ipocrita, menefreghista, persino indifferente. Ma non lo fece. Sapeva che nessuna di queste era vera.
Si limitò, con tranquillità straordinaria, a insinuare la sua domanda irriverente, caricandola però di un peso che doveva necessariamente far riflettere: “Hai paura, Brian?”

Di diventare uguale ad Annie; di leggere negli occhi di Hope accusa, senso di perdizione e soprattutto quell'angoscia che a sua volta il giovane Molko stava tentando di allontanare da sé in tutti i modi.

Inaspettatamente, il cantante dei Placebo non rispose. Lasciò cadere nel vuoto l'interrogativo, accendendosi con una calma quasi serafica una sigaretta, disperdendo oltre le labbra carnose una nuvola di fumo che volteggiò un istante nell'aria, prima di scomparire.

“Sai – osservò improvvisamente, con gli occhi azzurri rivolti verso il cielo – forse Dio ci ha incollato il sorriso. Ci ha imposto di usarlo e noi possiamo sfoderarlo in qualunque momento. Questo, però, non implica necessariamente che siamo felici.”
Concluse il discorso sfoderando un sorriso tirato e artificiale. I bei denti bianchi erano brillanti, messi in risalto dall'incarnato pallido e dalle labbra senza rossetto.

Gave scherzò con tono affettuoso: “Ti prego, smettila, o dovrò metterti una museruola uguale a quella di Hannibal Lecter.”
Brian rise, alzando appena le spalle, per poi prendere un'altra sana boccata di fumo.
“Ancora non sono arrivato a volerti divorare – osservò, per poi tendergli il pacchetto di sigarette – vuoi?”

Dopo aver annuito con un cenno della testa, Gavin ne prese una e se la portò alla bocca. Brian tirò fuori l'accendino e affiancò la propria mano a quella dell'irlandese, che aveva eretto la sua piccola barriera contro il vento. Quel contatto di Brian, quella mano appoggiata sulla sua, l'accendino illuminato da una fiamma danzante: Gave non se l'aspettava.
I due si guardarono negli occhi, oltre il fuoco e il fumo, accogliendo in quello sguardo intenso solo il silenzio e il pacato concerto della città.

Poi, improvvisamente, la sigaretta si accese, l'accendino venne richiuso e le mani si allontanarono: sordide, scivolarono nella tana accogliente che era la tasca dei jeans o l'appoggio in legno della panchina, al pari di serpenti tra le foglie.

Gavin non era deluso. Entrambi erano fuggiti, in straordinaria sincronia. Aspirò a sua volta dalla sigaretta e quando espirò, paradossalmente, non credette neanche per un istante che Brian stesse scappando dai suoi problemi. Forse aveva più semplicemente deciso di rallentare, perché Annie si era già schiantata a terra.
Sfuggire alla gravità, d'altronde, era impossibile.

*

Gavin nemmeno sapeva perché i suoi piedi lo conducessero in quella direzione. Di sicuro l'alcol non c'entrava, lo stesso valeva per il fumo. Stranamente, non era nemmeno colpa di Brian. Al contrario, quella volta era stato l'irlandese a chiedere una piccola svolta, prima di chiamare il taxi che li avrebbe riaccompagnati all'aeroporto.

Finché non si arrestò davanti a casa propria. La guardò e provò una fitta al cuore a causa della nostalgia: in quel giardino da piccolo aveva giocato fino a sporcarsi con la terra, su quel porticato aveva fatto leggere a sua madre il primo racconto, sulla porta la prima fidanzatina aveva bussato furente, protestando perché Gave l'aveva mollata.

In fondo casa sua non era che una delle tante villette a schiera, bella, dal giardino curato, le aiuole potate, il portico con la sedia a dondolo e la macchina parcheggiata sul vialetto di fronte al garage. Appunto, la macchina parcheggiata. Questo voleva dire che la casa non era vuota come Gavin aveva sperato.

“Andiamocene.” disse in un soffio.
Era stato stupido. Pensare di presentarsi a casa dei suoi, senza che vi fosse una festa di mezzo e si mostrasse spensieratamente felice, rasentava il paranormale. Inoltre, in quel momento era tutto meno che spensierato.

Brian alzò le sopracciglia e dilatò appena le narici, per poi puntare le dita con la sigaretta accesa contro l'amico e domandare, usando un tono di cinica superiorità: “Dove ti stai dirigendo, esattamente?”
“A chiamare un taxi.” rispose, fingendo un sorriso.
“E' casa tua, no? - notò, sbattendo vezzosamente le ciglia in direzione dell'edificio – entra e chiama da lì.”
Gavin sbottò qualcosa di incomprensibile per poi ammettere, piuttosto seccato: “Ho cambiato idea, non ho voglia di vederli, di parla...”

Ma troncò la mirabile arringa difensiva perché si accorse che ormai era già troppo tardi: Brian Molko, spenta la sigaretta a terra, era partito a testa alta e a passo di carica per attraversare il giardino. Gavin corse nella sua direzione, tentando di salvare il salvabile. Scoprì, in quei pochi metri di prato verde, di sentirsi come un alunno impreparato per sostenere il compito in classe: meschino, perché già sapeva di doverlo affrontare.

Afferrò l'amico per un braccio e lo guardò dritto negli occhi, appoggiandogli un dito contro il petto:
“Non farmi questo – sussurrò per poi scandire – Dimenticati. Di. Questa. Casa.”
Brian lo guardò di rimando e improvvisamente chiese: “C'è ancora l'aquario dei pesci?”

Gavin avrebbe tanto voluto prenderlo per le spalle e costringerlo, se necessario, a rotolare giù per il prato pur di porre fine a tutta quell'assurda situazione. Lo irritava tremendamente che qualcuno, fosse anche Brian, si infilasse senza permesso nella propria vita, nelle faccende che non riguardavano altri che lui, e avesse la faccia tosta di chiedergli di pesci morti almeno tre anni fa.

Ma, purtroppo, non ebbe tempo. La porta si aprì e una signora di mezza età si affacciò scrutando prima pensosa, poi sorpresa, i due giovani uomini che le sostavano di fronte.
“Gavin?” domandò portandosi una mano al petto.
Il ragazzo tirò un profondo sospiro: “Ciao, mamma.”
Pronunciò quel mamma in un bisbiglio.

Erin mise piede fuori e andò ad abbracciare il figlio, tastandolo come chi non credesse al miracolo di un'apparizione totalmente inaspettata. Gli accarezzò una guancia, nonostante la ritrosia di Gavin, mentre Brian stette a guardare un po' in disparte, provando un intimo compiacimento per quella versione raccatta-affetto di Gavin.

“Non credevo che saresti passato. Arja mi ha accennato che eri partito ma vederti davvero mi rende... felice.” sospirò, sorridendo.
“Arja ti ha chiamato?” domandò Gavin, con il tono d'accusa di un bambino che aveva sorpreso l'amichetto a fare la spia.
“Sembrava preoccupata per te.” notò, premurosa.
L'irlandese alzò gli occhi al cielo ma non replicò. Non capì come facesse la sua ragazza a risultare così irrimediabilmente simpatica agli sconosciuti e a passare con tanta facilità informazioni strettamente riservate.

La signora poi giunse le mani e spostò gli occhi un po' acquosi su Brian. Lo fissò attentamente, incurante di quanto maleducata potesse sembrare quell'attenzione. Prese a studiarlo, impassibile, e le guance leggermente cadenti, che ricordavano quelle di uno sharpey , sembrarono essere strette in una morsa d'acciaio.

“Brian, vero?”
“Me lo chiede perché si ricorda di me o perché glielo ha gentilmente riferito Arja?” domandò, pungente.
“Entrambe le cose – rispose la donna, sfoderando un sorriso – ma non stiamo qui a parlare davanti alla porta. Entriamo, vi offro un buon thé.”

Gavin e Brian si scambiarono un'occhiata. Poi l'irlandese rispose: “No, meglio di no. L'aeroporto...”
“Suvvia, non fare storie, non hai più cinque anni. Avrai l'aereo nel tardo pomeriggio, passare un po' di tempo con me non ti farà certo crollare il mondo.”
“Beh, non mettiamola proprio in questi termini...” borbottò, infilando le mani nelle tasche dei jeans, mentre con lo sguardo cercava una via di fuga.

Brian alzò appena le sopracciglia e scrollò le spalle, mascherando abilmente il sorriso a fior di labbra. Gavin cercò il suo appoggio, una scusa, una bugia qualsiasi che lo aiutasse ad evadere da quella prigione fatta di sbarre trasparenti; però, nel voltarsi verso il cantante, non trovò l'aiuto sperato, solo una sfuggente occhiata di chi faceva finta di nulla.
“Grazie.” sussurrò a fior di labbra quando, suo malgrado, entrò in casa.
“Di nulla.” bisbigliò Brian di rimando, fissandolo con gli occhi chiari che trasparivano un certo divertimento.

L'irlandese non seppe il perché il cantante si comportasse in quel modo. Certo, poteva capire come mai si divertisse: anche lui, se fosse stato un altro e non il figlio che aveva vissuto l'adolescenza in quella casa, si sarebbe divertito un mondo. Però, gli riusciva difficile realizzare cosa in realtà volesse Brian; forse nulla, o forse desiderava soltanto comprendere qualcosa che gli sfuggiva da troppo tempo.

In ogni caso non ebbe più tempo per pensarci: tutte le sue attenzioni furono concentrate nell'evitare che sua madre manipolasse odiosamente la conversazione, dirigendola verso lidi scomodi e imbarazzati, esattamente com'era imbarazzante Brian quando troppo ubriaco.

Si sedette sul divano dalla fodera floreale e l'odore antico, scrutando con aria non troppo amichevole Brian che gli si sedeva accanto, appoggiando il gomito allo schienale e accavallando appena le gambe, per dare mostra di una persona assolutamente sicura di sé: a ben pensarci, era l'identica posa che assumeva durante le interviste. Gavin non si sarebbe sorpreso se sua madre avesse tirato fuori un microfono, iniziando a porre le stesse odiose domande che facevano tutti i giornalisti.
Invece, purtroppo, non ci fu alcun microfono, anche se comparve la domanda: peccato fosse rivolta a lui e non a Brian.

“Un po' di thé?” chiese la donna, rimanendo ancora in piedi.
Suvvia, in fondo poteva andare peggio.
Gave scosse la testa: “No, grazie.”
“Sì grazie.”
Si voltò verso Brian, guardandolo piuttosto sconcertato e infastidito. Questi si limitò a far finta di nulla.

“Andate proprio d'accordo, vero?” scherzò lei.
Splendido, ci mancava solo più l'ironia da donna di mezza età. La donna in questione sospirò per poi allontanarsi verso la cucina, da dove si sentirono i tipici rumori di chi si apprestava ad avvicinarsi ai fornelli.

Gavin dilatò appena le narici e mormorò, piuttosto irritato:
“Si può sapere che accidenti ti è preso? Cos'hai, un attacco di mammite?”
“No, Gave. Ma dovresti avercelo tu ogni tanto. Non parlavi di felicità, sorrisi e tutte quelle cose molto affettuose?”
“Questo non c'entra assolutamente nulla.” sbottò.
“Certo.” si limitò a rispondere, per poi sgranare appena gli occhi come un bambino meravigliato quando vide entrare la madre dell'amico, con un bel vassoio colmo di tazzine e biscotti. Ovviamente stava fingendo, vista la sua scarsa propensione a tazze in porcellana e dolcetti casalinghi, ma Gavin era tenuto a non rivelarlo in quella circostanza.

Sua madre si sedette sulla poltrona, versando con grazia amorevole il thé nelle rispettive tazze. Dopo qualche secondo guardò il proprio figlio e domandò ancora, afferrando per il manico la tazzina.
“Allora, dimmi un po', come va il lavoro?”
Gavin non rispose subito. La sua genitrice preferiva stare sul vago. Molto pericoloso, questioni infide e spinose potevano saltare fuori all'improvviso.
“Alla grande. Da' parecchie soddisfazioni. Ben presto scriverò un articolo anche per il nuovo CD dei Placebo.”
Lanciò la frecciata. Guardò Brian sorridendo.
Questi lo fissò, sorseggiando pericolosamente silenzioso la bevanda.

“E chi sono?” chiese lei, girando con cura lo zucchero.
“Il gruppo di Brian. Conosci Brian, vero?” in quella domanda retorica c'era la sua malevola ironia migliore.
“Ma davvero? - domandò, con affettata cortesia – Gavin mi parla sempre troppo poco dei suoi amici. Sono contenta per te, caro.”

Sorrise. Brian sorrise a sua volta. Gave si chiese come facessero quelle due persone, così diverse, ad essere inquietanti nell'identica maniera mentre ridevano.
“Sa – ammise improvvisamente Brian, posando la tazza – Gavin è qui perché l'ho costretto io. Quella che è ormai la mia ex-ragazza ha tentato il suicidio e io sono venuto fino in Lussemburgo, trascinandomi dietro suo figlio.”
Cadde un pesante silenzio.

In quel momento, l'irlandese Gavin O'Connell avrebbe voluto far affogare il suo presunto amico Brian Molko in ogni fiume, mare, distesa d'acqua disponibile nel continente Europeo. Doveva accontentarsi però della teiera fumante, o della tazza del water, a seconda di ciò che gli dettava l'ispirazione vendicativa del momento.

“Non mi sembra il caso di... - lanciando un'occhiata a sua madre, capì che la difesa doveva essere più convincente – lascia stare, le cose non stanno esattamente così. Brian ha il gusto per l'esagerazione.”
“No, le cose stanno esattamente così. A proposito, il thé è davvero ottimo.” sorrise ancora.

Erin, moglie di Edward O'Connell, madre di un unico figlio che aveva rifiutato il suo aiuto nell'editoria e che non aveva mai capito, trasse un profondo sospiro. Si umettò le labbra e ricomponendo le pieghe della gonna disse a fatica.
“Gavin, capisco perfettamente quello che vuoi dirmi. Dunque non avere paura e dimmelo, faremo prima tutti e due.”
Sbatté più volte le ciglia, quasi fosse in procinto di piangere.

“Dirti cosa?” domandò Gave confuso.
I due, madre e figlio, si fissarono diversi secondi.
Poi Erin posò un biscotto che era incerta se mangiare o meno e domandò improvvisamente:
“Avanti, come l'ha presa Arja? Immagino non bene.”

Brian assottigliò appena gli occhi e contrasse le labbra carnose, invece sulla difensiva Gavin rispose:
“Ne è rimasta un po' sconvolta ma, insomma, era piuttosto prevedibile. La colpa è anche nostra, abbiamo fatto finta di non accorgerci di quanto le cose fossero cambiate.”
“Immagino – sibilò Erin velenosa – potevate realizzarlo prima. Tutti i vostri sogni infranti...”
In quelle ultime parole c'era una sorta di patetico pathos da teatro di quattro soldi.

“Sicuramente – concordò Gavin – però queste sono cose che non puoi contrastare. Accadono e basta.”
Scrutò la madre. Questa si irrigidì e fissò prima lui, poi Brian, con una certa ostilità che aveva lasciato inaspettatamente il posto alla zuccherosa disponibilità di poco prima.
“Gavin – accennò all'improvviso, cercando di contenere il tono di voce – tu vieni qui e ti aspetti, dopo queste parole, che io ti dia il mio consenso? Hai davvero bisogno della mia approvazione dopo esserti comportato da ipocrita?”

“Consenso? Che...” allargò le braccia e avvertì una certa rabbia scorrergli nel sangue, una voglia insana di rovesciare quello squisito tavolino borghese. Però non doveva essercene motivo: in fondo si trattava di una pacifica chiacchierata in soggiorno. Peccato che sua madre stesse vaneggiando su consensi e perdoni che lui non aveva mai chiesto.

Improvvisamente, Brian trattenne il respiro. Fu come se avesse avuto una folgorazione. Il suo sorriso e il suo sguardo si fecero più gelidi, plastici esattamente alla stregua di quando la domanda scomoda, posta dal giornalista di turno, arrivava sparata a una velocità che la rendeva impossibile da schivare.

“Andiamo, Gavin. Mi sembra palese. Pur vivendo lontano tu sei mio figlio. So ciò che sei. La scusa che ha tirato fuori il tuo amico è un pretesto un pochino macabro, trovo.”
Dicendo quelle parole si pulì appena le labbra con un tovagliolino ricamato.

In quel momento, Gavin si sentì una sorta di automa. Dovette analizzare ogni singola parola, ogni frase, per darle un senso concreto. Poi inspirò appena e sussurrò, recependo soltanto una cosa:
“Ciò che sono? E secondo te... cosa sono?

Erin era chiaramente imbarazzata. Roteò gli occhi, come in cerca di un aiuto facile, ma in un primo tempo non parlò.
Fu Brian invece, con lampante schiettezza, a farlo: “Omosessuale?”
“Quello.” confermò la donna con convinzione, evitando lo sguardo sconcertato del figlio.

“Cristo Santo, vuoi dirmi cosa c'entra tutto questo con Annie?”
Erin sgranò gli occhi, spalancando la bocca: “Cielo, chi è adesso Annie? Uno di quei travestiti imbellettati che frequenti tu? Avanti, sono pronta al peggio.”
Sbatté una mano sulla coscia, mentre con l'altra si massaggiò la tempia.

Gavin stava per esplodere. L'uomo calmo, ironico, che si lasciava scivolare tutto addosso ora era un ragazzo ferito che sentiva il proprio mondo crollare per colpa di mani che, anziché aiutarlo e sostenerlo, lo stavano sgretolando.
Brian invece rise sobriamente, incrociando le dita, per poi correggere la donna:
“Nessuno di questi. Annie è la mia ex-ragazza. La donna che ha tentato il suicidio. Mi spiace che lei abbia una così scarsa opinione sia di Annie che di suo figlio – fissò un istante Erin – evidentemente, non li conosce abbastanza.

Per una madre era difficile vedersi sbattuta in faccia una frase simile. Soprattutto se vera, per quanto si desiderasse il contrario.
Ma Erin affrontò la situazione con compostezza, limitandosi a riservare un'occhiata piuttosto rancorosa a Brian per poi, stranamente, abbassare la testa e rimanere diversi istanti in silenzio.

“Andiamocene.” disse improvvisamente Gavin, alzandosi. Non voleva proprio litigare. Sentiva che gli mancavano le forze e le parole. Le maledette parole gli sarebbero schizzate fuori dalla bocca, più veloci di quanto non fosse lui nel cercare di star loro dietro: le avrebbe perse, finendo per ferire.

“Aspetta – lo arrestò sua madre, alzandosi a sua volta in piedi – io credevo che avessi lasciato Arja per stare con lui e...”
“Splendido, continua a giocare a indovina la coppia da sola mentre io torno a casa. A Londra.”
“Ma perché devi per forza fare così? Io... voglio solo che tu sia felice.”
“Con Arja.” precisò, velenoso.

Brian lo guardò attentamente e comprese che Gavin era simile a un animale poco propenso alle catene. Si trovava braccato, in gabbia, con le luci puntate contro gli occhi. Ferito, disorientato e accecato attaccava senza curarsi di cosa esattamente andasse a colpire: che fosse il cuore o la gola, non aveva importanza.

“Questo è solo perché sono egoista. E sono una madre. Lo sai, ormai: mi piacerebbe vederti sistemato come un uomo qualsiasi. Sposato con una moglie che ti ama, con dei bambini, una casa accogliente. Vedere che la tua idea di felicità non coincide con la mia mi fa soffrire.”
Rimasero in silenzio.

Brian in quelle parole percepì qualcosa che avrebbe voluto essere destinato a lui: la confessione mancata dei suoi genitori, molto più orgogliosi e insofferenti rispetto alla compunta Erin della classe media del Lussemburgo. Non poteva sapere se Gavin fosse in grado, in quel momento, di capire l'importanza di quel gesto di apertura. Forse l'animale selvaggio era troppo spaventato dalla prigionia delle mura domestiche per rendersene conto.

“Non posso farci niente.” replicò il figlio. Apparentemente in modo aggressivo, in realtà sembrava quasi rassegnato.
“E' semplicemente che... per te in questo modo la tua esistenza sarà più difficile. Perché gli altri non ti accettano, non capiscono quello che sei e ciò che provi. Vorrei che per te ogni cosa fosse in discesa, invece è tutto in salita.”

Si zittì, fissando le tazzine ormai vuote e i biscotti non mangiati. Gavin non parlò. Stranamente, si chiese cosa provasse sua mamma in quel momento. Difficilmente condivideva i suoi stessi sentimenti ma forse entrambi, nella parte più profonda di loro stessi, avvertivano una paura indefinita che li aveva inevitabilmente spinti così distanti l'uno dall'altra.
Allora, da figlio, Gave avrebbe potuto percorrere quella distanza, riaprire realmente la porta di casa e riconciliarsi con Erin. Ma non lo fece. Si limitò a schioccare la lingua e ad annunciare:
“Dobbiamo andare all'aeroporto. Perdo l'aereo.”

Sua madre avrebbe voluto mascherare la delusione che, invece, fu palese. Forse si era illusa di intrappolare Gavin dicendogli la verità, magari era solo il suo pretesto per svuotarsi di un peso e rassicurarlo che, qualsiasi cosa lui avesse fatto, lo avrebbe amato ugualmente. Non aveva colto però l'importanza di cosa significasse essere appoggiati nelle proprie scelte, oltre che amati. Anche per quello, Gavin fuggiva.

E Brian? Chi era, Brian? Erin non si sarebbe aspettata quel suo silenzio, quel modo franco e comprensivo di affiancarlo. Forse era un amico, dotato però del dono della comprensione. Lei aveva creduto fossero amanti, e probabilmente lo erano, senza però... amarsi.

“Capisco.”
Sulla porta, Gavin fece per andarsene. Poi, dopo un istante di riflessione, si voltò a guardare la cornetta del telefono, sistemata su un mobile d'antiquariato nel corridoio d'entrata dove sostavano. Avrebbe potuto chidere di fare una telefonata alla clinica e sapere come stesse Annie. Però sentiva che i suoi desideri erano diversi da quelli di Brian e, nonostante tutto, non aveva né la prontezza, né l'animo di andare contro di lui. In fondo, era un amico che cercava solo di lasciarsi, per un giorno, tutto alle spalle.

"Telefona quando arrivi.” accennò Erin, in straordinaria quanto inconsapevole telepatia.
Raccomandazione da mamma. Si sentiva stupida a dirglielo.
Inaspettatamente, però, Gavin annuì: “Lo farò. Anche se breve, ho pochi spiccioli per le cabine telefoniche.”

Sorrise. E in quel sorriso, Erin rivide il Gave di tredici anni che le faceva leggere il suo racconto presso il porticato: con le lentiggini sulle guance pallide, il naso appena arricciato in una smorfia di disappunto e i capelli scuri arruffati dall'umidità delle recenti piogge. Una storia apparentemente distaccata come il suo modo di esporsi, in realtà profonda e troppo autobiografica. Erin, orgogliosa, gli sorrideva a sua volta, anche se in realtà era spaventata all'idea che qualcuno potesse capirlo meglio di lei.
Che sorriso meraviglioso e bugiardo.

*

Hope si guardò distrattamente il braccialetto della clinica che aveva al polso: ricordava quello che davano ai neonati. Forse anche lei era appena nata, risorta a nuova vita dopo la morte.

Annusò il camice che odorava di medicinali, paradossale che fossero i farmaci a salvarla da altri farmaci. Li immaginò lottare nel suo stomaco armati di scudi, lance e tutti quei mistici componenti che li rendevano tanto imbattibili.
Il sorriso le si spense quando vide Brian entrare senza un minimo di preavviso, com'era logico aspettarsi da lui.

In realtà, Brian aveva impiegato un bel po' di tempo a stare immobile davanti a quella porta chiusa: non avrebbe voluto aprirla, entrare dentro la stanza e dover parlare. Sarebbe stato molto più semplice e vigliacco troncare ogni rapporto allontanandosi. Ma oramai aveva il dovere di compiere quel passo in più, per quanto difficile. Così, aveva cercato di controllarsi: da una parte, tenendo a freno la rabbia per essersi sentito tanto indeciso; dall'altra, scacciando la paura primordiale avvertita prima di sapere come stesse lei.

“Ciao, Annie.” la salutò, apparentemente cordiale.
Lei in cambio scrollò le spalle. Però, lo scrutò avvicinarsi ai biglietti di incoraggiamento provenienti  da amici e conoscenti vari: Brian li lesse mostrando un'aria appagata, per poi sedersi sulla comoda poltrona imbottita riservata agli ospiti.

“Bella stanza. Ti trovi bene?” domandò.
“Se è il tuo patetico modo per chiedermi come sto, beh, non c'è male, grazie.”
Brian sospirò. In quel momento avrebbe tanto voluto avere una sigaretta.

“Non essere scontrosa. Sono straordinariamente sobrio e venuto con intenzioni di pace.”
“Così mi spaventi.” replicò lei, con una punta di acidità nonostante l'ironia.
Stranamente Brian non rispose. Si alzò in piedi e si avvicinò alla finestra che dava sul giardino della clinica. Si tirò dietro un orecchio il ciuffo di capelli che gli andava davanti agli occhi e grattò distrattamente un'unghia, facendo saltare via parte dello smalto nero.

“Sono tornato ieri dal Lussemburgo.”
Sembrava una confessione dal prete. Un po' meno impegnata ma altrettanto seria.
Annie fu piuttosto sorpresa.

“Brian, dicevi che non saresti tornato in Lussemburgo nemmeno da morto.”
“Già. E considerando che la morta eri quasi tu, il mio gesto è andato parecchio contro i miei precetti.”
Inaspettatamente, la ragazza accennò ad un sorriso: “Gavin di solito ama chiamare tutto questo Molkesimo. Dovevo immaginare che eri adepto del tuo stesso culto.”
“Gavin dice e ama tante cose, non darti pena ad ascoltarlo visto che tanto lo odi comunque.”

Tornò a sedersi sulla poltrona, appoggiando mollemente i gomiti ai braccioli.
“Non lo odio.” replicò lei, giocherellando con il braccialetto di plastica.
“Così come non ami me?”

Si fissarono. Erano nient'altro che un uomo e una donna, in una stanza d'ospedale. Li accomunavano molte più cose di quanto non pensassero o volessero vedere, eppure ciò che avrebbe dovuto unirli in realtà li separava. Nella sua follia e disperazione, Annie era riuscita ad avere il coraggio di staccare la spina, anche se non con la forza adeguata che le avrebbe permesso di spegnere la luce per sempre.
Brian invece non aveva mosso dito. Era rimasto ad attendere, con la paura che prima o poi rischiasse di seguire la strada di Hope.

“Non so più niente. Non ho mai saputo, né avuto niente.”
In quella confessione sussurrata, Annie non cercava pietà o compassione. Era una semplice constatazione dei fatti, dolorosa certo, ma ormai talmente ovvia agli occhi suoi e di Brian da essere palese.

Poi, improvvisamente, proseguì: “Dimmi, il viaggio ti è servito per riflettere?”
“Non proprio. E' stata una scelta istintiva e il tempo era troppo poco – trattenne un istante il respiro, prima di ammettere – l'ho fatto perché ne ho sentito il bisogno, forse ero in astinenza: te ne sei andata e... all'improvviso sono rimasto senza la mia droga preferita. Allora, è ritornato tutto quello che credevo di aver lasciato.”

Aveva le mani intrecciate, allacciate come il più stretto dei nodi. E anche Annie, istintivamente, teneva giunte le proprie. Sembravano avere entrambi paura di sfiorarsi.
“Ti sarò sembrata stupida. Sono sempre stata stupida, lo ammetto.” rise. Una risata triste, che non la rese preparata alle parole di Brian, il quale si guardò le mani prima di notare.
“Non avrei mai pensato che tu mi facessi sudare. Nemmeno che sarebbe stato lo stesso per te.”

Hope si guardò a sua volta le mani e, scioccamente, si sorprese nell'accorgersi che erano sudate: per la tensione, l'agitazione che le provocava quell'incontro e un dialogo troppo a lungo rimandato; era sempre stato così con Brian. Si sentì sciocca a non aver capito che lui provava lo stesso identico sconvolgimento.

“Niente di quello che abbiamo preso, fatto, desiderato è servito a scacciare via il dolore.”
Probabilmente non abbiamo preso, fatto, desiderato abbastanza.” rispose Brian, rivolgendo gli occhi dalle ciglia vezzosamente lunghe verso il soffitto. In quello sguardo infantile, in realtà, non c'era nulla di adolescenziale o spensierato.

“Non volevo farti del male.” ammise infine il ragazzo. Disse quelle parole quasi in un sospiro.
Hope sentì gli occhi lucidi e il labbro tremare. Detestava essere debole, detestava scoppiare a piangere e svestirsi della sua dignità.
“Nemmeno io.” sussurrò. Sussurrava perché parlando a voce alta il groppo in gola l'avrebbe fatta sciogliere in lacrime: erano lì, in agguato, talmente subdole da toglierle il respiro.

Infine Brian si alzò in piedi. Quella volta non per dirigersi verso la finestra ma per andare in direzione della porta che aprì, voltandosi per guardare la ragazza stesa sul letto.
Lei lo salutò con un cenno del capo e lui fece altrettanto; nessuno dei due sapeva dove sarebbe andato. L'importante era non parlare ancora o avrebbero rischiato di cascare nuovamente nella trappola scavata in quegli anni.

Quando la porta si richiuse, sia Brian che Annie provarono per un attimo un senso di smarrimento: era vero, la droga preferita veniva a mancare. Ma seguì una strana consapevolezza che tutto, in futuro, sarebbe andato per il meglio.

Hope volse la testa verso il comodino e scorse un biglietto. Allora si alzò a sedere, facendo appoggio sul cuscino, e quando si accorse chi era il mittente rimase piuttosto sorpresa.
Lesse l'unica riga che vi era scritta e scoppiò a ridere, mentre una lacrima le scappò dagli occhi. Allora, i suoi sforzi non erano valsi proprio a nulla.

Ora non aveva niente tra le mani, se non un pezzo di carta. E si sentiva sola, con il vuoto sotto di sé a circondarla. Proprio per questo doveva promettersi di ricominciare.

*°*°*°*

Gennaio 2006


Gavin si riscaldò le mani nella lotta contro il freddo invernale, suonò il campanello e attese, per poi fissare perplesso Brian quando gli andò ad aprire, accogliendolo presso alla porta.
“Oh, no.” si limitò a dire.
“Anch'io sono felice di vederti, Gave.”

Arja lo raggiunse con in mano una busta contenente diversi prodotti caserecci che si era curata di cucinare. Vedendo Brian, scoppiò a ridere ed esclamò:
“Accidenti! Ti sei proprio rasato a zero!”
“Preferisco chiamarlo taglio netto.” ironizzò lui amabilmente.

Dette una sbirciata veloce dentro il sacchetto e poi le diede un bacio sulla guancia:
“Auguri alla festeggiata! Benvenuta nella soglia dei trenta come noi comuni mortali.”
“Preferivo rimanere nella soglia dei venti ma mi accontenterò.” scherzò, abbracciandolo.

Gavin seguì poi l'amico in casa. Per la precisione la casa di Barry che si era dimostrato particolarmente entusiasta, o sconsiderato che dir si volesse, nel condividere il focolare domestico con gli amici di Brian. Probabilmente non aveva ancora conosciuto le maglie fucsia e pelose di Val o, se lo aveva fatto, non ne era rimasto traumatizzato abbastanza.

Nel percorrere il breve corridoio d'ingresso, Gavin si sorprese di quanto in quegli anni le cose fossero cambiate. Non tanto per lui e per Arja a dire il vero, anche se erano in procinto di farlo, visto che il viaggio in Finlandia dai genitori di lei, tanto rimandato e temuto, si era rivelato meno disastroso del previsto. Nell'incontrare il padre di Arja, Gave si era rotto la caviglia; non per colpa del genitore che, bontà sua, non lo aveva menato, bensì a causa di una lastra di ghiaccio lungo la scalinata d'ingresso.
Tutto sommato passarsi le vacanze in stampelle era stato piuttosto rilassante, anche se si era sentito un perfetto idiota.

Infine, il ragazzo guardò l'ampio soggiorno: era stata sistemata un'allegra tavolata, presso cui vi erano in piedi in attesa non solo Barry e sua moglie ma anche gli amici di sempre. Erano tutti invecchiati: Val e Christen si erano sposati, anche se si rammaricavano di non essere riusciti a battere Elton  John sul tempo; Stefan aveva un nuovo compagno con cui sembrava parecchio in affinità; mancavano, però, due persone.

La prima era Steve. Aveva lasciato il suo regalo a Stefan perché, dopo gli ultimi disaccordi con Brian, non aveva voglia di ingaggiare un'altra lotta all'ultima sfuriata.
La seconda era Hope. Nonostante fossero anni che lei e Brian non si vedevano più, tutti in qualche modo si aspettavano di vederla comparire quasi per magia, ancora ondeggiante nel suo passo insicuro. Invece non sarebbe più tornata. Ogni tanto mandava una cartolina da uno dei posti in cui viaggiava, di volta in volta in compagnia di un uomo diverso, tanto ricco, pazzo e forse innamorato da seguirla nelle sue follie.

Arja era entusiasta dall'accoglienza e con il sorriso sui denti bianchi avanzò, facendo mostra delle sue gambe un po' storte che spuntavano, secche come stecchini, oltre la gonna colorata.
Gavin invece rimase in disparte, raggiunto da Brian che gli porse una birra. Per diversi istanti guardarono la finlandese ricevere gli auguri, i doni, gli abbracci, infine Gave domandò:

“Come sta Cody?”
“E' con la mamma. Passa più tardi.”
L'irlandese sorrise. Infine fece presente: “Questo mi fa indubbiamente piacere, ma io ti ho chiesto come e non dove stesse il bimbo.”
“Ah, lui sta bene. Sprizza salute e urla da tutti i pori.”

Gave si finse sorpreso: “Ma davvero? Non è rimasto sconvolto dalla bomba atomica che è esplosa sui tuoi capelli?”
Brian gli lanciò un'occhiata, osservando: “Sai, è un bambino ma a volte mi sembra più maturo di te.”
“Di sicuro non ha preso dal padre.” ironizzò, scoppiando a ridere.
Il cantante dei Placebo rise a sua volta, scrollando le spalle. Infine sbatté appena le ciglia e ribatté, fingendo noncuranza: “Purtroppo per lui. Anche se ammetto di aver subito un certo cambiamento, rispetto al passato.”

Gavin non disse nulla. Bevve la birra, osservando distrattamente la moglie di Barry portare in tavola alcune pietanze, aiutata sia da Arja che da Val, il quale voleva mettersi in mostra grazie alla sua recente scoperta delle torte salate e gli esperimenti chimici derivati.

Improvvisamente fu Brian a rompere nuovamente il silenzio, domandando dopo un istante di riflessione:
“Stamattina mi sono alzato e mi è venuta in mente una domanda che, accidenti, avevo accantonato da anni.”
“Spara.” acconsentì, nonostante i suoi sensi fossero messi in allarme.

“Cos'hai scritto sul biglietto che ho portato ad Hope?”
La domanda giunse rapida e quasi tagliente.

Il ragazzo si sorprese: era la prima volta che sentiva Brian chiamare Annie con il suo vero nome. Forse era davvero cambiato qualcosa in lui.
“Nulla di importante. Le solite cose banali.” spiegò vago.
“Capisco – asserì, bevendo un sorso – deduco, dunque, che tu abbia scritto qualcosa di importante e non banale.”

Gavin trattenne un istante il respiro. Doveva fuorviare la conversazione, nel modo più infido possibile ma indispensabile.
“Ho pubblicato il libro.” sembrò soddisfatto di averlo annunciato, anche se si sentì un po' una carogna.
Stranamente, Brian volle abboccare all'amo della distrazione. Annuì, per poi domandare con una certa scherzosa leggerezza: “Ti ha aiutato tua madre?”
Sapeva che non era così ma voleva dare a Gavin la soddisfazione di smentire.

L'irlandese appoggiò la birra vuota al tavolo e scelse una tartina fra le tante farcite con salmone, olive o acciughe, per poi dire: “No, la casa editrice avversaria. Ho mandato alla mia amabile genitrice il libro per posta. Ho aggiunto anche una foto mia con Arja e i suoi genitori.”
“Bravo, vederti in stampelle tra i ghiacci la rassicurerà.”

“Mai quanto leggere un thriller, narrato dal punto di vista di un assassino seriale che si spaccia per musicista rock.” notò, per poi mangiare in un solo boccone la tartina al paté di olive.
Brian scrutò con il suo solito fare un po' schizzinoso le varie opzioni culinarie per poi non coglierne nessuna, infine rispose: “Accidenti, spero che non mi scoprano. Devo ancora seppellire il cadavere di Steve.”

“Sefan mi ha detto che avete discusso per la scaletta del live. Mi dispiace. Forse dovresti lasciargli più spazi.” fece presente Gavin, armandosi di pazienza.
“Spazi dici? No, forse dovrei rinchiuderlo da qualche parte e gettarlo nella fossa delle Marianne. Se lui punta verso est, io vado a ovest: non possiamo rimanere per sempre fermi nello stesso posto.”

“Andate a sud allora. Cercate un compromesso. Siete caratterialmente simili, lo sappiamo tutti: teste calde bisognose di avere ragione ogni sacrosante volta. Ma se tu non prendi nessuna delle tartine perché non rispecchiano i tuoi gusti, Steve le prenderebbe tutte; agite in maniera quasi opposta. Non farti venire il fegato marcio ogni volta per questo.”
“Grazie Freud, ora sono in pace con me stesso.” ironizzò Brian, dopo aver sospirato appena.

Prima che potessero dirsi altro, Arja venne loro incontro prendendoli allegramente per le mani, incoraggiandoli entusiasta:
“Dai, venite, mettiamoci in posa. Val vuole testare la sua nuova macchina digitale.”
“Non posso, avrò il paté sui denti, sarò orribile come la faccia di tua madre quando mi ha visto cadere sulla lastra di ghiaccio.” replicò Gave ritraendosi.
Ma Brian dette manforte ad Arja: “Oh, avanti, il mondo ha visto di peggio, Gave, dei tuoi denti neri o del volto di una donna finlandese di mezza età in procinto di avere un attacco di cuore.”

Così, suo malgrado, viste le insistenze di fidanzata e amici che poco amavano farsi gli affari propri, alla fine l'irlandese cedette e raggiunse il gruppetto, intento a sistemarsi.
In un modo o nell'altro, dopo aver posizionato in maniera precaria la macchina foto, riuscirono tutti a mettersi in posa, gli uni stretti agli altri per evitare di venire tagliati fuori dall'inquadratura.

Il sorriso di ognuno sarebbe stato immortalato, quel sorriso di felicità che anni fa nella città del Lussemburgo Gavin aveva cercato. Quando guardò la foto che gli regalò Val, in una cornice coperta di pallettes dorate di dubbio gusto, Gave fu emozionato dal realizzare che la stessa felicità era stata finalmente raggiunta dalle persone che gli erano care. Forse anche dall'autodistruttiva Hope, che in quelle cartoline sporadiche e improvvise spediva loro pezzetti della sua vita tanto variegata quanto incapace di stabilità.

La mano di Arja strinse forte la propria.

Fra poco sarebbero arrivati Helena e Cody; sua madre avrebbe letto il libro seduta sul divano nella casa in Lussemburgo; i Placebo stavano lavorando ad un nuovo album e si erano lasciati alle spalle una raccolta prostituta di canzoni.

Gli sembrava ieri quando era arrivato a Londra. Eppure solo ora aveva compreso cosa volesse dire avere una casa, lui che non piantava radici: una casa non erano le pareti, il tetto, la porta dell'ingresso. Erano le persone che amava.
Anche se gli regalavano cornici tremende, si rasavano i capelli, combattevano campagne ambientaliste in favore di balene e foche o si impasticcavano per lasciarsi morire.

In fin dei conti, per quanto quelle persone lo spiazzassero, lo destabilizzassero e lo confondessero, Gavin non avrebbe voluto essere da nessun'altra parte: ovunque lui fosse andato, aveva l'accogliente certezza di potervi ritornare.

Abbracciò Arja e Brian che spalancò gli occhi quando Val esclamò, mettendosi in posa in maniera appariscente:
“Sorridete, denti d'avorio!”
Il flash li illuminò tutti, manicaretti, tavolata e regali compresi. Lo splendore di un attimo.











Anche se il rossetto sarebbe stato meglio sulle tue labbra, il principe che tanto ami ha letto le tue righe. Ti ricorda, ti ama, e... si è sentito come morto nel realizzare che non saresti più tornata.






Never thought you'd make me perspire,
Never thought I'd do you the same.
Never thought I'd fill with desire
Never thought I'd feel so ashamed.

Me and the dragon
can't chase all the pain away.

So before I end my day,
remember...

My sweet prince,
you're the one.










Sproloqui di una zucca

Finalmente ho la possibilità di pubblicare questo capitolo che languiva nel mio computer da mesi. Avrei preferito concludere in modo più originale, senza questa coralità felliniana, ma alla fine non sono riuscita a fare diversamente: in qualche modo mi piaceva che tutti, anni dopo, potessero ritrovarsi a festeggiare una cosa semplice come il compleanno. Perché sono cresciuti sia anagraficamente che mentalmente e così anche le priorità sono cambiate.
Brian è diventato padre, insorgono maggiori divergenze artistiche, Val e Christen si sono sposati, simbolo di uno dei traguardi raggiunti dall'Inghilterra. Anche Gave a modo suo si è stabilizzato. Gave... non so da dove mi sia uscito fuori un personaggio simile: è indeciso, pigro, capace di lasciarsi scivolare tutto addosso. Mi è sembrato parecchio controverso, sotto certi aspetti. Fatto sta che si è digievoluto un po' per conto suo durante la narrazione e io l'ho tenuto ugualmente, anche se stava diventando difficile da gestire. A tratti avevo paura di andare OOC coi miei stessi personaggi <____<''
Mi sento incredibilmente triste per aver concluso questa storia che, lo ammetto, non è la solita RPF. Riceverò probabilmente parecchi anatemi per questo ma nel complesso sono soddisfatta. Come già accennato, provo un po' di tristezza per aver messo la parola fine al racconto: mi è piaciuto scrivere su Gavin, Arja, Hope, Brian e tutti gli altri personaggi che hanno reso in qualche modo viva la storia. Non credo li riprenderò in mano, però so già che mi mancheranno.
Spero che anche voi lettori possiate aver apprezzato questo lavoro, frutto più che altro di una passione per la musica e, ovviamente, per i Placebo, verso i quali nutro qualche riserva dovuta agli ultimi lavori prodotti. Queste sono in ogni caso opinioni puramente personali, di una fan piuttosto amareggiata e innegabilmente nostalgica.

A distanza di mesi, ancora auguri a Ile. Auguri che possono essere tranquillamente estesi non solo al compleanno ma a tutta la tua vita, per ogni cosa che intraprenderai. Uno dei lati positivi di internet è che mi ha permesso di coltivare quest'amicizia preziosa oltre che insperata.

Piccole annotazioni:
Il titolo del capitolo è tratto dalla una canzone omonima dei Coldplay. Tutto questo ha un senso, oltre che relativo al capitolo in questione, anche legato all'inizio della fiction.

La canzone finale è My Sweet Prince dei Placebo, dalla quale è stato tratto lo spunto per l'intera storia.


Nainai: Cielo, non so davvero cosa rispondere ** Di fronte a queste riflessioni non posso far altro che riflettere a mia volta e guardare ciò che ho scritto da un nuovo punto di vista. Ti ringrazio, sinceramente, per le tue parole. Alla fine è vero: il mondo in cui Val, Gavin e gli altri vivono è una sorta di grande circo scintillante, capace di accecare e spesso fuorviare da quella che è la vita vera. Hope, nella sua debolezza, è forse una delle persone più forti: perché ha il coraggio di guardare in faccia la realtà e non sempre, credo, essere incapaci di reggerne il peso vuol dire essere codardi. Ha compiuto, anzi, con dignità la sua scelta.
Nessun pasticcio di recensione, al contrario. Grazie di ogni tua parola e per aver seguito questa storia, capitolo dopo capitolo: ne sono felice e onorata. Un bacione.

Hiko_Chan: Accidenti, mi conosci troppo bene XD Sì, riciclo in questi personaggi il mio modo di fare battute: in questi casi è facile, quasi istintivo, immedesimarmi nei dialoghi. Credo tu abbia anche troppo ragione; forse in tutti i personaggi c'è qualcosa di me e facendoli interagire tra di loro, in qualche oscura maniera parlo con me stessa, stile vecchia zitella solitaria XD Nemmeno so bene come reputare Hope: da un lato vorrei che non si arrendesse, che decidesse di lottare; dall'altro però mi rendo conto che è tanto difficile anche solo far finta di essere forti.
Sono contenta che le scene descritte siano risultate così coinvolgenti, alla stregua delle frasi: anche solo poche semplici righe hanno descritto immagini simili, trasmettendo qualcosa di concreto, vero e palpabile. Infine... che cosa stupendosa, hai apprezzato quei riferimenti-chicca al 1998! Ora come ora se ripenso a gente tipo i Vengaboys mi viene da ridere, perché mi ricordano più dei visitors malriusciti che altro XD
Spero che con quest'ultimo capitolo tu possa aver concluso di mangiare la tavoletta di cioccolata nel migliore dei modi, senza fastidiosi pezzetti i carta stagnola che si infilano un po' subdoli in bocca. Grazie per aver apprezzato questa storia e, come sempre, per comunicare con così tanta spontaneità quello che hai provato nel leggerla. Bacione.

   
 
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