Bambola
Diana giocava, il minuscolo corpo
genuflesso sul pavimento. I capelli biondi della barbie che teneva in mano
danzavano a destra e sinistra, seguendo il movimento delle sue minuscole dita.
«Mamma mi compri una nuova bambola?» la
bambina si girò e i suoi azzurri marroni incontrarono i miei «questa non mi
piace più!» esclamò, con quella sua vocina acuta.
«Perché?» smisi di tagliare l’aglio e mi
pulii le mani sul grembiule, inginocchiandomi ai piedi di mia
figlia.
«Perché è vecchia!» la bambina guardò la
bambola con una smorfia dispettosa in volto «e poi ne voglio una nuova, le mie
amiche ce ne hanno più belle!»
«Vedrò» annuii e baciai Diana sulla
fronte, avviandomi di nuovo in cucina.
Lei tornò a giocare con la barbie,
facendole fare tutto ciò che voleva. Le sue mani afferrarono il vestitino blu e
lo sfilarono con forza, per metterne uno verde. Poi le pettinò i capelli e la
fece sedere su un tavolino, accerchiandola con altre barbie più consumate. La
ascoltai mentre le faceva parlare tra loro, prima di chiamarla a sedersi a
tavola.
Mangiammo in silenzio e, dopo aver visto
un po’ di tv, la misi a letto, leggendole una storia. Chiusi la porta con
cautela e mi diressi in soggiorno, per mettere a posto. Era una mania quella che
avevo dell’ordine. Odiavo trovare una sedia fuori posto, un asciugamano non
piegato correttamente, un libro posato con noncuranza sullo scaffale. Erano
piccole manie quotidiane le mie, che mi portavo dietro fin da quando ero
piccola.
Raccolsi le bambole da terra e le misi
sullo scaffale, rivestendole con cura. Persino loro volevo che fossero perfette,
senza un capello fuori posto o un abito slacciato. Fin da piccola, ogni volta
che smettevo di giocarci, le riposavo con cautela sulla scrivania e rimanevo a
guardarle per ore, sdraiata sul mio comodo letto. Ma io non le guardavo per il
semplice gusto di farlo. Le esaminavo. Scrutavo ogni singola parte del loro
corpo perfetto, dei loro capelli lucenti, del loro sorriso splendente.
Erano belle,
perfette.
In loro non c’era niente che fosse
sbagliato, niente che potesse non piacere. Erano la perfezione in persona. Per
questo mi ritrovavo a desiderare di essere anche io una di
loro.
D’altronde tutti gli uomini ambiscono
alla perfezione.
Riposi una barbie sulla scaffale e le
sistemai con cura la gonna. Avrei potuto anche bruciarla e lei avrebbe
continuato a guardarmi con un sorriso, avrei potuto buttarla dalla finestra e
sarebbe caduta intatta sul terreno.
Una bambola non si oppone a nulla. Non
parla, non reagisce, non si muove. Una bambola continua a sorridere, perché è
quello il suo compito. E’ perfetta non per lei stessa ma per chi la guarda, per
chi la comanda e la plasma.
Perché noi esseri umani siamo così.
Vogliamo comandare e ci aspettiamo che tutto vada per il meglio. Se qualcuno si
mostra in disaccordo con le nostre idee iniziano i problemi, le discussioni, gli
odi. Se qualcuno si oppone al nostro comando scoppia la guerra.
E la guerra è male.
Me lo ha insegnato mia madre da piccola,
l’ho letto sui libri di scuola, lo si vede ogni giorno in televisione.
Per non avere la guerra non bisogna
opporsi al più forte, bisogna essere giocattoli nelle mani dei potenti.
Come le
bambole.
Non parlare, non muoversi, non scuotere
la testa.
Non vivere.
Tanto che senso ha la vita se la si
spreca a farse la guerra, quando basta chiudere la bocca e obbedire, per piacere
agli altri?
Avevo sempre fatto così, in tutta la mia
vita e, in questo modo, mi ero guadagnata l’approvazione di mio padre, la
dolcezza di mia madre e l’ammirazione di tutti.
Io.
Una specie di bambola in carne ed ossa.
Una famiglia perfetta, una casa
perfetta, una vita perfetta.
La perfezione alla quale avevo tanto
ambito era arrivata, anche se non del tutto. Con il tempo avevo imparato anche io ad essere una barbie,
con la sola differenza che io avevo qualcosa che loro non
possedevano.
Una vita o, per lo meno, ciò che gli
assomigliava.
Respiravo, camminavo, mangiavo,
dormivo.
Ma non avevo
sentimenti.
Li avevo cancellati per essere come
loro, li avevo sepolti nel profondo della mia anima. Ero vuota. Dentro di me
c’era solo un cuore che batteva, probabilmente di ghiaccio.
Loro non lo
avevano.
Era questa l’unica differenza tra di
noi. Una differenza che negli anni avevo cercato di rendere meno percettibile ma
che non sarei mai riuscita ad eliminare.
Perché io
vivevo.
Non ero perfetta, non lo sarei mai
stata.
Non avrei mai realizzato quel mio sogno,
quella mia ossessione.
Non sarei mai diventata una di
loro.
Una bambola.