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Autore: Manny_chan    11/02/2010    5 recensioni
Un ritorno al passato, tanto doloroso quanto liberatorio. In una villa ottocentesca piena di ricordi Benjamin cerca di ritrovare la sua pace...
Genere: Triste, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non è assolutamente mia intenzione offendere nessuno con gli argomenti trattati.
Sono conscia della loro pesantezza e ho cercati di trattarli con la dovuta delicatezza.
Sono paticolarmente affezionata a questa storia e ai suoi personaggi.
Leggete con la dovuta delicatezza e quando abbandonerete la lettura fatelo in punta di piedi, per non disturbarli...






Nuovo lavoro, nuova vita.
Era quella la filosofia di Bejamin.
Aveva, per pura fortuna, trovato un lavoro come giardiniere in una villa situata nella campagna inglese; lui era un animale cittadino, ma per un po’ poteva anche sacrificarsi e seppellirsi nella nebbiosa brughiera.
Mentre camminava lungo la strada acciottolata intercettò lo sguardo di alcune ragazze che, nonostante le gonne lunghe e l’aria composta, non poterono fare a meno di lanciargli un’occhiata molto approfondita.
Benjamin sorrise loro di rimando; era attraente, e lo sapeva. I lunghi capelli neri erano raccolti in una coda, aveva il viso mascolino e rasato di fresco, la pelle abbronzata gli occhi scuri e i lineamenti dritti e regolari.
Raggiunse l’entrata della pittoresca villa ottocentesca a suonò il campanello. Gli aprì un uomo di mezz’età, dall’aspetto imponente e dalla classica divisa da maggiordomo.
“Desidera?”
“Sono Benjamin Keller, sono qui per il posto da giardiniere”, rispose lui, sfoderando un sorriso smagliante
“Benjamin Keller, ha detto?” Il maggiordomo lo squadrò da capo a piedi.
“In carne e ossa, abbiamo parlato per telefono, posso vedere il capo della baracca?” La strafottenza era il suo biglietto da visita.
Il maggiordomo inarcò un sopracciglio; “Non credo sia possibile, anzi, credo proprio che non lo vedrà mai”, fu la laconica risposta,
Benjamin rimase davvero perplesso; “E perché mai?” Tornò all’attacco.”E’ un mostro deforme e cannibale che va tenuto rinchiuso in cantina?”
Il maggiordomo lo gelò con un’occhiataccia; “Il padrone non esce spesso dalla sua stanza, tutto qui”, tagliò corto.
Meno di mezz’ora dopo Benjamin era stato già messo al lavoro. Faceva caldo e a mezzogiorno divenne impossibile lavorare.
Mentre girava attorno alla villa per trovare un posto più fresco per riposare fu raggiunto da un suono dolce e melodioso. Veniva dalle finestre situate al secondo piano della villa, proprio sopra la sua testa.
Un pianoforte, dedusse. E anche suonato da qualcuno con un gran talento. Non aveva mai sentito nulla di più perfetto, anche se la composizione non era una delle sue preferite. La trovava un po’ infantile a dirla tutta. Però, suonata a quel modo…
Sua madre era stata una grande appassionata di musica. Passione che, nonostante fosse rozzo e scapestrato, gli era rimasta nel sangue.
D’improvviso fu ansioso di scoprire chi fosse a suonare e in meno di un minuto aveva già elaborato un piano per riuscirci.
Farsi sbattere fuori a calci dopo circa un’ora di lavoro sarebbe stato il record di durata minima di un impiego; la curiosità però era sempre stata il suo peggior difetto.
Sfruttando uno dei gazebi che costellavano il giardino si arrampicò fino ad uno dei balconcini; le finestre erano aperte e le tende tirate, poté quindi introdursi senza particolari problemi all’interno della stanza.
Si accorse immediatamente che il “pianista”, che con tutta probabilità era anche il “padrone”, era estremamente giovane a giudicare dalla corporatura munita e delicata.
Era voltato di schiena; una cascata di capelli fulvi ricadeva in morbidi ricci sulle sue esili spalle. Ma furono le mani a colpirlo di più, delicate e dalle dita affusolate, volavano leggere come farfalle sui tasti del pianoforte, traendone una melodia limpida e pulita. Senza alcuna imperfezione.
D’improvviso si rese conto di ciò che aveva appena fatto spaventato dalle possibili conseguenze e, in parte, anche dalla sua fervida fantasia. E se davvero il “padrone” fosse stato un mostro deforme? O peggio cannibale?
Fece per tornare saggiamente da dove era venuto quando la musica si interruppe di colpo ed il giovane si voltò di scatto, allarmato.
Solo in ritardo Benjamin si accorse della specchiera di fronte al pianoforte in cui il pianista aveva probabilmente scorto la sua immagine. Be, per lo meno non era deforme; aveva anzi un bel viso delicato e spruzzato di lentiggini e gli occhi di un verde disarmante, sul fatto che non fosse cannibale però non ci avrebbe scommesso.
Il ragazzo si alzò in piedi; “Chi sei?” Fu la prima domanda che gli pose.
Benjamin non poté fare a meno di notare quanto fosse delicata e fragile la sua voce. “Il tuo nuovo giardiniere, a quanto pare, anche se temo ancora per poco”, disse passandosi una mano tra gli scarmigliati capelli scuri e facendo una smorfia.
Il ragazzo fulvo sorrise lievemente, “Ah già, di solito quando un giardiniere si introduce di soppiatto in camera del proprio datore di lavoro viene licenziato senza pietà, vero?” Il suo tono però era ironico, non sembrava arrabbiato; tant’è che si presentò, allungando la mano delicata per stringere quella del giardiniere. “Julian”, disse.
Benjamin la strinse con delicatezza, quasi temesse di romperlo. “Non mi sono introdotto di soppiatto”, rettificò. “Solo… Ero curioso di sapere chi fosse a suonare così bene”.
Julian inarcò un sopracciglio con aria perplessa, “Ti intendi di musica?” A guardarlo non lo avrebbe mai detto.
Benjamin sogghignò, “Me ne intendo abbastanza per dirti che mezzogiorno non è l’orario più adatto per suonare la Ninna nanna di Bhrams.”
“Oh, ok, sono molto colpito”, borbottò divertito Julian. “Ma ti dovrai abituare, è il mio pezzo preferito, lo suono praticamente ogni volta che mi capita.”
“Mi dovrò abituare? E’ un modo contorto per dirmi che non mi licenzierai?” Benjamin non era del tutto convinto di quello che aveva appena sentito.
Julian scrollò le spalle; “A buon intenditor…”, disse mentre tornava a sedersi al pianoforte. Riprese a suonare come se niente fosse successo, la stessa melodia. E una volta finita la ricominciò daccapo, quasi volesse andare avanti in eterno.
Benjamin lo ascoltò per qualche minuto prima di avvicinarsi; “Che devo fare per farti cambiare melodia?”
“Tornare al lavoro”, fu la lapidaria risposta di Julian, che però sorrise incrociando il suo sguardo. “E non direi di no ad un bacio”, aggiunse.
Benjamin inarcò un sopracciglio, poi scoppiò a ridere; “Spiacente piccolo; non vado in giro a baciare i ragazzini!”
Julian aggrottò le sopracciglia assumendo un espressione adorabile; “Non sono un ragazzino, ho ventiquattro anni!” Sembrava essersela presa parecchio. E se la prese ancora di più quando il giardiniere lo guardò con aria scettica.
“Spiacente, ma non ci credo proprio che tu abbia la mia età”, disse…

~.~.~.~.~.~.~.~.~.~.~.~.~.~.~.~


Benjamin aprì gli occhi di colpo, accorgendosi di stare scivolando giù dal sedile dello scalcinato autobus.
Si tirò su, appoggiando la fronte al finestrino; gli ci volle qualche minuto per riprendersi da quel sogno. Tornò con il pensiero al punto in cui si era interrotto e, nonostante la situazione, non poté fare a meno di sorridere.
Julian aveva fatto il diavolo a quattro per convincerlo di avere la sua stessa età; purtroppo lui aveva compreso solo troppo tardi il motivo del suo essere così esile e minuto.
Lo aveva scoperto nel più brutale dei modi quando, un mese prima della sua morte, la sua malattia si era aggravata a tal punto che non gli era più stato possibile nasconderla all’giardiniere. Che ormai era diventato qualcosa di più che un semplice dipendente. Tant’è che alla fine era riuscito a fargli cambiare melodia…
Benjamin si riscosse da quei pensieri; si passò una mano sul viso, accorgendosi solo in quel momento che i passeggeri sconosciuti che erano saliti con lui un numero imprecisato di fermate prima erano già scesi tutti, lasciando il posto a facce conosciute che lo guardavano con un misto di stupore e compassione. Probabilmente si stavano chiedendo cosa fosse tornato a fare. Altri ancora, con tutta probabilità, lo stavano giudicando per il suo aspetto.
Chissà, magari pensavano che fosse diventato un barbone; coi capelli scarmigliati, la barba di tre giorni, gli occhi cerchiati ed arrossati non sembrava né più né meno che quello.
Ma Benjamin non era tipo da farci troppo caso, non in quel frangente per lo meno.
Quando finalmente l’autobus raggiunse il capolinea scese senza guardarsi indietro e si incamminò verso la villa ottocentesca che sorgeva sulla collina.
Dalla sua camminata si poteva intuire che aveva bevuto. E anche parecchio.
Forse qualcuno lo vide imboccare il viale che portava all’abitazione. E forse qualcuno intuì anche che cosa gli passasse per la testa, ma ognuno continuò a farsi gli affari suoi, distogliendo persino lo sguardo da quel pietoso spettacolo.
Benjamin si appoggiò alla porta quando arrivò finalmente alla casa. Ogni passo gli era costato una fatica immensa. Si frugò nelle tasche alla ricerca della chiave e aprì la porta, non senza aver litigato con la serratura. I cardini stridettero fastidiosamente, segno che da molto tempo quell’ingresso non veniva usato. Quando Julian e la sua musica erano venuti a mancare la servitù se n’era andata, lasciando quella casa vuota, silenziosa… Morta.
Il fatto che fosse così grande e isolata ne amplificava la solitudine. Il padre di Julian era stato un grande pianista, tanto famoso quanto eccentrico. Era stato lui a volere una casa tanto lugubre e isolata, casa che Julian aveva ereditato assieme ad una discreta fortuna, al talento per la musica… E alla malattia che lo aveva lentamente consumato.
Salì le scale che portavano al piano di sopra; la mano con cui si reggeva al corrimano lasciava dei solchi nella polvere accumulatasi in tutto quel tempo.
Un passo dopo l’altro, pesanti come macigni, riuscì ad arrivare davanti alla stanza dove Julian suonava senza sosta per ore e ore, instancabile. Viveva per la musica…
Picchiò con violenza un pugno contro il legno che scricchiolò, indebolito dal tempo e dai tarli, poi vi poggiò la fronte. Il respiro si era fatto affannoso e spezzato. Per alcuni lunghissimi minuti rimase lì, immobile.
Finalmente si fece forza, abbassando la maniglia ed entrando. La luce aranciata del tramonto filtrava tenue dalle pesanti tende; le vetrate erano rotte, probabilmente a causa di qualche temporale.
Benjamin sospirò piano, camminando come uno zombie fino al pianoforte al centro della stanza. Lo accarezzò amorevolmente, come se in qualche modo potesse per riflesso toccare ancora Julian.
“Ma cosa credevi? Che non dicendomi nulla ti avrei odiato per avermelo tenuto nascosto?”, mormorò ad un tratto. “Che avrei trovato in quell’odio la forza di andare avanti?”
Non era così. Non riusciva più a fare nulla senza di lui. “Sono passati tre anni dall’ultima volta che sono stato qui, ma non mi sento meglio di come stavo. Anzi… La tua mancanza si fa ogni giorno più straziante…”
Continuò a parlare, a lungo chinando lentamente la testa fino ad appoggiarla al legno polveroso del pianoforte. Quell’oggetto, che al momento era vuoto e senz’anima, riusciva a dargli un poco di conforto. Era come sentire di nuovo Julian accanto a sé…
In quell’ultimo mese gli aveva confessato di essersi recluso volontariamente in quella stanza per evitare di soffrire troppo e far soffrire le persone che avrebbero potuto affezionarsi a lui in quel poco tempo che gli rimaneva da vivere. Gli aveva raccontato, implorandolo di perdonarlo, come il bisogno di avere qualcuno, un amico, si fosse fatto talmente intenso e lacerante da impedirgli di allontanarlo come aveva fatto con chiunque. E di come, quando si fosse accorto del tenue cambiamento che stava avvenendo nella loro amicizia, non avesse avuto il coraggio per troncare del tutto. Piangeva, mentre glielo raccontava, spaventato dalla possibilità che lui si arrabbiasse, che lo odiasse, che lo lasciasse solo proprio nel momento in cui aveva più bisogno di qualcuno che gli facesse coraggio…
Ma Benjamin non riusciva ad odiarlo. Non poteva biasimarlo per avergli tenuto nascosto quello che giorno dopo giorno lo consumava lentamente. Per aver desiderato con tutto sé stesso prima un amico, poi quell’amore che non aveva mai potuto avere.
Sollevò la testa dal pianoforte quando colse un movimento, una delle tende si muoveva lentamente, ondeggiando spinta da un filo di vento.
Si alzò, pensando a quante volte si era intrufolato e nascosto proprio dietro quelle tende per ascoltare Julian e guardarlo suonare senza che lui se ne accorgesse. Lasciò quella stanza per entrare in quella comunicante, la stanza di Julian. Non si soffermò a guardarla, aveva troppi ricordi e troppo dolorosi legati a quella stanza; passò invece al piccolo bagno “privato” del giovane pianista.
Privato perché era l’unica stanza della casa a cui gli era stato negato l’accesso, almeno fino a quell’ultimo doloroso mese.
L’armadietto dei medicinali era strapieno di pillole, antidolorifici e sonniferi per quando il dolore era talmente forte da impedirgli di dormire.
Allungò un braccio e recuperò un flacone ancora sigillato. Guardando la confezione si accorse che erano scaduti da un pezzo; sorrise nell’accorgersi di quella preoccupazione inutile.
Aprì l’acqua del rubinetto che sgorgò scura e rugginosa; aspettò che tornasse limpida prima di riempire un bicchiere che aveva recuperato da un armadietto.
Sorrise di nuovo, quante preoccupazioni inutili…
Aprì il flacone dei sonniferi e versò le capsule nel bicchiere; dovette riempirlo più volte prima che si sciogliessero definitivamente e riuscisse ad ingoiarle tutte.
A fatica, appoggiandosi al muro, tornò nella stanza del pianoforte stendendosi sul divanetto di fronte allo strumento; si stendeva sempre li quando, dopo il lavoro, saliva da Julian e si metteva ad ascoltarlo per ore…
Benjamin si raggomitolò su sé stesso mentre, lentamente, le sue palpebre e le sue membra si facevano sempre più pesanti. Accolse il buio quasi con gioia e si mise in attesa che anche il suo cuore rallentasse. Sempre di più. Fino a spegnersi come una candela che è rimasta accesa per troppo tempo senza ossigeno.
Era Julian il suo ossigeno. In quei due anni che avevano passato assieme lo aveva rigenerato; cambiato, fatto innamorare…
Gli sembrava passato un secolo, ma forse si trattava solo di qualche secondo, quando una corrente gelida lo fece rabbrividire. Gli sembrò quasi di sentire qualcuno che gli appoggiava una mano gelata sulla fronte, ma quella sensazione svanì un attimo dopo, effimera com’era venuta.
Fu a quel punto che la sentì, improvvisa. La musica. Quella melodia che aveva finito per odiare dal tanto che l’aveva ascoltata ma che in quell’ultimo periodo gli era mancata più dell’aria.
Cercò di aprire gli occhi, riuscendo però solo a scorgere un riflesso dl colore del fuoco vicino al pianoforte prima che le palpebre, troppo pesanti perché potesse tenerle aperte si richiudessero inesorabilmente.
Un riflesso. Poteva benissimo essere un riflesso del tramonto ed un’allucinazione uditiva dovuta dal farmaco.
Ma reale o no non aveva importanza. Era ciò che più bramava sentire.
Le sue labbra si incurvarono in un tenue sorriso mentre, cullato da quell’eterea ninna nanna, si lasciava accogliere da quel sonno ovattato che cercava da tempo…
   
 
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