“In
Cammino…”
~ Colui che
colpisce un uomo
causandone la morte,
sarà
messo a morte.
(Esodo 21:12)
«Si
svegli, signora»
Sorrisi, al buio.
Come se poi ci fosse bisogno di svegliarmi. Non avevo
chiuso occhio durante la notte, nonostante fossi stanca, nonostante le
braccia
e le gambe sembrassero due macigni. I capelli erano sporchi, luridi. Un
tempo
erano stati belli, biondi, lucidi. Tutti mi dicevano che sembravo un
angelo,
con quegli occhi azzurri, quei capelli dorati, quella carnagione di
porcellana,
le labbra sottili, il naso francese.
Ora avevo la pelle raggrinzita, i capelli erano nodosi ed
unti, gli occhi erano spenti.
Come una bambina, mi venne da piangere pensando che quel
giorno avrei voluto essere bella come non mai, fiera, camminare a testa
alta,
orgogliosa…
Mi asciugai le lacrime, soffocando un singhiozzo, al buio.
Mi riscossi all’ennesimo bussare alla porta metallica,
aggiustandomi il vestito
di lana grezza. Anche se era metà luglio lì,
nelle viscere della terra,
sembrava pieno inverno. Rabbrividii, stringendomi nelle braccia magre.
«Sono sveglia» risposi con voce roca.
La porta fu aperta da un ragazzo. La pistola al fianco, il
viso contratto in una smorfia. Forse lui provava pietà,
forse, se avesse potuto,
mi avrebbe fatta scappare, mi avrebbe salvata. L’idea che
qualcuno provasse
pietà per me mi disgustava, perciò la scaccia
dalla mente, per lasciarmi
prendere le mani da quel ragazzo e legarmele dietro ala schiena,
scrollando le
spalle. Aveva capito che non avevo la minima intenzione di scappare.
Avrei
affrontato quello che il destino aveva deciso per me.
Semplicemente quello era il mio destino.
E io non potevo far nulla per cambiarlo.
Avevo avuto la mia vendetta, mesi prima, avevo ucciso
l’uomo che mi aveva strappato il cuore, l’anima,
che mi aveva condotta alla
pazzia, che mi aveva fatta godere, mentre lo uccidevo puntandogli la
pistola
dritta al cuore. Avevo sperato, in quel momento, che la pallottola gli
facesse
male come il male che mi aveva fatto lui, lacerandomi il cuore,
riducendolo a brandelli,
come quello di Thomas.
Del mio
piccolo
Thomas.
Stavo per rivederlo, mio figlio, non mancava molto ormai;
era questione di minuti, al massimo ore.
Le pareti così tristemente famigliari scorrevano ai miei
lati, mentre camminavo lentamente, le mai costrette dietro alla
schiena, il
ragazzo al mio fianco. Magari sarei potuta fuggire da sola, non aveva
un’aria
molto sveglia, ma perché mai avrei dovuto continuare a
vivere?! Ricordavo
gli ultimi quattro anni della mia
vita. Ero stata accecata dalla rabbia, dal dolore. Una mano sembrava
stringermi
dolorosamente lo stomaco, in continuazione.
Di quei quattro anni ricordavo tutto.
Soprattutto ricordavo quel 5 Marzo.
Faceva freddo, troppo freddo per essere agli inizi di
Marzo. Stringevo Thomas, mio figlio che proprio quel giorno avrebbe
compiuto
cinque anni, contro il mio fianco, proteggendolo dall’aria
gelata.
«Tu aspettami in macchina, torno subito»
Aveva annuito, scompigliandosi i capelli biondi. Era
uguale a me e me lo ripetevano sempre. Dopotutto, nessuno aveva mai
saputo chi
era il padre.
Un vigliacco.
Mi aveva abbandonata un mese dopo l’inizio della
gravidanza, un giorno dopo aver saputo che avrebbe avuto un bambino. Mi
ero
ritrovata sola, dei genitori non disposti al perdono, figlia unica.
Ero stata troppo sciocca, avevo creduto troppo nelle
favole quando ero andata a vivere con il primo ragazzo che mi aveva
detto una
bugia, che mi aveva ingannata. Ma in quel periodo così buio,
mi bastava un nome
per far ritornare la luca negli occhi, un sorriso per stringermi il
cuore, due
manine paffute per ricordarmi che mi bastava Thomas, che mi sarebbe
bastato
sempre. Mi interessava solo proteggerlo, con l’amore con cui
solo una madre può
voler proteggere il figlio.
Mi sarebbe bastato questo.
Ma non ero riuscita a proteggerlo.
Avevo fallito, per l’ennesima volta nella mia vita. Ero
rimasta al supermercato troppo, troppo tempo.
«THOMAS! NO, TORNA SUBITO INDIETRO!»
Avevo urlato come una disperata, correndo in avanti, e lui
si era fermato a guardarmi. Fermo, nel bel mezzo della strada.
E poi, tutto avvenne come a rallentatore. Una macchina,
una berlina, lo prese in pieno. Non avevo realizzato subito, aveva
guardato
l’autista, incrociando i suoi occhi, quegli occhi che non
avrei mai
dimenticato, nell’attimo in cui sfrecciava via, a
E la mia vita era diventata una caccia continua. Non
sembravo in grado di provare sentimenti positivi: nessun amore, nessuna
pietà,
non avevo amici.
Solo dolore e rabbia.
Rabbia e dolore.
L’amore infinito che avevo provato per l’unico uomo
della
mia vita era stato sostituito dall’odio, un odio cieco che
non avevo mai
provato, che mi spinse alla vendetta più brutale.
Per anni
l’avevo cercato, aiutando la polizia e
ritrovandomi da sola quando il processo era stato accantonato. Io
invece ero
mossa dalla disperazione. L’avevo cercato per tutti gli USA,
sapevo che non
avrei mai perso la speranza.
«Muori, figlio di puttana.»
Harry McAdams morì il 15 Settembre del 2005, colpito da
una pallottola sparata da una Beretta 92 da Ellen McFair. Ero stata
catturata
subito, il processo mi aveva considerata colpevole, condanna: pena di
morte.
In compenso tutto si era svolto abbastanza velocemente, in
pochi mesi il processo si era concluso, il 15 Luglio sarei stata
giustiziata. E
quella notte, la notte del 14 Luglio, non avevo dormito, il ragazzo mi
aveva
legato le mani con le manette dietro la schiena ed ora guardavo, con
sguardo
atipico e indifferente, una sedia di metallo.
Per un momento, gli occhi mi divennero lucidi, lo sentivo.
Avevo paura di chiudere le palpebre, di mostrarmi debole davanti a
quegli
uomini che stavano per giustiziarmi in uno squallido carcere su di una
squallida sedia elettrica.
Da piccola avevo immaginato un futuro diverso, un futuro
come famosa attrice di Hollywood, invece la mia vita era stata un
totale
fallimento.
Ed ero una codarda, avevo paura.
Avevo paura che una scossa elettrica di 2.000 volt mi
facesse male.
Mi slegarono le mani, solo per legarle alla sedia,
ricoprendomi di elettrodi umidi sulla braccia, sulla testa, sui
polpacci.
Ero accusata di omicidio volontario.
La sentenza fu veloce, più di quanto avrei sperato.
Il cuore mi martellava contro il petto, forse sentiva che
stava per emettere l’ultimo battito, e cercava una via di
fuga dalla morte.
Il cammino verso la fine, verso la mia morte, era infine
giunto, ed io mi sentivo soddisfatta.
Mi ero vendicata.
Un sorriso mi increspò le labbra, prima che una scossa di
2.000 volt mi fu sparata in corpo.
Non aveva neanche fatto tanto male.