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Autore: Kokky    05/02/2010    2 recensioni
I notturni sono generalmente percepiti come tranquilli, spesso espressivi e lirici, alcune volte piuttosto pessimisti, ma in pratica pezzi che rientrano sotto la definizione di notturni comunicano svariate sensazioni e stati d'animo (Wikipedia).
27 = La nebbia stava salendo: divenne tutto uguale, il mondo, di un grigio candido che univa la terra e il cielo. Se non fosse stato per gli alberi vicini al treno, avrei visto soltanto una vasta lastra di vetro chiaro, opaco; un nulla.
Genere: Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Train de vie


Era da un po’ che il treno andava.
Guardavo fuori dal finestrino con passività, mentre la musica sparata dagli auricolari mi riempiva le orecchie.
Avevo osservato bene gli altri passeggeri: erano tutti giovani, al massimo ventenni, ma emanavano un sentore di maturità inaspettato. Mi sentivo piccina in confronto a loro – come se fossi lì per caso, per errore, al contrario di tutti gli altri, che sembravano appartenere al treno. Che strani pensieri mi percorrevano la mente!
Aumentai il volume dell’mp3. Bring on the wonder di Susan Enan risuonava in me e sussurrai due versi con sentimento: «I fell through the cracks at the end of our street, Let’s go to the beach, get the sand through our feet».
Quella canzone mi tranquillizzava e mi portava via da me stessa, come se riuscisse a farmi volare altrove.
Guardai nuovamente fuori dal finestrino... stava cadendo la neve. Tanti piccoli fiocchi bianchi scendevano danzando, ruotando, nuotando nell’aria, soggetti al volere impetuoso del vento – prima avanti, poi indietro, a destra, a sinistra; e il treno avanzava.
Ne fui affascinata e mi sporsi verso quello spettacolo niveo.
La nebbia stava salendo: divenne tutto uguale, il mondo, di un grigio candido che univa la terra e il cielo. Se non fosse stato per gli alberi vicini al treno, avrei visto soltanto una vasta lastra di vetro chiaro, opaco; un nulla.
Quello che vedevo rappresentava, per me, il vuoto, il niente assoluto... e metteva i brividi pensare di viaggiare in esso, lì, in una frattura del nulla. Come se attorno al treno non ci fosse nient’altro – c’era, c’era, solo non si vedeva – e che quindi noi passeggeri fossimo gli unici al mondo. I superstiti.
Ascoltai con un fremito di eccitazione I don’t feel it anymore di William Fitzsimmons, spostando lo sguardo su quella nebbia e quella neve in caduta libera; la musica mi scivolava nelle orecchie, sul corpo, quasi ricordandomi una melodia divina.
L’ultraterreno aveva preso posto alla normalità del viaggio.

I fiocchi continuavano a cadere, la nebbia era fitta e impenetrabile allo sguardo; il nulla circondava il treno, che andava e andava verso la sua meta. Osservai gli altri passeggeri – anche loro guardavano fuori dal finestrino con la mia stessa sensazione? – e vidi che erano meno di prima.
Non avevo notato che qualcuno di essi si era alzato ed era andato via, in giro per gli scompartimenti; erano svaniti, quei viaggiatori silenziosi e maturi... o forse li aveva inghiottiti il treno?
Di loro erano rimaste solo delle gocce sul tessuto dei sedili e sul pavimento nero.
Fissai il passeggero di fronte a me: era un bel ragazzo dagli occhi scuri e profondi. Lui contraccambiò il mio sguardo.
«Dove stai andando?», mi chiese con gentilezza.
Sorrisi. «Vado a fare visita ai miei genitori. Mi aspettano per pranzo», risposi. «E tu?», gli domandai.
Lui sorrise con gli occhi, accesi da una scintilla di allegria, e disse: «Io sono alla ricerca dell’amore, il mio».
Spensi l’mp3 e, grattandomi il capo per perdere tempo, sussurrai: «E lo troverai? Voglio dire... è strano partire per scovare la persona destinata ad amarti, l’amore stesso. Non credi che dovremmo aspettarlo? Arriverà da sé, se il nostro destino è questo».
«Se mi fosse rimasto molto... credo di sì. Ma alle volte bisogna forzare lo scorrere del tempo, prima che esso ti si ritorca contro e ti inghiotti in un sol boccone», ribatté.
Annuii e sbirciai dal finestrino: la neve era sempre più grossa, cadeva a fiocchi grandi, e un manto ricopriva l’aria stessa. «Io sono Chiara, piacere».
«Tommaso», disse con un sorriso.
«E dici che non ti basterà il tempo?», chiesi.
«Non mi basterà la vita».

Il treno avanzava, mentre noi chiacchieravamo del più e del meno.
Fu dopo un po’ che iniziai a sentir freddo – la neve di là fuori, che non riuscivamo a toccare, intangibile, poteva trasmetterci il suo candido gelo?
Non guardai più il nulla visibile dal finestrino, concentrata su ciò che Tommaso mi diceva. Riempiva lo spazio e il tempo del treno, riversava la sua vita su di me, nel suo dialogo interminabile.
Mi venne voglia di piangere, senza un motivo ben preciso. Il freddo mi cristallizzò il cuore e non riuscii più a seguire i racconti del passeggero di fronte a me, quegli sprazzi di vita che cercavano di tenermi sveglia, inutilmente.
Ero spossata e le mie palpebre divennero pesanti.
Vedevo il nulla dentro i miei sogni e ne avevo paura.
Tommaso, a un certo punto, s’arrese e rimase in silenzio – non lo sentii più e basta, forse ero io che non percepivo più i suoni, immersa in una bufera di neve, dove nemmeno il vento ululava. Si stava in attesa, circondati dai fiocchi bianchi, e si moriva assiderati senza riuscire ad ascoltare la vita un’ultima volta.

Di me rimasero delle gocce sul sedile e sul pavimento; null’altro.


«Correte! Un barbone, trovato in ipotermia, sta morendo... riscaldatelo, riscaldatelo», qualcuno gridò.
L’ospedale era un brulicare di vita e di morte, un mondo a parte che non conosceva la quiete, se non quella apparente. Qualche medico s’affrettava, i pazienti cercavano di migliorare, i visitatori andavano e venivano.
Il barbone morente, trovato da un poliziotto poche ore prima, aveva gli occhi sbarrati e la bocca spalancata in un urlo silenzioso. Voleva parlare, prima di essere dimenticato da tutti; aveva avuto una vita da invisibile, era stato un emarginato dalla società alla ricerca di un qualcosa di speciale... un amore indistruttibile, incancellabile.
Un infermiere lo scrutò con pietà e gli stette accanto finché non fu fuori pericolo.
A quel punto, Tommaso il barbone pianse. Sapeva che, da qualche parte lì nel mondo, la sua metà era morta – e non lui, non lui, che era ancora vivo e vegeto, alla ricerca del pezzo mancante che lo completasse.

«La bambina era già malata... questa febbre le è stata fatale», concluse il proprio discorso il dottore.
Loro s’accasciarono l’uno sull’altro, cercando di respirare, dopo quel colpo in pancia tanto forte da mozzare il fiato.
«La mia Chiara!», gridò la madre, perdendosi in un pianto infinito. Il marito, il padre, non sapeva far altro che sorreggerla; sentiva troppo dolore per poter lacrimare.
«La mia Chiara...», sussurrò ancora la donna.


Non mi ero mai chiesta perché mi sentissi inadatta lì, sul treno che andava, fra tutti quegli altri giovani dall’aspetto maturo.
Ognuno di loro aveva una vita alle spalle – non io; io possedevo soltanto pochi ricordi, un soffio di memoria, e avevo pochi anni d’età. Ero diversa, impreparata a quel viaggio.
E così lui, Tommaso, che era pieno di vitalità; anche lui era inadatto a svanire, perché c’era qualcosa che lo teneva attaccato ai suoi preziosi racconti, al suo corpo e al mondo.
Ma poi, quando mi aveva finalmente trovato, eravamo stati divisi.
Non gli bastava davvero la vita per cogliere il suo amore; non gli sarebbe bastata mai.








*

Ispirata a Afterschool nightmare e a ciò che ho visto oggi dal finestrino del treno. Quei due, Tommaso e Chiara, erano in fin di vita... i passeggeri svaniti dal treno sono morti del tutto e con essi Chiara.
Grazie a Cloddy per la recensione al capitolo scorso, ti amo *_*.
   
 
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