Il turbinio della notte si
confondeva con i sapori del mio essere,che più da molto tempo non riuscivo a
percepire se non sulle labbra. Giunti alla punta della lingua si
disperdevano,si dipanavano,formando una confusa e libidinosa orgia di
sentimentalismi. L’oscena vanità,il serbante rancore,il plagio dell’anima
intriso di angoscia e dolore costruito:questo mi elevava,rappresentava,fino a
distorcermi,acuire il mio smarrimento. Incapace di ripercorrere gli eventi
trascorsi,vagavo lungo le sponde di un fiume immaginario,ignara che questo
potesse rapidamente trasformarsi nel bordo di un materasso gettato in un
vicolo,oppure in un letto scomodo ma pulito,sino a divenire un nastro opaco e
scolorito allungato sull’asfalto.
Simile al momento di un pasto,le
mani tese verso gli alimenti,la bocca che lentamente si spalanca per poi
cibarsi con voracità. I denti che cozzano contro la materia,la lingua che
assapora,la gola che avverte il pasto sminuzzato,lo stomaco che si sforza di
contenere. E poi inebriarsi,e successivamente confondersi,satura di differenti
sapori,di vitamine,principi nutritivi in lotta,gonfia di pensieri che
rallentano la digestione. E,molto spesso,l’improvviso rigetto: una debilitante
malattia,un’insana sofferenza,ecco che ci si libera del troppo per votarsi al
nulla,alla pulizia totale. Gli acidi che distruggono la gola,i sapori distorti;
come in un principio bulimico,arrivai ad appropriarmi di tutto,per poi esserne
sopraffatta,e dover rinunciare,esplodere,nuovamente non comprendendo,persa fra
silenzi,oblio,voci chiassose. La minaccia di un passaggio,la difficoltà di un
cammino,una strada offuscata dalla nebbia. Eppure l’incapacità di avvertire
tutto ciò mi scuoteva,facendomi affogare in un mare di caos,serpeggiante
stupidità,ingenua malinconia. Non possedevo un essere,non serbavo un
passato,mentre il futuro era leggiadro ed invisibile come la tela di un ragno.
Semplice da spezzare,dunque,ed impossibile da ricostruire.
La mente vagava lungo meandri
sconosciuti,austere poltrone color ruggine mi assillano,luci e fanali mi
accecano di continuo;sono tutt’ora il mio tormento. A volte mi ritrovo le
braccia tese dinanzi al corpo,e piccoli fori punteggiano la pelle,dove le vene
si delineano marcatamente,violacee,ed un lancinante dolore tamburella sul fondo
dello stomaco. Rammento il bianco,il candore di un ambiente statico,falso,quasi
superficiale; immagine di contegno,comprensione,tutto fuso in un’ipocrita area
di speranza. E lunghe aste metalliche si stagliano nella fantasia come onde
lungo la costa,mi è impossibile discernere il ricordo reale dall’immaginario.
Degli occhiali,una penna. Quale il loro significato? Numerosi fogli bianchi mi
scivolano addosso,feriscono il mio corpo,mentre il sangue brucia all’altezza
delle gengive. Un gusto indistinto,pungente,dal forte odore mi pervade le
cellule cerebrali,appanna la vista che non possiedo. Sono nel turbine,il
vortice della tempesta si acquieta e contemporaneamente mi ossessiona,mi sibila
nelle orecchie. Una pianta,boccioli ancora verdi,e il buio di fianco. Per quale
motivo?Sono mattoni,sicuramente. Hanno un’ombreggiatura rossastra,una
conformazione quadrangolare;li vedo dinanzi ai miei occhi,conferiscono
all’atmosfera un autentico tocco di anfratto londinese,rustico,o meglio adatto
al contesto,degradato. Su un sudicio marciapiede bottiglie di Chardonet e
calici di cristallo si frantumano in miliardi di schegge,mentre un tavolo
austeramente apparecchiato troneggia sul ciglio della strada angusta,e i
tovaglioli di seta mi coprono il viso. All’istante non vedo più nulla,un corto
circuito al cervello blocca le facoltà conoscitive ed uditive. E’ forse questo
il momento migliore: tra ricordi sconnessi e discordanti mi mantengo in bilico
costante,e il grigiore di un ambiente indefinibile mi accoglie,mi conforta,mi
rende unica e possidente del nulla che mi resta.
Sabbia umida mi si incolla al viso,eppure non sono io,quella. Non trattengo il ricordo,scivola come acqua in un tubo di scarico,si prosciuga come una pozzanghera sotto il sole arido. Mi lascia sola,senza me stessa,priva di un tempo. Non mi vengano poste domande riguardo le miei giornate,non saprei offrirvi risposte o logicità. Le calze a rete strappate forse non sono mie,quella tuta arancione lambisce le miei sinapsi,strane figure si agitano,inquiete,calcoli matematici guizzano da fogli geometricamente squadrati alle pupille dei miei occhi. Palpita il cuore,arresto improvviso. Avverto l’abbaiare di un cane,sebbene le mie dita stiano sondando il corpo nudo di un uomo,o forse carezzano il soffice pelo di un felino. Urla,pianti,lamenti,un coltello da cucina: non riesco a ricostruire nulla,questa camera soffoca ogni pensiero,il valium mi intorpidisce i sensi. Valium?Di cosa si tratta? Il flash,assomiglia ad una macchina fotografica.
Ma tante siringhe mi circondano.