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Autore: Rika Chidori    08/02/2010    1 recensioni
One shot. Una notte nebbiosa,una ragazza sola e il desiderio di vendetta.
Scritta durante una notte altrettanto scura.
Genere: Dark, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quella sera faceva un freddo cane.

Le luci dei pochi lampioni sul ciglio della strada riempivano l’atmosfera di un colore giallastro, filtrato dalla sottile nebbiolina che era calata da poche ore.

Respiravo lentamente - come ogni volta che facevo quella cosa - osservando le piccole volute di vapore toccarmi la punta del naso. Respira, uno – due, respira, uno – due.

Alla fine vidi arrivare ciò che aspettavo. Un autobus, l’ultimo di quella sera, cigolando da bravo vecchio rottame arrancò sputacchiando verso la fermata. Non mi servì nemmeno un gesto, l’autista si fermò. D’altronde, non mi si poteva non notare in quella strada deserta di periferia, soprattutto perché erano le due di notte ed io sono solo una ragazza. Sola, per di più.

Il rumore delle porte che si aprivano sembrava l’ansimare di un cane. L’autista mi lanciò un’occhiataccia degna di mio padre, mentre recuperavo dal fondo della tasca un biglietto spiegazzato e lo timbravo.

Girai lo sguardo intorno ai sedili e… ecco, lo sapevo. Non potei impedirmi di fare una specie di smorfia e avanzai un po’ malferma fino al sedile più vicino all’uscita.

L’autobus ripartì, accompagnato dal solito tramestio sordo, sbalzando ogni tanto su una strada che non vedeva il cemento da ormai troppo tempo. Intravidi il mio riflesso sul vetro. Avevo l’aria sciupata, il viso pallido e le occhiaie violacee testimoni di molti notti passate insonni. Incurvai appena le labbra.

All’improvviso mi accorsi del suo sguardo su di me. Un breve brivido mi percorse, ma mi ripresi subito. Strinsi a me la borsa che mi portavo dietro. Di pelle finta, dall’aria assolutamente innocente, forse un po’ fuori moda. Ma ottima allo scopo.

Riluttante mi voltai dietro di me, incontrando lo sguardo dell’uomo che avevo già adocchiato da subito. Aveva un aspetto trasandato, con capelli biondo sporco e uno sguardo torbido… ma perché continuare a fissarlo? Mi girai di scatto, ingoiando a fatica la saliva attraverso quel groppo in gola che mi si era formato.

Respira, dai. Uno – due, uno – due, come sempre. In fondo, non è la prima volta.

E poi arrivò il momento.

Mi alzai dal sedile, prenotando la fermata. Il vetro della porta rifletteva la mia immagine. Ero avvolta da un cappotto nero, così come erano neri i jeans sporchi e le scarpe da ginnastica. Sulla testa, un berretto di lana un po’ troppo grande troneggiava sulla mia figura esile. Vidi l’uomo alzarsi e avvicinarsi all’uscita come un’ombra.

Lo scricchiolio mi suggerì che l’autobus si era fermato, ed infatti le porte si aprirono. Saltai fuori sbattendomi in faccia l’aria gelida della notte. Mi risistemai il berretto, lasciandolo volutamente sformato sulla testa e avanzai a passi misurati. Notai con sollievo di non aver sbagliato fermata: la strada era deserta e male illuminata; c’erano solo qualche casa e l’insegna di un bar a più di 500 metri di distanza.

Con la mente rimestai l’impasto vorticoso dei miei ricordi. La prima volta che lo feci avevo poco più di diciotto anni. Ma dovevo farlo, era un dovere. Un conto in sospeso che avevo con loro, che avrei avuto sempre. Come al solito, me l’ero squagliata da casa mia uscendo dalla finestra della mia camera. Mia madre non si era mai accorta delle mie assenze notturne, no, lei era sempre troppo stanca e troppo concentrata sul suo lavoro per accorgersi di me.

Mi sentii più determinata. Sentivo i passi strascicati dell’uomo dietro di me, e capii che dovevo agire, che non potevo più giocare al gatto e al topo. Continuai a camminare, scrollando la testa. Come previsto, il berretto cadde dietro di me.

“Un passo, ora due, ora tre. Girati.”

Mi girai con un falso sorriso sulle labbra e l’aria sbadata. Sapevo che l’avrebbe raccolto, e infatti era chino, con una strana luce negli occhi ingialliti. Alzò la schiena e fissò prima me, poi il berretto.

-Ah, che sbadata. È il mio (certo, stupida, di chi vuoi che sia?). Grazie.- dissi, tendendo la mano verso di lui. L’uomo aveva uno sguardo strano, e già intuivo cosa stava per fare.

Quando feci per afferrare il berretto, mi prese il polso e mi tirò con forza. Nonostante l’avessi intuito, non riuscii a trattenere un sussulto, e mi ritrovai faccia a faccia con lui.

Rimanemmo a fissarci per qualche secondo, prima che lui schiudesse le labbra e con gesto volutamente vorace e disgustoso si passasse la lingua sulle labbra.

-Cosa ci fa una piccolina come te da sola a quest’ora?- grugnì con voce roca. Parlava aprendo appena la bocca.

-Ti prego, lasciami stare. Lo so cosa vuoi da me!- ribattei fingendo remissione. Lui sembrò acquistare sicurezza, mentre mi stringeva sempre più forte. Riuscivo quasi a sentire l’alito fetido che soffiava attraverso i denti.

-E invece non hai capito niente, topolino.- sibilò compiaciuto. Subito dopo lo vidi allargare la bocca e finalmente capii che si era scoperto.

In un lampo, quasi involontariamente, mi liberai della presa, appena in tempo per vedere i denti aguzzi chiudersi invano dove prima c’era il mio collo scoperto. Indietreggiando di qualche passo riuscii a cogliere la sua espressione stupita.

-Ho capito tutto, invece, razza di lurido mostro.- risposi con rabbia. Ebbi appena il tempo di aprire la borsetta quando mi si fiondò addosso con tutto il suo peso. Lo scansai, spingendolo di lato con fatica. Con un urlo cercò nuovamente di aggredirmi buttandomi per terra. Mi ritrovai a lottare nell’erba umida di un aiuola scalciando sul petto e nel basso ventre del mio avversario. Lui, dal canto suo, aveva iniziato a mollare calci nel tentativo di tenermi ferma.

Riuscii a farlo crollare con un colpo ben assestato in mezzo alle gambe, e approfittai del momento mentre gemeva a terra. Raggiunsi a carponi la borsetta e riuscii ad estrarre il mio coltello. Dodici centimetri di puro argento, lucidato tutte le sere con fatica nel buio della mia camera.

Strisciai verso di lui, ammacchita, con il corpo che doleva terribilmente. Ci alzammo contemporaneamente, ed io mi lanciai dritta verso di lui con tutta la forza che avevo in corpo.

Mi scansò una, due, tre volte. Non esibiva più quell’espressione trionfale di qualche attimo prima, sembrava piuttosto sbalordito e spaventato insieme.

-Tu sei quella… quella…- ansimò stringendo i pugni.

-Tu non sai chi sono io!- risposi, e mi gettai con violenza sul suo corpo.

Accadde tutto in un secondo brevissimo. Vidi la mano, il bagliore luccicante della mia arma e infine il suo petto. L’avevo colpito in pieno. Con rabbia, conficcai sempre più la lama trapassando i tessuti di quell’essere. Come ogni volta che succedeva, potevo sentire ogni cellula, ogni vena distrutta al passaggio del coltello. Come se i nervi della mia mano assassina mi trasmettessero il messaggio di morte di una pelle disumana.

Quando lo estrassi, cadde come un sacco sul terreno umido. Ringraziai mentalmente la nebbia che attutiva il paesaggio; forse non mi avrebbero vista.

Nel frattempo, il suo corpo si stava disfacendo sotto i miei occhi: pelle, capelli, ogni singola cellula sembrava bruciare e tremava, accompagnata da un insopportabile odore di carne morta.

La sua carcassa si disfece emanando ancora più puzzo. Mi coprii la bocca con la mano libera e un conato di vomito mi assalì. Sapevo che non era solo causa dell’odore. Ero presa dalla nausea ogni volta che ne ammazzavo uno.

Dopo aver raccolto il berretto sfilacciato, arrancai disgustata, allontanandomi dal corpo. Nel giro di qualche minuto si sarebbe dissolto nell’aria, e io non avrei avuto più nulla per cui preoccuparmi.

Sapevo benissimo che le prede a cui puntavano erano solamente dei luridi vermi di strada, troppo logorati dalla sete per potermi tenere testa. Ma sapevo anche che forse non ce l’avrei fatta ad affrontarne uno di quelli che stavano in alto, quelli delle confraternite e delle sette. Quelli che puzzavano di soldi invece che di lerciume.

Eppure le voci sul mio conto si stavano amplificando. Non mi era stato difficile estrarre quelle poche informazioni dalle mie vittime precedenti, da quegli altri mostri che avevo giustiziato. Bastava metterli sotto la minaccia del coltello, e loro parlavano. Tanto poi li assassinavo comunque.

Alcuni dicevano che ero una specie di omaccione enorme che terrorizzava al solo sguardo. Altri, più perspicaci, avevano capito che ero una donna, e mi chiamavano “la falce”, “la strega” e altri stupidi e inutili soprannomi.

Con una mano tremante, estrassi una sigaretta dalla borsa e cercai di portarla alla bocca; cadde, rotolando sul marciapiede sudicio.

-Maledizione- borbottai, mentre mi chinavo a recuperarla. La accesi e ne aspirai una boccata. Subito mi misi a tossire violentemente, portandomi la mano al petto. Stupida allergia da fumo. Ma ormai avevo il vizio, e non potevo negarlo a me stessa, nemmeno alle mie unghie che andavano ingiallendosi e che tagliavo tenacemente.

Iniziai a camminare verso il centro abitato; mi sfuggì un sospiro, e ripresi ad aspirare il forte odore di tabacco e nicotina. Mi faceva rabbia pensare di essere dipendente da qualcosa, ma fumare era l’unica cosa che riusciva a calmarmi i nervi; non osavo comprare dei calmanti, sapevo che sarebbe stato sicuramente peggio.

Dopo alcuni minuti, sentii la calma scendere su di me, dolce e potente. Avevo finito la sigaretta, che ora giaceva sulla strada umida di nebbia.

Erano sempre i primi attimi quelli peggiori, ogni volta che uccidevo un vampiro. La nausea, la puzza, la sensazione terribile di trapassare un corpo. Sapevo che non era umano, che erano degli assassini crudeli in cerca di vittime innocenti, mostri luridi e disgustosi che approfittavano anche dei bambini. Ma non riuscivo a trattenere quella sensazione di oppressione, e a volte, nonostante sembrasse tutto a posto, mi risvegliavo la mattina seguente con un’emicrania tanto forte da farmi girare la testa come una trottola.

In quei momenti mi vergognavo profondamente. Non sarei mai stata come lei, come la sorella di mio padre. Lei era forte. Era potente. Lei non li aveva perdonati per quello che avevano fatto a mio padre, no. E ucciderli non la toccava nel profondo come succedeva a me, non sentiva i rimorsi, non si faceva domande, ne ero certa. E anche se ora mi aveva abbandonata, sarei stata abbastanza coraggiosa da continuare da sola.

Ricordavo con estrema chiarezza quella sera in cui lo vidi morire. Mi dissero che mi ero suggestionata, che non c’era un terribile mostro avvinghiato al suo collo. Che mi ero inventata tutto.

E invece mia zia mi credette, mi aiutò, mi disse di tacere con mia madre. Non mi nascose nulla, ma mi vietò di andare a cercare vendetta. E perché avrei dovuto starmene buona, a piangere e morire dentro, quando potevo ammazzarli tutti? Io potevo, era nel mio sangue.

Ecco perché ero lì. E ancora non avevo pace.

Quanti chilometri feci prima di arrivare ad un’altra fermata dell’autobus? Non ricordo. Riuscii ad arrivare a casa prima dell’alba. Mi arrampicai fino al mio balcone, al piano terra. La finestra era ancora socchiusa, così potei sgattaiolare nella mia camera.

Mi spogliai velocemente e mi infilai sotto lo spesso plaid del mio letto.

Appena chiusi gli occhi, una folla di pensieri mi accolse, per poi trasformarsi in incubi, mostri e demoni finché il dormiveglia si attutì in un sonno profondo. La mente vorticava veloce, incerta, terribile.

 

 

Io sono la strega, la falce, la cacciatrice. E nessuno mi fermerà.

  
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